Forse Elie Wiesel, che
nel 1986 vinse il Premio Nobel per la Pace per il suoi impegno civile
contro razzismo e violenza, avrebbe poi dovuto riconsegnarlo,
considerato il suo sistematico allineamento con le scelte dei governi
israeliani, perfino in quelle pratiche di colonizzazione che neppure
il più benevolo degli osservatori può interpretare come autodifesa.
In verità Wiesel non è stato né il primo né l'ultimo vincitore di
Nobel a smentire le speranze in lui riposte da chi assegna il premio.
La paginetta di memorie che qui recupero da un vecchio “Europeo”
mi pare comunque assai bella, rievocazione di un mondo perduto su cui
si è abbattuta una immane tragedia. (S.L.L.)
Non ho mai incontrato
Joseph Roth. Morì nel 1939 a Parigi, quando io ancora andavo a
scuola nella mia cittadina natale inselvata qua o là fra i Carpazi
in Transilvania. Ma conosco la sua opera di romanziere e l'ammiro. II
suo universo mi è familiare, il suo paesaggio mi è vicino. Mi ci
muovo come per le strade polverose e assolate della mia infanzia. Ci
ritrovo le foreste e i loro fantasmi, le fiere paesane e i loro
odori, i mendicanti e le loro canzoni; ci ritrovo anche gli ebrei,
giovani e vecchi, sorridenti e malinconici, che ancora oggi al di là
della loro morte seguitano a sconvolgermi, tanto suggerisce disfatta
e abbandono quel loro destino fatto di preghiera e di speranza. Sono
gli ebrei dell'Europa centrale, e non si può adottare verso di loro
un atteggiamento indifferente. O li si ama o li si detesta. Ma io li
amo. Li amo perché troppo li hanno detestati e in troppi e per
troppi motivi e per troppo tempo. Li amo perché loro non sono più
di questo mondo: inghiottiti da una tempesta di cenere.
Li amava anche Joseph
Roth. Malgrado il suo augurio di essere definito «ebreo assimilato».
Suo malgrado. Per rendersene conto basti leggere e rileggere il suo
Ebrei erranti. Nella prefazione, manifesta per loro più che
affezione. Tutto il libro è un canto d'amore per quegli ebrei di
Galizia o di Romania che certi spiriti cosiddetti illuminati
trattavano con sprezzo imperdonabile, rimproverandoli di essere
«sporchi». Ma non per quelli aveva scritto il libro. Diceva: «Nutro
la folle speranza che esistano ancora i lettori dinanzi ai quali non
occorre stare a difendere gli ebrei dell'Europa orientale, i lettori
che hanno stima per il dolore, per la grandezza umana e per la
sporcizia che accompagna dappertutto la sofferenza». Sporchi?
Preferisco dire «poveri».
Già, erano ben poveri
quegli ebrei nei loro paesini e cascinali dimenticati. Lo ignoravo
allora; oggi lo so. Me ne sono reso conto molto più tardi, quando
sono rientrato nella mia città vent'anni dopo che ne ero uscito. Ho
rivisto le case degli amici: tuguri umidi e bui. Ho rivisto le
botteghe dove speziali e sarti, pescivendoli e rilegatori si erano
dati da fare dalla mattina alla sera o fino a notte per poter
sopperire ai bisogni delle loro famiglie sempre troppo numerose. Ho
rivisto la casa di mio padre: mi si spezzava il cuore. E io che avevo
creduto fossimo ricchi... No, da noi i ricchi erano semplicemente
meno poveri dei poveri, niente di più. Con la differenza che i
poveri erano consapevoli della loro povertà, i ricchi no. Alla fine
hanno conosciuto la stessa sorte. Tutti scomparsi. Il nemico non
voleva nessuno di loro nel suo regno su cui sette volte è scesa la
maledizione e sette volte il maleficio. Loro lo disturbavano. Doveva
sbarazzarsene. Provo spesso il bisogno irresistibile di rivederli.
Chiudo gli occhi come rispondendo a un appello nostalgico e me li
evoco alla mente. Per rivedere loro vivi? Per rivedere me in vita.
Dopotutto, a loro devo molto. Devo la mia memoria. Che cosa sarei
senza la memoria? Che cosa sarei senza di loro?
“L'Europeo”, 9 maggio
1987
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