9.6.14

Ebrei di Galizia (Elie Wiesel)

Forse Elie Wiesel, che nel 1986 vinse il Premio Nobel per la Pace per il suoi impegno civile contro razzismo e violenza, avrebbe poi dovuto riconsegnarlo, considerato il suo sistematico allineamento con le scelte dei governi israeliani, perfino in quelle pratiche di colonizzazione che neppure il più benevolo degli osservatori può interpretare come autodifesa. In verità Wiesel non è stato né il primo né l'ultimo vincitore di Nobel a smentire le speranze in lui riposte da chi assegna il premio. La paginetta di memorie che qui recupero da un vecchio “Europeo” mi pare comunque assai bella, rievocazione di un mondo perduto su cui si è abbattuta una immane tragedia. (S.L.L.)

Non ho mai incontrato Joseph Roth. Morì nel 1939 a Parigi, quando io ancora andavo a scuola nella mia cittadina natale inselvata qua o là fra i Carpazi in Transilvania. Ma conosco la sua opera di romanziere e l'ammiro. II suo universo mi è familiare, il suo paesaggio mi è vicino. Mi ci muovo come per le strade polverose e assolate della mia infanzia. Ci ritrovo le foreste e i loro fantasmi, le fiere paesane e i loro odori, i mendicanti e le loro canzoni; ci ritrovo anche gli ebrei, giovani e vecchi, sorridenti e malinconici, che ancora oggi al di là della loro morte seguitano a sconvolgermi, tanto suggerisce disfatta e abbandono quel loro destino fatto di preghiera e di speranza. Sono gli ebrei dell'Europa centrale, e non si può adottare verso di loro un atteggiamento indifferente. O li si ama o li si detesta. Ma io li amo. Li amo perché troppo li hanno detestati e in troppi e per troppi motivi e per troppo tempo. Li amo perché loro non sono più di questo mondo: inghiottiti da una tempesta di cenere.
Li amava anche Joseph Roth. Malgrado il suo augurio di essere definito «ebreo assimilato». Suo malgrado. Per rendersene conto basti leggere e rileggere il suo Ebrei erranti. Nella prefazione, manifesta per loro più che affezione. Tutto il libro è un canto d'amore per quegli ebrei di Galizia o di Romania che certi spiriti cosiddetti illuminati trattavano con sprezzo imperdonabile, rimproverandoli di essere «sporchi». Ma non per quelli aveva scritto il libro. Diceva: «Nutro la folle speranza che esistano ancora i lettori dinanzi ai quali non occorre stare a difendere gli ebrei dell'Europa orientale, i lettori che hanno stima per il dolore, per la grandezza umana e per la sporcizia che accompagna dappertutto la sofferenza». Sporchi? Preferisco dire «poveri».
Già, erano ben poveri quegli ebrei nei loro paesini e cascinali dimenticati. Lo ignoravo allora; oggi lo so. Me ne sono reso conto molto più tardi, quando sono rientrato nella mia città vent'anni dopo che ne ero uscito. Ho rivisto le case degli amici: tuguri umidi e bui. Ho rivisto le botteghe dove speziali e sarti, pescivendoli e rilegatori si erano dati da fare dalla mattina alla sera o fino a notte per poter sopperire ai bisogni delle loro famiglie sempre troppo numerose. Ho rivisto la casa di mio padre: mi si spezzava il cuore. E io che avevo creduto fossimo ricchi... No, da noi i ricchi erano semplicemente meno poveri dei poveri, niente di più. Con la differenza che i poveri erano consapevoli della loro povertà, i ricchi no. Alla fine hanno conosciuto la stessa sorte. Tutti scomparsi. Il nemico non voleva nessuno di loro nel suo regno su cui sette volte è scesa la maledizione e sette volte il maleficio. Loro lo disturbavano. Doveva sbarazzarsene. Provo spesso il bisogno irresistibile di rivederli. Chiudo gli occhi come rispondendo a un appello nostalgico e me li evoco alla mente. Per rivedere loro vivi? Per rivedere me in vita. Dopotutto, a loro devo molto. Devo la mia memoria. Che cosa sarei senza la memoria? Che cosa sarei senza di loro?


“L'Europeo”, 9 maggio 1987

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