Un articolo di cronaca, su una mostra
milanese del 1980, con alcune notazioni che aiutano a capire il
significato profondo della Ruota e la cultura che si esprime in
codesta istituzione. (S.L.L.)
Quattro padri per un neonato
MILANO
Mosè, Edipo, Remolo e
Remo: questi illustri trovatelli, ritratti da mani più o meno
famose, aprono il percorso della mostra Esposti e abbandonati,
inaugurata iersera, nell'aula magna di Brera. Alla cerimonia era
presente il cantastorie pavese Adriano Callegari, uomo ancora capace
di far piangere sulla perfìdia delle madri. L'accostamento non
sembri ironico. La mostra si muove su due piani: da un lato documenta
il tipo di assistenza che Milano assicura, fin dall'alto Medioevo, ai
trovatelli; dall'altro evoca, con ben piazzati suggerimenti, alcuni
del modi con cui gli uomini hanno cercato — nella cultura — di
venire a patti con la realtà dell'abbandono.
Nel breve percorso
zigzagante, ira vetrine e pannelli, il visitatore è bombardato da
messaggi di gran contenuto emotivo. Lo «xenodochio», primo
ospizio per trovatelli d'Europa, fondato a Milano nel 787 dal prete
Dateo. La ruota della Ca' Grande, che ha smesso di girare solo nel
1868. I libri degli ospizi, con la puntigliosa annotazione degli
arrivi di bimbi, madri, balie.
«Marini Giovanna, nubile
di Vidigulfo, accettata gràvida, raccomandata da sua eccellenza la
signora contessa Archinti, à deposto che il padre della creatura è
un balosso che la sforzò su d'una strada». «Basti Rosa, nubile di
anni 30, à deposto che i complici sono molti ». Una donna di cui non decifriamo il
nome, dice che «i padri della creatura sono quattro cacciatori che
la sorpresero mentre faceva legna». Queste sono testimonianze della
seconda metà del '700, scelte tra le migliaia. Nel loro linguaggio
burocratico, insieme con le cifre da capogiro, ci dicono che
l'abbandono è, nella storia dell'uomo occidentale, «cosa normale».
Per questo, forse, il
tema dell'abbandono non ha trovato alte forme di espressione
artistica, se non per il tramite del mito. Quando il trovatello non è
raccolto né dal Faraone, né da Giocasta, suscita al massimo
indignazione o pietà. Vediamo alla mostra opere di Cremona,
Zandomeneghi, Gemito: non ci dicono nulla. La riproduzione del quadro
di Hogarth, Gin Lane, ci pare un'allegoria. La bibliografia
dei romanzi dell'800 imperniati sull'abbandono e i brani della
Ginevra di Antonio Ranieri, ci fanno ridere, come le locandine
delle Due Orfanelle o i testi delle canzoni strappalacrime. Si
ha l'impressione che il tema dell'abbandono, la contraddizione tra
l'orrore che presumibilmente dovrebbe provocare, e la sua
«normalità», sia irriducibile all'arte.
Ma alcuni pannelli, alla
mostra milanese, colpiscono per la grande bellezza degli oggetti che
espongono. Si tratta di bolle a. stampa, compilate dal portiere che
ha ritirato la «creatura» dalla ruota: riportano la
data, l'ora, il numero di «patelli, pattone, fascie, cuscini e
cuffini» in cui il neonato era involto. Sulle bolle sono appuntati i
«viglietti» che erano appesi al collo del neonato: una scritta, più
o meno lunga, e un «segnale».
C'è un «viglietto» —
un cartoncino a decorazioni bianche e seppia — che dice: «Si prega
questo luogo Pio di voler tenere esatto registro, a ricordo di questo
bambino, intendendo li suoi parenti di riaverlo a suo tempo. Fratanto
sarà distinto con il nome di Maometto II».
I «segnali» sono
coroncine di rosario, pettini, puntaspilli, carte da gioco, monete,
immagini sacre: ma tutti tagliati secondo linee bizzarre, che
permettono, a chi è in possesso dell'altra metà, il riconoscimento.
Addirittura: il ricongiungimento.
Ci troviamo quindi di
fronte a dei collage, che accostano in modo straordinario il
documento burocratico, l'espressione di un proposito e di una
speranza, e un povero oggetto quotidiano dilaniato, nel tentativo di
imprimervi un preciso segno di identità. In questi collage la
«normalità» dell'evento (nella bolla burocratica) coesiste con la
sua indicibile eccezionalità (nel segnale). E c'è anche spazio al
grottesco e all'ironico: il bimbo che avrebbe dovuto chiamarsi
Maometto venne battezzato Mamete.
“la Repubblica”,
senza indicazione di data, ma 1980
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