Maria Callas interpreta Medea |
Secondo Aristotele, c' è
chi "per natura comanda" - l' uomo - e chi "per natura
obbedisce" - la donna e lo schiavo. Il primo, dotato di ragione,
è cittadino di pieno diritto, autore di norme, garante dell'ordine.
Gli altri due, congenitamente intemperanti, incapaci, vanno tenuti
sotto tutela e svolgono funzioni puramente materiali: la riproduzione
la donna, il lavoro manuale lo schiavo.
Nel mondo antico la donna
ha un valore strumentale in rapporto alla famiglia e alla comunità;
e da questa concezione basilare derivano i connotati morali che ne
delineano l' immagine, non già quale la donna è, ma quale l' uomo
vuole che sia. E' facile riconoscere questo identikit ufficiale in
quei documenti spesso anonimi - i più rivelatori della scala di
valori d'una società - che sono le iscrizioni funerarie. L'elogio
che riassume nel marmo l'esistenza d'una donna ne sottolinea le
caratteristiche esemplari: la castità (essa fu "pudica"
e "univira", cioè d'un uomo solo), la parsimonia
(essa fu "custos" e "conservatrix"
del patrimonio), il riserbo ("domi mansit", non
usciva mai di casa), l'assiduità al lavoro che solo le si addice,
filare e tessere ("lanam fecit"): canoni
antichissimi, radicati nel subconscio collettivo, ribaditi negli
epitalami anche quando quelle virtù non erano più praticate da
nessuno. La donna era un "ricettacolo inerte, elemento statico
di conservazione": così la definiva Silvia Campese in Madre
Materia (Boringhieri, 1983); "frazione passiva e anonima d'
un gruppo" secondo Moses J. Finley (The Silent Woman of Rome,
1968). Come tale, non deve farsi notare, distinguersi in alcun modo:
"Fulvia sapeva cantare e danzare", scrive Sallustio d' una
signora del demimonde che gravitava attorno a Catilina, "più
che non convenga a una donna perbene".
Fu Romolo, dicono, a
vietare alla donna di bere vino, pena la morte, perchè ritenuto un
farmaco per abortire o afrodisiaco; ed erano sconsigliati anche i
profumi: "odora bene la donna che non ha odore", scrive
Marziale. In I giardini di Adone (Einaudi 1975) e La
pantera profumata (Laterza 1980) Marcel Detienne nota che il
profumo è inseparabile dal peccato: Mirra, che commise incesto con
il padre e Menta, la concubina di Ade, vengono trasformate in erbe
odorose; la pantera, abile simulatrice (“la fera a la gaietta
pelle”, dirà Dante) è simbolo di lussuria: cattura le prede
emanando un profumo che le attira. A volte, la donna nasconde sotto
la sua grazia avidità, sventatezza, disobbedienza: i difetti che
Esiodo condensa in Pandora. Il sospetto, il malanimo si manifestano
nelle misure di rigore che la legge e la famiglia applicano nei suoi
riguardi: perchè della donna non c'è da fidarsi. Con questo essere
privo di diritti, a che servirebbe parlare? Se una donna esprime
un'opinione, sa di commettere un'infrazione alla consuetudine e se ne
scusa: "so bene che il maggior pregio d'una donna è starsene
chiusa in casa, in silenzio", fa dire Euripide alla figlia di
Eracle; e Andromaca, quando rievoca la sua esistenza di sposa di
Ettore, "stavo sempre in casa, non ricevevo femmine ciarliere;
restavo in silenzio"; e infine la sposa di Aiace, che dice d'
aver cercato invano di far tornare alla ragione l' eroe impazzito,
"lui mi rispondeva brevi parole, sempre le stesse"; la
dignità della donna "è il silenzio".
I romani hanno gli stessi
princìpi e gli stessi pregiudizi dei greci. Della femminilità
silenziosa hanno fatto la dea tutelare di Roma, Angerona, che è
imbavagliata, e un'altra che si festeggiava il 21 febbraio, Tacita
Muta. Eva Cantarella, che ha già scritto uno studio, L'
ambiguo malanno, sulla "Condizione e immagine della donna
nell' antichità greca e romana" (Editori Riuniti, 1981) ha
intitolato con il nome di questa divinità un brevissimo saggio - 59
pagine - ora pubblicato dalla stessa casa editrice (Tacita
Muta). La dèa era stata ridotta al silenzio da Giove, che
le aveva strappato la lingua quando era una garrula ninfa, per un
pettegolezzo. Si chiamava Lara; e, in seguito allo stupro subìto da
Mercurio, partorì due gemelli, i Lari, divinità intime e segrete,
custodi del focolare domestico. A questa dèa emblematica della
condizione femminile si contrappone il dio maschile Aius Locutius, il
dio parlante. E infatti quale pregio possedeva l'uomo romano
paragonabile alla forza virile - "Virtus" - se non la
parola, che faceva di lui l'oratore, il retore, il capo-popolo, il
legislatore? Persino gli imperatori vengono ritratti nell'atto di
rivolgere parole d'incoraggiamento ai legionari (l'adlocutio)
più spesso che con la spada in pugno. Nel suo rapido saggio, Eva
Cantarella indaga la condizione della "donna-oggetto" nel
momento ancora nebuloso tra la società arcaica, pre-romana, e la
fondazione di Roma. Rintracciando leggende, culti, leggi, Cantarella
ricostruisce la storia della donna, che è la storia d' un lungo
silenzio. L'autrice nega che vi sia stato un periodo di matriarcato o
di trasmissione matrilineare del potere, come dimostrerebbero alcune
leggende: ad esempio quella di Tanaquilla, la moglie di Tarquinio
Prisco che, valendosi del proprio prestigio, astutamente tenne
nascosta la morte del marito per mettere sul trono Servio Tullio; né
più né meno di Livia, che attese il ritorno di Tiberio prima di
comunicare il decesso di Augusto; e lo stesso fece Plotina quando
morì Traiano, per assicurare lo scettro a Adriano. Se Latino fece re
il profugo troiano, Enea, concedendogli la mano della figlia Lavinia,
fu perché non aveva figli maschi; e i Proci, che corteggiavano
Penelope, non potevano prescindere dal figlio Telemaco: era lui
l'erede legittimo di Ulisse.
Le donne etrusche, che
negli affreschi delle tombe vediamo partecipare ai banchetti adorne
di gioielli, non avevano potere politico; e le leggende riguardanti
le eroine guerriere, come Clelia e Camilla, sono forse la
trasposizione mitica di riti di iniziazione o di purificazione.
L'Amazzone è un'immagine contronatura. Sta di fatto che quegli
stessi autori di leggi repressive ispirate a un maschilismo
oltraggioso, sia greci che romani, inesplicabilmente ci hanno
trasmesso figure di donne esemplari e non solo per l'esercizio
paziente delle virtù prescritte dalla consuetudine: le "pacifiste",
come le sabine rapite e poi mediatrici tra i mariti e i parenti
offesi; la sorella di Orazio, che piange nel riconoscere il fidanzato
Curiazio ucciso dal fratello; la madre di Coriolano, che dissuade il
figlio dal muovere in armi contro la patria; Cornelia madre dei
Gracchi, fiera dei figli caduti in difesa del popolo; e poi le
virtuose fino alla morte, Virginia e la casta Lucrezia sposa di
Collatino, che rifiuta di sopravvivere alla violenza subita. Non
parliamo delle eroine delle tragedie greche: in quel V secolo a. C.
in cui regnava il regime del gineceo e ai mariti era concessa la
concubina, l'etèra e magari anche l'efebo, i tragici inventano le
figure più intense della letteratura di tutti i tempi, e sono donne:
le vendicative passionali, come Medea e Clitemnestra, le innamorate
fino all'estremo sacrificio, come Alcesti, le patriote, come
Ifigenia, che accetta volentieri d'esser sacrificata sull'ara purché
la vittoria arrida agli Achei contro i "barbari" troiani; e
infine la dolente ed eroica Antigone, che per fedeltà alla sua legge
morale va incontro alla condanna prevista dalla legge scritta. Il
mito ha fornito alla tragedia i personaggi e i temi delle trame; ma
il mito, come ha osservato Jean-Pierre Vernant, è caduto sotto il
controllo politico. Il coro esprime i nuovi valori che la pòlis
elabora e li confronta con quelli antichi. Né gli storicisti né gli
strutturalisti ci hanno spiegato il contrasto esistente fra la donna
ateniese e quella dei tragici. Forse, questi registravano
inconsapevolmente un processo lentissimo di trasformazione; oppure
nel loro subconscio serpeggiava la constatazione inespressa che le
donne valevano più di loro.
“la Repubblica”, 6
novembre 1985
Nessun commento:
Posta un commento