Il post che segue è
recensione di un libro sugli anarchici da Crispi a Mussolini, utile a
rammentare alcune pagine significative della storia nazionale.
Il recensore fa notare
una interessante analogia col presente. “Gli attentati - scrive -
sono frutto d'iniziative individuali. Ma ai governanti fa comodo
evocare una fantomatica congiura planetaria (un po' come oggi la
'minaccia islamica')”. Giusto, ma forse andrebbe sottolineato che
il terrorismo islamista, anche individuale, non ha molti rapporti con
il tirannicidio anarchico, visto che sovente cerca la strage di
incolpevoli.
Il “complottismo” del
potere è comunque un fatto tangibile e, qui in Italia, non si
rivolge soltanto verso l'integralismo islamico: più volte da parte
dei ministri degli Interni, di fronte ad azioni violente dimostrative
e senza vittime, quasi certamente frutto di iniziative individuali o
di gruppi isolati, si è parlato di centrali terroristiche
anarchiche, basandosi su non controllabili “informazioni dei
servizi di sicurezza”. E' una scempiaggine anche la classificazione
“ atti di terrorismo”: gli attentati cui lor signori si
riferiscono quasi mai rientrano nella categoria.
Ultima osservazione a
proposito del pistolotto finale sulla violenza che sempre puntella il
potere autoritario che vorrebbe combattere, generando reazione. In
molti casi è così, ma non è regola generale. Dopo l'uccisione di
Umberto I, in verità, non vi fu reazione, ma la svolta “liberale”
delle classi dirigenti e proprietarie incarnata nel “giolittismo”:
sia in Italia che in altri paesi ai primordi del Novecento si cerca
un appeasement verso il
movimento operaio. Siamo sicuri che non giocasse un ruolo
anche la paura dei vendicatori anarchici? (S.L.L.)
Copertina della “Domenica
del Corriere”, 29 luglio 1900
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«Crispi è parso a me
che fosse l’uomo più felice della terra, mentre io sono il più
infelice, e perciò attentai alla sua vita»: così si giustificò
Emilio Caporali, il giovane disoccupato pugliese che il 13 settembre
1889, a Napoli, ferì il presidente del consiglio Francesco Crispi.
Un attentato dalla dinamica a noi vagamente familiare. Dal ciglio
della strada, un uomo s’avvicina d’improvviso al calesse su cui
viaggia Crispi, sale sul predellino (!) e colpisce il volto del
premier con una pietra affilata di oltre mezzo chilo. Sangue, per
fortuna senza ferite mortali. Ma anche in quell’occasione fiorì un
vivace dibattito sulla natura dell’attentatore - congiurato o
mattoide? - e sui possibili mandanti. Alla fine il giovanotto verrà
prosciolto per incapacità mentale e internato in un manicomio. Il
suo era stato un gesto isolato, forse però influenzato dal clima
dell’epoca (Crispi era un leader cesarista e carismatico) e dalla
propaganda di repubblicani, socialisti e anarchici (i «nemici
interni»).
È questa soltanto una
delle numerose storie raccontate da Erika Diemoz in un libro dedicato
alla stagione aurea dell’anarchia (A morte il tiranno. Anarchia
e violenza da Crispi a Mussolini, Einaudi, 2011), a cavallo fra
Otto e Novecento, quando in Italia, in Francia, in Spagna, in
Svizzera e persino negli USA i capi di Stato e di governo cadevano
come birilli sotto i colpi sferrati da attentatori ben più motivati
di Caporali, quasi sempre italiani (il più celebre resterà Gaetano
Bresci, l’anarchico di Prato emigrato nel New Jersey e ritornato in
patria per uccidere nel luglio 1900 a Monza, con tre pistolettate,
Umberto I). Un libro originale e puntiglioso, che dice molto sul
movimento anarchico (da Errico Malatesta a Camillo Berneri sino agli
esponenti meno noti, di cui vengono ricostruite le avventurose
biografie attingendo anche ad archivi esteri); ma ancor più dice
sulle classi dirigenti, che cavalcano la «politica della paura»,
approfittandone per varare provvedimenti restrittivi e leggi-bavaglio
contro la stampa. In verità, l’anarchismo ottocentesco è una
costellazione di microcosmi isolati, e gli attentati sono spesso il
frutto d’iniziative individuali. Ma ai governanti fa comodo evocare
una fantomatica congiura planetaria (un po’ come oggi con la
«minaccia islamica»).
Lo spontaneismo
anarchico, va da sé, è anche figlio d’una società chiusa e
arretrata. «L’Italia ha gli anarchici che si merita», sentenziava
1'“Economist”, che rintracciava le cause del sovversivismo
nell’«ingiustizia sociale» e nel «sistema vizioso di spese
pubbliche». E infatti quando, all’alba del ’900, il riformatore
Giovanni Giolitti cercherà d’integrare le masse nello Stato, il
pugnale e la rivoltella lasceranno il posto a forme di lotta più
legalitarie. Salvo poi registrare un ritorno di fiamma sotto
Mussolini, anche se tutti gli attentati progettati contro il duce (da
Gino Lucetti a Michele Schirru) falliranno miseramente.
Ma erano veri terroristi
gli anarchici? In un articolo del ’47, Gaetano Salvemini
distinguerà fra il terrorismo bombardo, «compiuto contro ignoti,
senza discriminare fra innocenti e colpevoli», e l’attentato
individuale, che «prende di mira una persona determinata»,
scansando tumulti e devastazioni.
Gli anarchici, in realtà,
colpivano quasi esclusivamente le incarnazioni supreme del potere -
re, presidenti e primi ministri - in una sorta di cavalleresca resa
dei conti, da «uomo a uomo» (Giovanni Ansaldo). Anche se coronato
da successo, il loro era un atto comunque disperato, con un solo
sbocco: o il linciaggio o la pena di morte. Per questo l’epos
anarchico ammaliò fior di conserva-tori, da Longanesi a Montanelli,
conquistati dall’«idealismo» sacrificale di questi personaggi
picareschi
sconfitti dalla Storia.
E tuttavia, al di là
della leggenda, non bisognerebbe mai dimenticare che anche la
violenza più “progressista” non soltanto resta degradante, ma ha
pure un effetto reazionario: puntella quel potere autoritario che
sogna d’abbattere ed eleva al rango di martiri figure spesso
modeste ed incapaci (com’era in fondo lo stesso Umberto I). Sic
semper tyrannis?
Il Fatto quotidiano, 16
dicembre 2011
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