6.7.15

Cavalieri dell'anarchia (Raffaele Liucci)

Il post che segue è recensione di un libro sugli anarchici da Crispi a Mussolini, utile a rammentare alcune pagine significative della storia nazionale.
Il recensore fa notare una interessante analogia col presente. “Gli attentati - scrive - sono frutto d'iniziative individuali. Ma ai governanti fa comodo evocare una fantomatica congiura planetaria (un po' come oggi la 'minaccia islamica')”. Giusto, ma forse andrebbe sottolineato che il terrorismo islamista, anche individuale, non ha molti rapporti con il tirannicidio anarchico, visto che sovente cerca la strage di incolpevoli.
Il “complottismo” del potere è comunque un fatto tangibile e, qui in Italia, non si rivolge soltanto verso l'integralismo islamico: più volte da parte dei ministri degli Interni, di fronte ad azioni violente dimostrative e senza vittime, quasi certamente frutto di iniziative individuali o di gruppi isolati, si è parlato di centrali terroristiche anarchiche, basandosi su non controllabili “informazioni dei servizi di sicurezza”. E' una scempiaggine anche la classificazione “ atti di terrorismo”: gli attentati cui lor signori si riferiscono quasi mai rientrano nella categoria.
Ultima osservazione a proposito del pistolotto finale sulla violenza che sempre puntella il potere autoritario che vorrebbe combattere, generando reazione. In molti casi è così, ma non è regola generale. Dopo l'uccisione di Umberto I, in verità, non vi fu reazione, ma la svolta “liberale” delle classi dirigenti e proprietarie incarnata nel “giolittismo”: sia in Italia che in altri paesi ai primordi del Novecento si cerca un appeasement verso il movimento operaio. Siamo sicuri che non giocasse un ruolo anche la paura dei vendicatori anarchici? (S.L.L.)
Copertina della “Domenica del Corriere”, 29 luglio 1900

«Crispi è parso a me che fosse l’uomo più felice della terra, mentre io sono il più infelice, e perciò attentai alla sua vita»: così si giustificò Emilio Caporali, il giovane disoccupato pugliese che il 13 settembre 1889, a Napoli, ferì il presidente del consiglio Francesco Crispi. Un attentato dalla dinamica a noi vagamente familiare. Dal ciglio della strada, un uomo s’avvicina d’improvviso al calesse su cui viaggia Crispi, sale sul predellino (!) e colpisce il volto del premier con una pietra affilata di oltre mezzo chilo. Sangue, per fortuna senza ferite mortali. Ma anche in quell’occasione fiorì un vivace dibattito sulla natura dell’attentatore - congiurato o mattoide? - e sui possibili mandanti. Alla fine il giovanotto verrà prosciolto per incapacità mentale e internato in un manicomio. Il suo era stato un gesto isolato, forse però influenzato dal clima dell’epoca (Crispi era un leader cesarista e carismatico) e dalla propaganda di repubblicani, socialisti e anarchici (i «nemici interni»).
È questa soltanto una delle numerose storie raccontate da Erika Diemoz in un libro dedicato alla stagione aurea dell’anarchia (A morte il tiranno. Anarchia e violenza da Crispi a Mussolini, Einaudi, 2011), a cavallo fra Otto e Novecento, quando in Italia, in Francia, in Spagna, in Svizzera e persino negli USA i capi di Stato e di governo cadevano come birilli sotto i colpi sferrati da attentatori ben più motivati di Caporali, quasi sempre italiani (il più celebre resterà Gaetano Bresci, l’anarchico di Prato emigrato nel New Jersey e ritornato in patria per uccidere nel luglio 1900 a Monza, con tre pistolettate, Umberto I). Un libro originale e puntiglioso, che dice molto sul movimento anarchico (da Errico Malatesta a Camillo Berneri sino agli esponenti meno noti, di cui vengono ricostruite le avventurose biografie attingendo anche ad archivi esteri); ma ancor più dice sulle classi dirigenti, che cavalcano la «politica della paura», approfittandone per varare provvedimenti restrittivi e leggi-bavaglio contro la stampa. In verità, l’anarchismo ottocentesco è una costellazione di microcosmi isolati, e gli attentati sono spesso il frutto d’iniziative individuali. Ma ai governanti fa comodo evocare una fantomatica congiura planetaria (un po’ come oggi con la «minaccia islamica»).
Lo spontaneismo anarchico, va da sé, è anche figlio d’una società chiusa e arretrata. «L’Italia ha gli anarchici che si merita», sentenziava 1'“Economist”, che rintracciava le cause del sovversivismo nell’«ingiustizia sociale» e nel «sistema vizioso di spese pubbliche». E infatti quando, all’alba del ’900, il riformatore Giovanni Giolitti cercherà d’integrare le masse nello Stato, il pugnale e la rivoltella lasceranno il posto a forme di lotta più legalitarie. Salvo poi registrare un ritorno di fiamma sotto Mussolini, anche se tutti gli attentati progettati contro il duce (da Gino Lucetti a Michele Schirru) falliranno miseramente.
Ma erano veri terroristi gli anarchici? In un articolo del ’47, Gaetano Salvemini distinguerà fra il terrorismo bombardo, «compiuto contro ignoti, senza discriminare fra innocenti e colpevoli», e l’attentato individuale, che «prende di mira una persona determinata», scansando tumulti e devastazioni.
Gli anarchici, in realtà, colpivano quasi esclusivamente le incarnazioni supreme del potere - re, presidenti e primi ministri - in una sorta di cavalleresca resa dei conti, da «uomo a uomo» (Giovanni Ansaldo). Anche se coronato da successo, il loro era un atto comunque disperato, con un solo sbocco: o il linciaggio o la pena di morte. Per questo l’epos anarchico ammaliò fior di conserva-tori, da Longanesi a Montanelli, conquistati dall’«idealismo» sacrificale di questi personaggi picareschi
sconfitti dalla Storia.
E tuttavia, al di là della leggenda, non bisognerebbe mai dimenticare che anche la violenza più “progressista” non soltanto resta degradante, ma ha pure un effetto reazionario: puntella quel potere autoritario che sogna d’abbattere ed eleva al rango di martiri figure spesso modeste ed incapaci (com’era in fondo lo stesso Umberto I). Sic semper tyrannis?

Il Fatto quotidiano, 16 dicembre 2011

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