Incontro Monika Bulaj a
Mestre, nelle stanze al secondo piano del Centro Culturale Candiani
poco prima che inauguri Aure. Il sacro in figura, una delle
sue due mostre fotografiche attualmente in corso in Italia e nel
mondo intero. L’altra è Nur. Aure, dopo essere stata a
Mestre, arriverà a Roma in febbraio, nella Sala Coro dell’Auditorium
Conciliazione. Nur sarà nelle gallerie Leica di tutto il
mondo nell’arco del 2012 e - in Italia - a Trieste in primavera.
Monika sta finendo di
attaccare le didascalie accanto alle foto (che poi vere didascalie
non sono, ma piuttosto suggestioni ed evocazioni) e quasi corre. Il
nostro è dunque un incontro che potrebbe dirsi peripatetico,
osserva. In sottofondo, le musiche che lei stessa ha scelto e
raccolto o addirittura registrato dal vivo, come in occasione di ogni
sua mostra o di ogni suo intervento in pubblico: musica zingara,
klezmer, afghana, canti di monasteri ortodossi, «tutto ciò che sia
un’ispirazione profonda Questa ad esempio è una preghiera degli
hassidim che ho registrato io. È una preghiera straordinaria perché
c’è una polifonia, in realtà una cacofonia che diventa armonia
senti?».
Monika ha quarantacinque
anni, è molto bella il suo corpo è agile e teso e il suo viso pare
levigato dal vento, il vento di cui parlano anche alcune delle
didascalie che sta attaccando, come questa: «Il vento dice le
preghiere sulle dimore degli dei. Tibet». Nel complesso emana
qualcosa di profondo e quasi di ascetico, come sono profonde e come
in parte hanno a che fare con l’ascetismo le foto che fa; ed è
insieme estremamente empatica. Del resto, «nur» in persiano vuol
dire «luce» e luce è il significato ebraico anche di «aura»:
luce nel senso di brezza, di aura appunto, «spirante dalle persone o
dai luoghi, che a volte cresce, diventa turbine, nembo, nube
abbagliante, riverbero dorato, ingolfa e stordisce» come spiega -
citando Elémire Zolla - lo scritto introduttivo di Aure.
Ma Monika Bulaj non è
solo una fotografa, è anche scrittrice e autrice di un documentario
(anzi, nei suoi progetti futuri è compresa l’idea di «sperimentare
molto, e sperimentare anche l’unione fra l’immagine fotografica e
quella del video»). E soprattutto è una grande viaggiatrice, e ciò
che affascina dei suoi racconti - fotografici e narrativi - è
proprio questo, innanzitutto: i percorsi compiuti. «Viaggio tra
Gibilterra e l’Afghanistan» si legge sempre nel suo scritto
introduttivo di Aure, secondo «un’agenda che perfeziono
anno dopo anno».
Parla una decina di
lingue, fra cui l’arabo, il persiano e alcune lingue slave, oltre
al polacco che è la sua madrelingua e l’italiano che è la lingua
del Paese in cui vive da molti anni, a Trieste. I suoi temi di
ricerca sono, per usare ancora le sue parole (pubblicate nel suo sito
internet personale, monikabulaj.com), «i confini delle fedi
(mistica, archetipi, divinazione, possessione, pellegrinaggi, corpo,
culto dei morti), minoranze, popoli nomadi, migranti, intoccabili,
diseredati, in Asia, Europa e Africa».
Dei suoi lavori hanno
parlato fra gli altri Enzo Bianchi, Moni Ovadia, Guillaume Prébois,
Paolo Rumiz, peraltro autore con Monika di un libro di recente
ristampato, Gerusalemme perduta. Sempre in toni giustamente
entusiastici. Prébois ha detto che le sue foto sanno d’incenso, ed
è vero, se si vuole alludere al senso del sacro che non solo le sue
foto ma anche i suoi testi, e si potrebbe aggiungere il suo sguardo
sulle cose, esprimono, e a patto di intendersi bene: «la geografia
del sacro - chiarisce un frate in Gerusalemme perduta - non
c’entra con la religione. La religione è regola, apparato. Il
sacro è altro... misterium tremendum.. nostalgia di
un’assenza... Ti sorprende dove non te l’aspetti. In una chiesa o
in una sinagoga diroccata in un mendicante che ti guarda sulla cima
di un monte».
Le chiedo da dove viene
tutto questo, e com’è cominciato: «All’università, a Varsavia,
ho studiato filologia polacca perché era la facoltà più
universale, a base umanistica, come Lettere qui in Italia. Io ero un
po’ matta e frequentavo anche altre facoltà, per sapere -
antropologia, storia, teologia. Ma tutto questo è nato prima, prima
dell’università. Tutto viene dal desiderio che ho sempre avuto di
capire cosa fosse rimasto nel mio Paese della sua tradizione
bizantina ed ebraica, quale eredità. Mi sono interessata alle
minoranze ortodosse, distrutte dal regime comunista perché troppo
diverse, e questo è stato il mio laboratorio, ho imparato a stare
con le persone, ad ascoltare. Ecco, tutto viene da qui, dal mio
essere polacca, dal vuoto che abbiamo subito, dalle voci che mancano.
Anche l’elaborazione del lutto è mancata. Volevo studiare, sapere
e capire. Da ragazzina studiavo in modo maniacale, e da allora è
stato un continuo crescendo di storie ed esplorazioni. Ognuno ha il
proprio viaggio iniziatico, il mio è stato attraversare a piedi il
confine orientale della Polonia. Oggi non faccio che continuare a
camminare, e sempre verso est - verso l’Asia centrale, che è la
culla della nostra civiltà».
Si capisce, o meglio si
ha la conferma che in Monika studiare e viaggiare non sono elementi
dell’essere distinti, ma compenetrati: ogni ricerca è un viaggio e
ogni viaggio è una ricerca. Ma talvolta sapere troppo, scrive Rumiz
sempre in Gerusalemme perduta, può anche confondere le idee,
può far perdere l’andatura Domando dunque: come prepari e come
organizzi i tuoi viaggi, e prima ancora come scegli le tue mete?
«Mi piace partire vuota,
affidarmi ai luoghi, alle persone. Certo studio tantissimo, ma poi il
viaggio insegna già tutto, perché una volta nel viaggio è il
viaggio che crea tutto, anche la narrazione. Quando sono in un luogo,
in una situazione, voglio essere solo in quel luogo, in quella
situazione. In questo senso il viaggio è un grande maestro, ma non è
vero che sapendo troppo non si vede. Bisogna essere preparati, per
riconoscere i simboli, la Storia e al tempo stesso bisogna ascoltare
le persone, e ascoltarle - anche se non se ne capisce la lingua
-attraverso tutte le emozioni che dalla lingua non passano: la mimica
gli occhi, il cuore. Quando parto, non ho niente di prenotato. Non ho
regole. Spesso ho il biglietto del ritorno aperto e spesso dormo a
casa delle persone che conosco lungo la strada, ma neppure questa è
una regola, è solo una cosa che mi capita spesso».
Guardo le foto, enormi,
appese alle pareti, e leggo le didascalie che le accompagnano; sotto,
la musica continua a scorrere. Mi sembra di riuscire a immaginarla,
Monika mentre scatta le immagini che ora ho davanti, alcune in bianco
e nero altre a colori: una donna che lava un bambino nella penombra
di quella che potrebbe essere un’izba russa; un’altra
donna di spalle, scalza che attraversa l’immenso cortile,
abbacinato dal sole, di una moschea; un monaco, vestito di una tunica
rossa e pure lui di spalle, solo in mezzo al deserto; una famiglia,
caravaggesca nel gioco dei chiaroscuri, intorno a una tavola molto
semplice; persone raccolte in preghiera individuale o collettiva,
riti sacrificali.
A Monika interessano
soprattutto, anche se non solo, i monoteismi, e in particolare le tre
cosiddette religioni del Libro (cristianesimo, ebraismo, islamismo).
Ma cosa intende quando parla riferendosi a queste o ad altre
religioni, di «confini delle fedi»?
La risposta è in una sua
pagina in cui ogni parola è necessaria ai fini della spiegazione:
«Il calendario dei miei spostamenti... svela una trama di
sorprendenti parallelismi. Elia diventa tra i musulmani Khidr il
verde; San Giorgio a cavallo è festeggiato nei Balcani da cristiani
e islamici; attorno alle Madonne si radunano donne musulmane e
greco-ortodosse, napoletane e stambuliote; e poi le riconenze della
salita del figlio di Dio in cielo, la salita degli armeni scalzi
sulle ginocchia fino alla cima della montagna annerita di candele, le
feste della fecondità e della morte, quelle della fine dell’anno e
del suo inizio, zingaro, persiano o ebraico non importa. Il
calendario del sacro, nelle tre religioni del libro, segue - a ben
guardare - gli stessi ritmi dell’eterno ritorno: il sole, la luna,
le stagioni, i sette anni, i quaranta giorni, con la notte della
vigilia che spesso è più importante della festa in sé.
Le donne armene e turche
che leggono il futuro attraverso i sogni dormendo sulla tomba di un
profeta sul Bosforo, per esempio, sono assolutamente simili alle
pellegrine russe accovacciate nel buio con le candeline accanto alle
reliquie di un santo sulle montagne dei Carpazi, o alle donne tuaregh
vestite a festa in una notte di preghiera sui tumuli sacri del
deserto.
Se seleziono nel calendario i momenti più forti e
misteriosi che ho vissuto, m’accorgo non solo che essi scavalcano
gli steccati eretti dai chierici o dai teologi, ma che la loro
successione svela un assieme solido e coerente, una continuità che
abbiamo disimparato a osservare, condizionati come siamo dalla
superficiale impressione di cataclisma - oggi si direbbe conflitto di
civiltà - che ci divide. Lo stesso avviene per i luoghi Se sono
sacri, sono sacri per tutti. Allo stesso modo, il buon santo è buono
per tutti Per non parlare dei gesti della preghiera dell’uso del
corpo come tramite per comunicare con l’Altrove».
Di nuovo si capisce, o
meglio di nuovo se ne ha la conferma, che Monika Bulaj è anche
un’antropologa, come lo sono spesso, si sa, gli artisti. Ogni sua
foto, ogni sua pagina testimonia una comprensione del mondo rispetto
alla quale sapere e sensibilità hanno trovato il giusto equilibrio.
Verrebbe voglia di seguirla nel cammino, e di mettersi in viaggio con
lei - che adesso progetta di tornare presto, ancora una volta, in
Tibet, in Afghanistan, in Pakistan, in altri Paesi dell’Asia
centrale. Intanto l’ora dell’inaugurazione è arrivata e in
moltissimi stanno già entrando, sono già entrati. Rimane però un
insolito silenzio, nell’aria al di là o al di qua della musica.
“alias ilmanifesto”,
14 gennaio 2012
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