7.7.15

Fotografia. Le aure di Monika Bulaj (Niccolò Nisivoccia)

Incontro Monika Bulaj a Mestre, nelle stanze al secondo piano del Centro Culturale Candiani poco prima che inauguri Aure. Il sacro in figura, una delle sue due mostre fotografiche attualmente in corso in Italia e nel mondo intero. L’altra è Nur. Aure, dopo essere stata a Mestre, arriverà a Roma in febbraio, nella Sala Coro dell’Auditorium Conciliazione. Nur sarà nelle gallerie Leica di tutto il mondo nell’arco del 2012 e - in Italia - a Trieste in primavera.
Monika sta finendo di attaccare le didascalie accanto alle foto (che poi vere didascalie non sono, ma piuttosto suggestioni ed evocazioni) e quasi corre. Il nostro è dunque un incontro che potrebbe dirsi peripatetico, osserva. In sottofondo, le musiche che lei stessa ha scelto e raccolto o addirittura registrato dal vivo, come in occasione di ogni sua mostra o di ogni suo intervento in pubblico: musica zingara, klezmer, afghana, canti di monasteri ortodossi, «tutto ciò che sia un’ispirazione profonda Questa ad esempio è una preghiera degli hassidim che ho registrato io. È una preghiera straordinaria perché c’è una polifonia, in realtà una cacofonia che diventa armonia senti?».
Monika ha quarantacinque anni, è molto bella il suo corpo è agile e teso e il suo viso pare levigato dal vento, il vento di cui parlano anche alcune delle didascalie che sta attaccando, come questa: «Il vento dice le preghiere sulle dimore degli dei. Tibet». Nel complesso emana qualcosa di profondo e quasi di ascetico, come sono profonde e come in parte hanno a che fare con l’ascetismo le foto che fa; ed è insieme estremamente empatica. Del resto, «nur» in persiano vuol dire «luce» e luce è il significato ebraico anche di «aura»: luce nel senso di brezza, di aura appunto, «spirante dalle persone o dai luoghi, che a volte cresce, diventa turbine, nembo, nube abbagliante, riverbero dorato, ingolfa e stordisce» come spiega - citando Elémire Zolla - lo scritto introduttivo di Aure.
Ma Monika Bulaj non è solo una fotografa, è anche scrittrice e autrice di un documentario (anzi, nei suoi progetti futuri è compresa l’idea di «sperimentare molto, e sperimentare anche l’unione fra l’immagine fotografica e quella del video»). E soprattutto è una grande viaggiatrice, e ciò che affascina dei suoi racconti - fotografici e narrativi - è proprio questo, innanzitutto: i percorsi compiuti. «Viaggio tra Gibilterra e l’Afghanistan» si legge sempre nel suo scritto introduttivo di Aure, secondo «un’agenda che perfeziono anno dopo anno».
Parla una decina di lingue, fra cui l’arabo, il persiano e alcune lingue slave, oltre al polacco che è la sua madrelingua e l’italiano che è la lingua del Paese in cui vive da molti anni, a Trieste. I suoi temi di ricerca sono, per usare ancora le sue parole (pubblicate nel suo sito internet personale, monikabulaj.com), «i confini delle fedi (mistica, archetipi, divinazione, possessione, pellegrinaggi, corpo, culto dei morti), minoranze, popoli nomadi, migranti, intoccabili, diseredati, in Asia, Europa e Africa».
Dei suoi lavori hanno parlato fra gli altri Enzo Bianchi, Moni Ovadia, Guillaume Prébois, Paolo Rumiz, peraltro autore con Monika di un libro di recente ristampato, Gerusalemme perduta. Sempre in toni giustamente entusiastici. Prébois ha detto che le sue foto sanno d’incenso, ed è vero, se si vuole alludere al senso del sacro che non solo le sue foto ma anche i suoi testi, e si potrebbe aggiungere il suo sguardo sulle cose, esprimono, e a patto di intendersi bene: «la geografia del sacro - chiarisce un frate in Gerusalemme perduta - non c’entra con la religione. La religione è regola, apparato. Il sacro è altro... misterium tremendum.. nostalgia di un’assenza... Ti sorprende dove non te l’aspetti. In una chiesa o in una sinagoga diroccata in un mendicante che ti guarda sulla cima di un monte».
Le chiedo da dove viene tutto questo, e com’è cominciato: «All’università, a Varsavia, ho studiato filologia polacca perché era la facoltà più universale, a base umanistica, come Lettere qui in Italia. Io ero un po’ matta e frequentavo anche altre facoltà, per sapere - antropologia, storia, teologia. Ma tutto questo è nato prima, prima dell’università. Tutto viene dal desiderio che ho sempre avuto di capire cosa fosse rimasto nel mio Paese della sua tradizione bizantina ed ebraica, quale eredità. Mi sono interessata alle minoranze ortodosse, distrutte dal regime comunista perché troppo diverse, e questo è stato il mio laboratorio, ho imparato a stare con le persone, ad ascoltare. Ecco, tutto viene da qui, dal mio essere polacca, dal vuoto che abbiamo subito, dalle voci che mancano. Anche l’elaborazione del lutto è mancata. Volevo studiare, sapere e capire. Da ragazzina studiavo in modo maniacale, e da allora è stato un continuo crescendo di storie ed esplorazioni. Ognuno ha il proprio viaggio iniziatico, il mio è stato attraversare a piedi il confine orientale della Polonia. Oggi non faccio che continuare a camminare, e sempre verso est - verso l’Asia centrale, che è la culla della nostra civiltà».
Si capisce, o meglio si ha la conferma che in Monika studiare e viaggiare non sono elementi dell’essere distinti, ma compenetrati: ogni ricerca è un viaggio e ogni viaggio è una ricerca. Ma talvolta sapere troppo, scrive Rumiz sempre in Gerusalemme perduta, può anche confondere le idee, può far perdere l’andatura Domando dunque: come prepari e come organizzi i tuoi viaggi, e prima ancora come scegli le tue mete?
«Mi piace partire vuota, affidarmi ai luoghi, alle persone. Certo studio tantissimo, ma poi il viaggio insegna già tutto, perché una volta nel viaggio è il viaggio che crea tutto, anche la narrazione. Quando sono in un luogo, in una situazione, voglio essere solo in quel luogo, in quella situazione. In questo senso il viaggio è un grande maestro, ma non è vero che sapendo troppo non si vede. Bisogna essere preparati, per riconoscere i simboli, la Storia e al tempo stesso bisogna ascoltare le persone, e ascoltarle - anche se non se ne capisce la lingua -attraverso tutte le emozioni che dalla lingua non passano: la mimica gli occhi, il cuore. Quando parto, non ho niente di prenotato. Non ho regole. Spesso ho il biglietto del ritorno aperto e spesso dormo a casa delle persone che conosco lungo la strada, ma neppure questa è una regola, è solo una cosa che mi capita spesso».
Guardo le foto, enormi, appese alle pareti, e leggo le didascalie che le accompagnano; sotto, la musica continua a scorrere. Mi sembra di riuscire a immaginarla, Monika mentre scatta le immagini che ora ho davanti, alcune in bianco e nero altre a colori: una donna che lava un bambino nella penombra di quella che potrebbe essere un’izba russa; un’altra donna di spalle, scalza che attraversa l’immenso cortile, abbacinato dal sole, di una moschea; un monaco, vestito di una tunica rossa e pure lui di spalle, solo in mezzo al deserto; una famiglia, caravaggesca nel gioco dei chiaroscuri, intorno a una tavola molto semplice; persone raccolte in preghiera individuale o collettiva, riti sacrificali.
A Monika interessano soprattutto, anche se non solo, i monoteismi, e in particolare le tre cosiddette religioni del Libro (cristianesimo, ebraismo, islamismo). Ma cosa intende quando parla riferendosi a queste o ad altre religioni, di «confini delle fedi»?
La risposta è in una sua pagina in cui ogni parola è necessaria ai fini della spiegazione: «Il calendario dei miei spostamenti... svela una trama di sorprendenti parallelismi. Elia diventa tra i musulmani Khidr il verde; San Giorgio a cavallo è festeggiato nei Balcani da cristiani e islamici; attorno alle Madonne si radunano donne musulmane e greco-ortodosse, napoletane e stambuliote; e poi le riconenze della salita del figlio di Dio in cielo, la salita degli armeni scalzi sulle ginocchia fino alla cima della montagna annerita di candele, le feste della fecondità e della morte, quelle della fine dell’anno e del suo inizio, zingaro, persiano o ebraico non importa. Il calendario del sacro, nelle tre religioni del libro, segue - a ben guardare - gli stessi ritmi dell’eterno ritorno: il sole, la luna, le stagioni, i sette anni, i quaranta giorni, con la notte della vigilia che spesso è più importante della festa in sé.
Le donne armene e turche che leggono il futuro attraverso i sogni dormendo sulla tomba di un profeta sul Bosforo, per esempio, sono assolutamente simili alle pellegrine russe accovacciate nel buio con le candeline accanto alle reliquie di un santo sulle montagne dei Carpazi, o alle donne tuaregh vestite a festa in una notte di preghiera sui tumuli sacri del deserto.
Se seleziono nel calendario i momenti più forti e misteriosi che ho vissuto, m’accorgo non solo che essi scavalcano gli steccati eretti dai chierici o dai teologi, ma che la loro successione svela un assieme solido e coerente, una continuità che abbiamo disimparato a osservare, condizionati come siamo dalla superficiale impressione di cataclisma - oggi si direbbe conflitto di civiltà - che ci divide. Lo stesso avviene per i luoghi Se sono sacri, sono sacri per tutti. Allo stesso modo, il buon santo è buono per tutti Per non parlare dei gesti della preghiera dell’uso del corpo come tramite per comunicare con l’Altrove».
Di nuovo si capisce, o meglio di nuovo se ne ha la conferma, che Monika Bulaj è anche un’antropologa, come lo sono spesso, si sa, gli artisti. Ogni sua foto, ogni sua pagina testimonia una comprensione del mondo rispetto alla quale sapere e sensibilità hanno trovato il giusto equilibrio. Verrebbe voglia di seguirla nel cammino, e di mettersi in viaggio con lei - che adesso progetta di tornare presto, ancora una volta, in Tibet, in Afghanistan, in Pakistan, in altri Paesi dell’Asia centrale. Intanto l’ora dell’inaugurazione è arrivata e in moltissimi stanno già entrando, sono già entrati. Rimane però un insolito silenzio, nell’aria al di là o al di qua della musica.


“alias ilmanifesto”, 14 gennaio 2012

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