24.7.15

La crisi greca e noi (Luciana Castellina)

Tutti si ricordano la famosa frase pronunciata da Ramsey McDonald, primo presidente del consiglio di un governo laburista in Gran Bretagna nel 1931, nel pieno dell'altra grande crisi economica mondiale: «Credevo che il peggio fosse stare all'opposizione senza il potere di cambiare le cose, ora mi sono accorto che è peggio ancora stare al governo e non aver ugualmente potere». Pochi ricordano forse quello che avvenne dopo, quando McDonald decise di rompere con il proprio partito le cui rivendicazioni non era in grado di soddisfare e di dar vita ad un pessimo governo di unità nazionale.
Ebbene, nella tristissima serata che tutti abbiamo trascorso ieri notte attaccati alla televisione per seguire quanto accadeva ad Atene, su piazza Sintagma e dentro il palazzo del Parlamento che vi si affaccia, abbiamo, almeno molti di noi, tirato un sospiro di sollievo: non solo — lo sapevamo già prima — Tsipras non è Ramsey McDonald, anche se ha dovuto sperimentare una analoga impotenza
— ma, quel che più conta, la rottura con il suo partito non è avvenuta.
Sia i 40 deputati di Syriza che hanno votato contro il memorandum, sia i 109 membri del Comitato centrale che hanno espresso analoga opposizione, hanno ribadito che questo non comporta sfiducia nei confronti del governo. Un'altra bella prova della maturità di Siryza. Se questa unità reggerà anche nelle difficilissime settimane che ci aspettano, il peggio potrà forse essere evitato.
La scelta del che fare a fronte di un ricatto tanto arrogante da non esser stato nemmeno immaginato è stata per Atene molto ardua, ed è comprensibile che abbia sollevato un confronto così acceso, anzi drammatico. Tsipras, come sappiamo, ha respinto l'ipotesi di un'uscita dall'eurozona, e ha scelto di correre i rischi dell'accordo leonino che gli è stato imposto per guadagnare tempo — e mantenere una collocazione di governo — due fattori che aiutano ad affrontare una situazione molto difficile, ma meno difficile di quella che si sarebbe creata, subito, ove le banche fossero rimaste chiuse senza liquido, stipendi non pagabili, blocco dei servizi pubblici, importazioni impossibili in un paese che senza comprare all'estero il carburante per i propri pescherecci non è in grado nemmeno di pescare il proprio pesce.
Difficile e pericolosa: quando una crisi diventa così grave può accadere di tutto. Da parte dell'avversario, ma anche — la storia ce lo insegna — per le tentazioni autoritarie cui si potrebbe cedere per controllare le inevitabili proteste.
Adesso, se non ci saranno lacerazioni nel corpo di Syriza, sarà possibile lavorare per ridurre al minimo, e comunque per distribuire più equamente il peso delle misure imposte. Contando anche sull'estrema confusione che regna nel campo delle “istituzioni” UE: che non sono Maciste, ma una leadership sempre più confusa e sempre meno credibile. Basti pensare alla esilarante uscita del Fondo monetario, che dopo aver partecipato ai negoziati con la ineffabile signora Lagarde, manda adesso a dire che quell'accordo è ridicolo, non potrà mai esser realizzato, perchè la Grecia non potrà mai pagare un debito che negli anni, dopo le amorevoli cure dei dottori di Bruxelles, è passato dal 127 % del PIL all'inizio della crisi al 176 % di oggi, al prevedibile 200 % nel prossimo futuro.
Degli 82 miliardi che ora sono stati concessi ad Atene solo il 35 % andrà all'economia reale, il resto a ripagare debiti già contratti e a rifinanziare le banche, così come del resto è accaduto dal 2010,quando dei 226,7 miliardi elargiti allora ne andò solo l'11,7%.
Anche sul piano politico va ben sottolineato che da questa vicenda la leadership europea è uscita malissimo. Anche in Germania: basta scorrere la stampa tedesca più autorevole per sapere con quanta asprezza viene giudicato l'operato del proprio governo: "Il governo tedesco ha distrutto in un weekend sette decenni di diplomazia” — ha scritto il settimanale Spiegel e la autorevolissima Suddeutsche Zeitung ha titolato: “La signora Merkel, il nuovo nemico dell'Europa". Per non parlare di come in queste settimane si siano moltiplicate le voci, anche istituzionali, di chi dice che bisogna andarsene dall'UE.
Tsipras ha invece deciso di non abbandonare il campo di battaglia. Poteva decidere di lasciar perdere e cedere a chi suggeriva di imboccare la strada di uno sbriciolamento che avrebbe in realtà lasciato ancor più privi di forza rispetto alla finanza globale i singoli paesi.
Può darsi che per ottenere questa diversa Europa sia necessario ricorrere anche a questa scelta, ma assurdo è pensare che dia più forza, ad Atene ma anche a tutti noi, che la Grecia, la più debole, imbocchi questa strada da sola. Grexit, oggi, diventerebbe solo la patetica vicenda di un piccolo paese marginale, la vittoria, per l'appunto, di Scheubele.
Altra cosa è che a mettere in discussione l'eurozona sia uno schieramento più forte, almeno i paesi mediterranei, sulla base di un chiaro progetto di lotta e di reciproca solidarietà. Questo fronte oggi non c'è e noi italiani possiamo solo vergognarci perchè il nostro presidente del Consiglio, che avrebbe potuto, e dovuto, avere un ruolo di primo piano da svolgere in questa situazione, ha messo, pauroso, la testa sotto la sabbia.
Tocca anche a noi costruire un piano B, ma non solo per la Grecia.
Torna in primo piano il famoso concetto di “rapporti di forza", un termine che sembra sparito dal vocabolario della sinistra, sicché quanto accade ad Atene c'è chi lo rappresenta come l'antico dilemma fra riforme o rivoluzione. Quasi che sia possibile - scrive con la tradizionale vocazione al richiamo teorico tedesco Blokupy su “Neues Deutschland" — considerare la Grecia come un secolo fa la Russia: l 'anello più debole del capitalismo da cui si sarebbe potuti partire. Lenin, del resto, quando disse questa frase, non sapeva che la rivoluzione tedesca sarebbe fallita.
Oggi, comunque, noi sappiamo che di un processo rivoluzionario capace di sostenere la rottura eventuale della Grecia in Europa non c'è nemmeno l'odore. Non è rivoluzionario sbattere comunque la testa contro il muro senza valutare se si rompe la testa o si sbriciola il muro. Preservare la testa non è un atto di viltà, ma di intelligenza. Almeno se si intende combattere ancora e non solo costruire un monumento ai martiri.
“La gente protesta, scende in strada" — ci dicono anche nostri connazionali che sono in Grecia.“Nei bar si dice che Tsipras ha tradito”. E' comprensibile, ma per questo per vincere ci vogliono i partiti e non i bar: proprio nei momenti drammatici è indispensabile un soggetto consapevole, unito da una comune cultura politica, da un rapporto vero con le rispettive comunità, e non un agglomerato emotivo.
Per costruire l'egemonia necessaria ad affrontare situazioni complesse, con lotte mirate e non solo con la moltiplicazione delle proteste.
E' vero che lasciare solo alla politica — partiti e istituzioni — il potere di decidere può esser pericoloso, e lo è stato tante volte in passato. Per questo sono utili movimenti e forme dirette di espressione della società civile e speriamo che ce ne siano in Grecia a pungolare, anche contestandole, le decisioni che verranno prese. Ma la protesta indifferenziata di quello che ora viene chiamato “il basso che si contrappone all'alto", per usare un concetto che oggi va di moda, non basta. E infatti, fin'ora, il 99%, sebbene sia una così grande maggioranza di sofferenti, non vince. Occorre di più.
Io la penso così. Ma sono molto confortata nel riscontrare che la grande maggioranza di coloro che stanno cercando di costruire in Italia un nuovo soggetto politico unitario la pensa in modo analogo.
A qualche cosa la lunga storia della nostra sinistra — primo fra tutti il “genoma Gramsci" — ci è pur servita !


il manifesto,17.07.2015

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