Tutti si ricordano la
famosa frase pronunciata da Ramsey McDonald, primo presidente del
consiglio di un governo laburista in Gran Bretagna nel 1931, nel
pieno dell'altra grande crisi economica mondiale: «Credevo che il
peggio fosse stare all'opposizione senza il potere di cambiare le
cose, ora mi sono accorto che è peggio ancora stare al governo e non
aver ugualmente potere». Pochi ricordano forse quello che avvenne
dopo, quando McDonald decise di rompere con il proprio partito le cui
rivendicazioni non era in grado di soddisfare e di dar vita ad un
pessimo governo di unità nazionale.
Ebbene, nella tristissima
serata che tutti abbiamo trascorso ieri notte attaccati alla
televisione per seguire quanto accadeva ad Atene, su piazza Sintagma
e dentro il palazzo del Parlamento che vi si affaccia, abbiamo,
almeno molti di noi, tirato un sospiro di sollievo: non solo — lo
sapevamo già prima — Tsipras non è Ramsey McDonald, anche se ha
dovuto sperimentare una analoga impotenza
— ma, quel che più
conta, la rottura con il suo partito non è avvenuta.
Sia i 40 deputati di
Syriza che hanno votato contro il memorandum, sia i 109 membri del
Comitato centrale che hanno espresso analoga opposizione, hanno
ribadito che questo non comporta sfiducia nei confronti del governo.
Un'altra bella prova della maturità di Siryza. Se questa unità
reggerà anche nelle difficilissime settimane che ci aspettano, il
peggio potrà forse essere evitato.
La scelta del che fare a
fronte di un ricatto tanto arrogante da non esser stato nemmeno
immaginato è stata per Atene molto ardua, ed è comprensibile che
abbia sollevato un confronto così acceso, anzi drammatico. Tsipras,
come sappiamo, ha respinto l'ipotesi di un'uscita dall'eurozona, e ha
scelto di correre i rischi dell'accordo leonino che gli è stato
imposto per guadagnare tempo — e mantenere una collocazione di
governo — due fattori che aiutano ad affrontare una situazione
molto difficile, ma meno difficile di quella che si sarebbe creata,
subito, ove le banche fossero rimaste chiuse senza liquido, stipendi
non pagabili, blocco dei servizi pubblici, importazioni impossibili
in un paese che senza comprare all'estero il carburante per i propri
pescherecci non è in grado nemmeno di pescare il proprio pesce.
Difficile e pericolosa:
quando una crisi diventa così grave può accadere di tutto. Da parte
dell'avversario, ma anche — la storia ce lo insegna — per le
tentazioni autoritarie cui si potrebbe cedere per controllare le
inevitabili proteste.
Adesso, se non ci saranno
lacerazioni nel corpo di Syriza, sarà possibile lavorare per ridurre
al minimo, e comunque per distribuire più equamente il peso delle
misure imposte. Contando anche sull'estrema confusione che regna nel
campo delle “istituzioni” UE: che non sono Maciste, ma una
leadership sempre più confusa e sempre meno credibile. Basti pensare
alla esilarante uscita del Fondo monetario, che dopo aver partecipato
ai negoziati con la ineffabile signora Lagarde, manda adesso a dire
che quell'accordo è ridicolo, non potrà mai esser realizzato,
perchè la Grecia non potrà mai pagare un debito che negli anni,
dopo le amorevoli cure dei dottori di Bruxelles, è passato dal 127 %
del PIL all'inizio della crisi al 176 % di oggi, al prevedibile 200 %
nel prossimo futuro.
Degli 82 miliardi che ora
sono stati concessi ad Atene solo il 35 % andrà all'economia reale,
il resto a ripagare debiti già contratti e a rifinanziare le banche,
così come del resto è accaduto dal 2010,quando dei 226,7 miliardi
elargiti allora ne andò solo l'11,7%.
Anche sul piano politico
va ben sottolineato che da questa vicenda la leadership europea è
uscita malissimo. Anche in Germania: basta scorrere la stampa tedesca
più autorevole per sapere con quanta asprezza viene giudicato
l'operato del proprio governo: "Il governo tedesco ha distrutto
in un weekend sette decenni di diplomazia” — ha scritto il
settimanale Spiegel e la autorevolissima Suddeutsche Zeitung ha
titolato: “La signora Merkel, il nuovo nemico dell'Europa".
Per non parlare di come in queste settimane si siano moltiplicate le
voci, anche istituzionali, di chi dice che bisogna andarsene dall'UE.
Tsipras ha invece deciso
di non abbandonare il campo di battaglia. Poteva decidere di lasciar
perdere e cedere a chi suggeriva di imboccare la strada di uno
sbriciolamento che avrebbe in realtà lasciato ancor più privi di
forza rispetto alla finanza globale i singoli paesi.
Può darsi che per
ottenere questa diversa Europa sia necessario ricorrere anche a
questa scelta, ma assurdo è pensare che dia più forza, ad Atene ma
anche a tutti noi, che la Grecia, la più debole, imbocchi questa
strada da sola. Grexit, oggi, diventerebbe solo la patetica vicenda
di un piccolo paese marginale, la vittoria, per l'appunto, di
Scheubele.
Altra cosa è che a
mettere in discussione l'eurozona sia uno schieramento più forte,
almeno i paesi mediterranei, sulla base di un chiaro progetto di
lotta e di reciproca solidarietà. Questo fronte oggi non c'è e noi
italiani possiamo solo vergognarci perchè il nostro presidente del
Consiglio, che avrebbe potuto, e dovuto, avere un ruolo di primo
piano da svolgere in questa situazione, ha messo, pauroso, la testa
sotto la sabbia.
Tocca anche a noi
costruire un piano B, ma non solo per la Grecia.
Torna in primo piano il
famoso concetto di “rapporti di forza", un termine che sembra
sparito dal vocabolario della sinistra, sicché quanto accade ad
Atene c'è chi lo rappresenta come l'antico dilemma fra riforme o
rivoluzione. Quasi che sia possibile - scrive con la tradizionale
vocazione al richiamo teorico tedesco Blokupy su “Neues
Deutschland" — considerare la Grecia come un secolo fa la
Russia: l 'anello più debole del capitalismo da cui si sarebbe
potuti partire. Lenin, del resto, quando disse questa frase, non
sapeva che la rivoluzione tedesca sarebbe fallita.
Oggi, comunque, noi
sappiamo che di un processo rivoluzionario capace di sostenere la
rottura eventuale della Grecia in Europa non c'è nemmeno l'odore.
Non è rivoluzionario sbattere comunque la testa contro il muro senza
valutare se si rompe la testa o si sbriciola il muro. Preservare la
testa non è un atto di viltà, ma di intelligenza. Almeno se si
intende combattere ancora e non solo costruire un monumento ai
martiri.
“La gente protesta,
scende in strada" — ci dicono anche nostri connazionali che
sono in Grecia.“Nei bar si dice che Tsipras ha tradito”. E'
comprensibile, ma per questo per vincere ci vogliono i partiti e non
i bar: proprio nei momenti drammatici è indispensabile un soggetto
consapevole, unito da una comune cultura politica, da un rapporto
vero con le rispettive comunità, e non un agglomerato emotivo.
Per costruire l'egemonia
necessaria ad affrontare situazioni complesse, con lotte mirate e non
solo con la moltiplicazione delle proteste.
E' vero che lasciare solo
alla politica — partiti e istituzioni — il potere di decidere può
esser pericoloso, e lo è stato tante volte in passato. Per questo
sono utili movimenti e forme dirette di espressione della società
civile e speriamo che ce ne siano in Grecia a pungolare, anche
contestandole, le decisioni che verranno prese. Ma la protesta
indifferenziata di quello che ora viene chiamato “il basso che si
contrappone all'alto", per usare un concetto che oggi va di
moda, non basta. E infatti, fin'ora, il 99%, sebbene sia una così
grande maggioranza di sofferenti, non vince. Occorre di più.
Io la penso così. Ma
sono molto confortata nel riscontrare che la grande maggioranza di
coloro che stanno cercando di costruire in Italia un nuovo soggetto
politico unitario la pensa in modo analogo.
A qualche cosa la lunga
storia della nostra sinistra — primo fra tutti il “genoma
Gramsci" — ci è pur servita !
il manifesto,17.07.2015
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