Gambe. In un bel film di
Francoise Truffaut che si chiama Finalmente domenica il
protagonista guarda le gambe delle donne dalla finestra rasoterra di
un seminterrato in cui è nascosto, ciò gli procura un grande
godimento e lo distrae dal resto. Fanny Ardant, segretaria di lui
innamorata, se ne accorge e passa e ripassa volutamente davanti alla
finestrella; in un altro film, sempre di Truffaut, L’uomo che
amava le donne nella prima scena al funerale del protagonista
l’inquadratura, che ha il punto di vista della cassa da morto, ci
mostra una lunga processione di gambe selezionate con cura: belle,
scattanti, longilinee, più o meno polpacciute con caviglie sia
solide che sottili che si fermano sul terriccio rimosso del cimitero
a rendere omaggio al defunto. Tutte immancabilmente inguainate in
invisibili calze di nylon. «Le gambe delle donne sono compassi che
misurano il globo terrestre in tutti i sensi donandogli il suo
equilibrio e la sua armonia».
Sono davvero belle a
vedersi tutte quelle gambe vestite di calze trasparenti e seducenti.
Peccato che la fabbrica di Faenza che le produce, la Omsa e la Golden
Lady, fabbrica italiana in attivo, abbia deciso di chiudere e
licenziare in tronco, con un semplice fax inviato al posto degli
auguri durante le feste natalizie, le sue 239 lavoratrici che sono
già in cassa integrazione da diversi mesi.
La Omsa, attiva dagli
anni Sessanta quando pubblicizzava i suoi prodotti attraverso le
gemelle Kessler con quell’«Omsa che gambe!», che attualmente
sarebbe meglio trasformare in un «Omsa che schifo!», copre tuttora
il 55 per cento del mercato del collant, grazie anche alla Golden
Lady, e ha deciso di sbaraccare in Italia per aprire l’attività in
Serbia dove il costo del lavoro è pari ad un terzo di quello
italiano.
Le lavoratrici continuano
a protestare con tutti i mezzi, teatro di strada compreso e un
passaparola su facebook che invita a non comprare queste marche pare
che cominci ad avere successo. Spero che ne abbia sempre di più,
spero che la dissennata scelta di mandare per strada e per stracci
tante donne porti sfortuna all’imprenditore che la sta attuando e
spero che non si faccia confusione in questi tempi «d’amor patrio»
in cui sento spesso parlare di «comprar italiano» tra le marche
italiane prodotte all’estero e quelle che anche a costo di qualche
sacrificio, resistono sul nostro territorio.
Non basta ragionare sui
nomi propri, serve tener d’occhio anche i luoghi di produzione se
si vuole veramente partecipare. Così come, insieme alla parola
d’ordine “cultura bene comune” si cominci a pensare a
“industria bene comune”, parlo di quelle abbandonate, alcune
delle quali (in Sicilia di ceramiche per bagni) rilevate da
cooperative degli stessi lavoratori licenziati. Utopia: che le forti
donne di Faenza si approprino della fabbrica di calze dove hanno
perso la propria giovinezza che la facciano funzionare e che usino un
bel montaggio di spezzoni di film di Truffaut per farsi pubblicità.
“alias il manifesto”
14 gennaio 2012
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