25.7.15

Romano Luperini, il critico resistente (Matteo Marchesini)

La recensione qui “postata” non si può definire benevola, ma fa ugualmente cogliere l'importanza delle tematiche affrontate nel libro che presenta e della complessiva esperienza critica di Luperini. (S.L.L.)
Romano Luperini
Si possono proporre, oggi, libri simili a quelli che in pieno '900 s'intitolavano nudamente «saggi critici»? Certo è difficile pubblicare un volume di pezzi a tema vario, se a legarli non è la fama dell'autore; altrimenti gli editori pretendono il pamphlet a obiettivo unico, e di stretta attualità. Ormai il saggio è schiacciato tra giornalismo e studi specialistici. Con tanta più cura vanno quindi letti gli ultimi esemplari di questo genere ibrido, capace di unire fredde teorie e umori corrosivi, critica letteraria e sociale. Ne ritroviamo i connotati in Tramonto e resistenza della critica (Quodlibet), la nuova raccolta di Romano Luperini. Come i testi del suo maestro Fortini, questo Tramonto è costruito su una divisione tra brani sociologici e affondi su singoli temi letterari. Alle note sulla didattica in tempi di riforma Gelmini, e sui «lavoratori della conoscenza» nell'età globale, si affiancano analisi ravvicinate su Verga e Manzoni, su Alvaro e McCarthy, e ambigui bilanci sulla vincente critica tematica.
A unire il versante politico e quello letterario è la riflessione sulla funzione dell'intellettuale e del critico, di cui Luperini evoca alcuni modelli (De Sanctis, Auerbach, Debenedetti, Guido Guglielmi), definendone i limiti e i punti di attrito col presente. Il saggio su Mimesis è un'ottima introduzione ad Auerbach, preso a esempio ma anche smitizzato. Luperini loda la flessibilità teorica con cui si muove tra le epoche «a spirale lungo un asse», evitando sia l'arbitrarietà sia un piatto storicismo, e il suo mirabile intreccio di ermeneutica e filologia, che il tardo '900 ha poi separato rendendo l'una capziosa e l'altra sterile. Ma non elude le debolezze del grande studioso, evidenziando la genericità delle sue idee sugli «ordini sociali» da cui nasce l'arte. Auerbach interessa a Luperini anche perché scrisse il suo capolavoro, nel cuore cupo del '900, letteralmente sospeso tra Oriente e Occidente, cioè in quella posizione «di soglia» che secondo lui è divenuta oggi l'unica dalla quale gli intellettuali possano osservare con rigore la realtà globalizzata. Spesso il critico cita Said, la cui opera, debitrice di due mondi distanti, rappresenterebbe al meglio l'eredità auerbachiana, e mostrerebbe come sia possibile analizzare le differenze di civiltà partendo «dalla propria particolarità senza ipostatizzarla». Qui Luperini vede un antidoto al disimpegnato nichilismo postmodernista. A inizio XXI secolo, afferma, i drammi internazionali hanno messo in crisi il culto della centralità autoreferenziale del linguaggio, riproponendo un nuovo engagement e nuove poetiche della mimesi.
Ciò avviene in un contesto in cui è però irriproponibile la figura di un intellettuale "legislatore". Oggi dilaga un sottoproletariato intellettuale che non può certo dominare le enormi strutture entro cui è inserito. Ma d'altra parte, la posizione periferica dei suoi membri permetterebbe loro di dar voce alle istanze di tutte le categorie relegate nella stessa periferia sociale: di diventare cioè, da legislatori, interpreti di una universale marginalità. L'idea, benché sostenuta da uno storicismo un po' sommario, è suggestiva. Ma Luperini sopravvaluta le doti di rappresentanza dell'intellettuale, sfiorando ancora un corporativismo da vecchia repubblica delle lettere.
Inoltre, non guarda tanto a una diffusa capacità liberatoria della cultura, quanto piuttosto a gruppi che, per quanto precari, formano ceti istituzionali di professionisti (vede la marginalità perfino nei magistrati!). Sembra dimenticare che il ruolo ricoperto nelle istituzioni, almeno in quelle umanistiche, non ha più rapporti con le reali qualità, e che queste istituzioni producono anzi un'ideologia angusta e irriflessa, affiorante perfino nel Tramonto: dove, non a caso, le periodizzazioni culturali sono fatte coincidere con le mode accademiche.
Luperini è più convincente quando si muove dentro la «storia interna» della letteratura canonica. Notevoli sono i saggi dedicati alla privatizzazione dell'esperienza nella cultura moderna. C'è, ad esempio, un denso pezzo sul topos dell'incontro coi morti, legato nei classici alla trasmissione di una eredità comunitaria che gli scrittori degli ultimi secoli non riescono più a condividere, come mostrano i loro ritratti di defunti simili a indecifrabili revenant. E c'è un'analisi scorciata ma penetrante sul modo in cui, da Flaubert a Musil a Joyce, cambia la rappresentazione dell'adulterio, che da evento diviso tra contesti pubblici e privati sprofonda poi in una sfera tutta soggettiva.
Il passaggio tra '800 e '900 è il cuore delle riflessioni luperiniane. Lo confermano i saggi sul «modernismo»; termine con cui l'autore definisce la letteratura che nei primi decenni del XX secolo riflette il relativismo epistemologico imposto da Nietzsche e Freud. Questa letteratura si stacca nettamente dal decadentismo, in cui si continuano a collocare a torto modernisti come Tozzi, Svevo e Pirandello. Il discorso è qui così stringente, che si nota subito il contrasto con le successive pagine finali, dove è riproposta una storicizzazione delle poetiche del Duemila. Nel suo tentativo di reagire al postmodernismo, il critico finisce infatti per sostenervi un "realismo" inquinato dagli stereotipi e da un'esibizione di impegno assai estrinseca. Identifica la Realtà con certi grandi temi, dimenticando che la letteratura può giudicare il suo tempo anche a partire da spunti "marginali". Venendo al presente, Luperini accantona insomma il suo retroterra di marxista critico. Solo così si spiega il suo sostegno a libri come Gomorra, in cui la retorica populistico-estetizzante fa da alibi a un sociologismo di idee ricevute, e l'involucro del reportage fa da alibi alla corrività narrativa. Solo così si spiega, ancora, l'apprezzamento per i Tq e le loro piatte dichiarazioni "civili". In verità, questi letterati sfruttano i privilegi di ceto dello Scrittore socialmente riconosciuto, per circonfondere dell'aura mediatica dell'ipse dixit opinioni prive di ogni originalità. Si autopromuovono dicendo banalità su qualunque argomento, e pretendendo che la banalità sia nobilitata dal fatto che sono «Autori». Anziché un'alternativa al postmodernismo, si prefigura così la strumentalizzazione industriale e midcult delle insegne dell'engagement novecentesco. Per questi autori, la Realtà è quella decisa dallo storicismo armato dell'attualità mediatica, da riflettere in serial cartacei. Guardacaso, quasi nessuno di loro tenta ciò che per il Fortini caro a Luperini è il primo vero modo di impegnarsi coi mezzi letterari: ossia un'analisi spietata della falsa coscienza e dei compromessi che costa, in termini linguistici e sociali, il lavoro nell'odierna industria culturale. Ma non starebbe qui l'autentico «ritorno alla realtà»? E non viene a Luperini il dubbio che sia invece sostenendo la sua idea di realtà, schiacciata sui tempi imposti dai media, che si rischia di non accorgersi in tempi decenti della portata epocale degli scenari in apparenza privati e periferici di un Tozzi o di uno Svevo?


«Domenica - Il Sole 24 Ore», 8 dicembre 2013

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