La recensione qui
“postata” non si può definire benevola, ma fa ugualmente
cogliere l'importanza delle tematiche affrontate nel libro che
presenta e della complessiva esperienza critica di Luperini. (S.L.L.)
Romano Luperini |
Si possono proporre,
oggi, libri simili a quelli che in pieno '900 s'intitolavano
nudamente «saggi critici»? Certo è difficile pubblicare un volume
di pezzi a tema vario, se a legarli non è la fama dell'autore;
altrimenti gli editori pretendono il pamphlet a obiettivo unico, e di
stretta attualità. Ormai il saggio è schiacciato tra giornalismo e
studi specialistici. Con tanta più cura vanno quindi letti gli
ultimi esemplari di questo genere ibrido, capace di unire fredde
teorie e umori corrosivi, critica letteraria e sociale. Ne ritroviamo
i connotati in Tramonto e resistenza della critica (Quodlibet),
la nuova raccolta di Romano Luperini. Come i testi del suo maestro
Fortini, questo Tramonto è costruito su una divisione tra
brani sociologici e affondi su singoli temi letterari. Alle note
sulla didattica in tempi di riforma Gelmini, e sui «lavoratori della
conoscenza» nell'età globale, si affiancano analisi ravvicinate su
Verga e Manzoni, su Alvaro e McCarthy, e ambigui bilanci sulla
vincente critica tematica.
A unire il versante
politico e quello letterario è la riflessione sulla funzione
dell'intellettuale e del critico, di cui Luperini evoca alcuni
modelli (De Sanctis, Auerbach, Debenedetti, Guido Guglielmi),
definendone i limiti e i punti di attrito col presente. Il saggio su
Mimesis è un'ottima introduzione ad Auerbach, preso a esempio
ma anche smitizzato. Luperini loda la flessibilità teorica con cui
si muove tra le epoche «a spirale lungo un asse», evitando sia
l'arbitrarietà sia un piatto storicismo, e il suo mirabile intreccio
di ermeneutica e filologia, che il tardo '900 ha poi separato
rendendo l'una capziosa e l'altra sterile. Ma non elude le debolezze
del grande studioso, evidenziando la genericità delle sue idee sugli
«ordini sociali» da cui nasce l'arte. Auerbach interessa a Luperini
anche perché scrisse il suo capolavoro, nel cuore cupo del '900,
letteralmente sospeso tra Oriente e Occidente, cioè in quella
posizione «di soglia» che secondo lui è divenuta oggi l'unica
dalla quale gli intellettuali possano osservare con rigore la realtà
globalizzata. Spesso il critico cita Said, la cui opera, debitrice di
due mondi distanti, rappresenterebbe al meglio l'eredità
auerbachiana, e mostrerebbe come sia possibile analizzare le
differenze di civiltà partendo «dalla propria particolarità senza
ipostatizzarla». Qui Luperini vede un antidoto al disimpegnato
nichilismo postmodernista. A inizio XXI secolo, afferma, i drammi
internazionali hanno messo in crisi il culto della centralità
autoreferenziale del linguaggio, riproponendo un nuovo engagement e
nuove poetiche della mimesi.
Ciò avviene in un
contesto in cui è però irriproponibile la figura di un
intellettuale "legislatore". Oggi dilaga un
sottoproletariato intellettuale che non può certo dominare le enormi
strutture entro cui è inserito. Ma d'altra parte, la posizione
periferica dei suoi membri permetterebbe loro di dar voce alle
istanze di tutte le categorie relegate nella stessa periferia
sociale: di diventare cioè, da legislatori, interpreti di una
universale marginalità. L'idea, benché sostenuta da uno storicismo
un po' sommario, è suggestiva. Ma Luperini sopravvaluta le doti di
rappresentanza dell'intellettuale, sfiorando ancora un corporativismo
da vecchia repubblica delle lettere.
Inoltre, non guarda tanto
a una diffusa capacità liberatoria della cultura, quanto piuttosto a
gruppi che, per quanto precari, formano ceti istituzionali di
professionisti (vede la marginalità perfino nei magistrati!). Sembra
dimenticare che il ruolo ricoperto nelle istituzioni, almeno in
quelle umanistiche, non ha più rapporti con le reali qualità, e che
queste istituzioni producono anzi un'ideologia angusta e irriflessa,
affiorante perfino nel Tramonto: dove, non a caso, le
periodizzazioni culturali sono fatte coincidere con le mode
accademiche.
Luperini è più
convincente quando si muove dentro la «storia interna» della
letteratura canonica. Notevoli sono i saggi dedicati alla
privatizzazione dell'esperienza nella cultura moderna. C'è, ad
esempio, un denso pezzo sul topos dell'incontro coi morti,
legato nei classici alla trasmissione di una eredità comunitaria che
gli scrittori degli ultimi secoli non riescono più a condividere,
come mostrano i loro ritratti di defunti simili a indecifrabili
revenant. E c'è un'analisi scorciata ma penetrante sul modo
in cui, da Flaubert a Musil a Joyce, cambia la rappresentazione
dell'adulterio, che da evento diviso tra contesti pubblici e privati
sprofonda poi in una sfera tutta soggettiva.
Il passaggio tra '800 e
'900 è il cuore delle riflessioni luperiniane. Lo confermano i saggi
sul «modernismo»; termine con cui l'autore definisce la letteratura
che nei primi decenni del XX secolo riflette il relativismo
epistemologico imposto da Nietzsche e Freud. Questa letteratura si
stacca nettamente dal decadentismo, in cui si continuano a collocare
a torto modernisti come Tozzi, Svevo e Pirandello. Il discorso è qui
così stringente, che si nota subito il contrasto con le successive
pagine finali, dove è riproposta una storicizzazione delle poetiche
del Duemila. Nel suo tentativo di reagire al postmodernismo, il
critico finisce infatti per sostenervi un "realismo"
inquinato dagli stereotipi e da un'esibizione di impegno assai
estrinseca. Identifica la Realtà con certi grandi temi, dimenticando
che la letteratura può giudicare il suo tempo anche a partire da
spunti "marginali". Venendo al presente, Luperini accantona
insomma il suo retroterra di marxista critico. Solo così si spiega
il suo sostegno a libri come Gomorra, in cui la retorica
populistico-estetizzante fa da alibi a un sociologismo di idee
ricevute, e l'involucro del reportage fa da alibi alla corrività
narrativa. Solo così si spiega, ancora, l'apprezzamento per i Tq e
le loro piatte dichiarazioni "civili". In verità, questi
letterati sfruttano i privilegi di ceto dello Scrittore socialmente
riconosciuto, per circonfondere dell'aura mediatica dell'ipse
dixit opinioni prive di ogni originalità. Si autopromuovono
dicendo banalità su qualunque argomento, e pretendendo che la
banalità sia nobilitata dal fatto che sono «Autori». Anziché
un'alternativa al postmodernismo, si prefigura così la
strumentalizzazione industriale e midcult delle insegne
dell'engagement novecentesco. Per questi autori, la Realtà è
quella decisa dallo storicismo armato dell'attualità mediatica, da
riflettere in serial cartacei. Guardacaso, quasi nessuno di loro
tenta ciò che per il Fortini caro a Luperini è il primo vero modo
di impegnarsi coi mezzi letterari: ossia un'analisi spietata della
falsa coscienza e dei compromessi che costa, in termini linguistici e
sociali, il lavoro nell'odierna industria culturale. Ma non starebbe
qui l'autentico «ritorno alla realtà»? E non viene a Luperini il
dubbio che sia invece sostenendo la sua idea di realtà, schiacciata
sui tempi imposti dai media, che si rischia di non accorgersi in
tempi decenti della portata epocale degli scenari in apparenza
privati e periferici di un Tozzi o di uno Svevo?
«Domenica - Il Sole 24
Ore», 8 dicembre 2013
Nessun commento:
Posta un commento