Emilio Lussu (1890 -1975) |
È incredibile, anzi è
inverosimile, che Emilio Lussu (1890-1975) non abbia un posto nelle
antologie della letteratura secolare e che la sua bibliografia
critica rimanga reticente e lacunosa, se nemmeno le ha giovato, eo
tempore, la stima di Benedetto Croce, di Luigi Russo e di Eugenio
Montale, borghesi liberali che erano comunque antipodi di quel sardo
spinoso, orgoglioso e talora intrattabile. Uno stereotipo reelude
Lussu nella memorialistica storica, lo bolla nel ruolo dell’uomo
d’azione prestato alla scrittura o al massimo lo salva nelle vesti
del politico depositario di uno stile, quasi un medio proporzionale,
stando ai leader della sua generazione, tra il fervore giacobino di
Pietro Nenni (che fu in effetti un fuoriclasse del giornalismo) e il
ductus beneducato, da vecchio professore di liceo, dietro cui si
celavano i sarcasmi di Palmiro Togliatti. Fatto sta che a Lussu è
andata in prevalenza l’attenzione degli storici, da Mario Isnenghi,
in anni lontani, a Giovanni De Luna e Mimmo Franzinelli che ne hanno
curato le recenti ristampe di Marcia su Roma e dintorni (Einaudi
2006) e La catena (Baldini & Castoldi 1992), due memoriali
degli anni neri che si accampano nella breve sequenza, meno di dieci
libri pubblicati in vita, al cui epicentro si trova Un anno
sull’Altipiano (1938), uno dei massimi testi sulla Grande
Guerra, corrispettivo degli Hemingway, dei Barbusse, dei Remarque e
Céline, la cui ultima edizione (Einaudi 2005) è prefata da Mario
Rigoni Stern, dunque non uno studioso di letteratura o un critico
bensì, e gli sia comunque reso merito, un autore suo consanguineo.
(A parte, per lo specifico valore filologico, sta la grande impresa
di Tutte le opere edite da Aisara di Cagliari, quest’anno
giunte al secondo volume, L’esilio antifascista. 1927-1943,
a cura di Manlio Brigaglia).
Non fa eccezione alla
regola, nuda di apparati, l’attuale riproposta di Diplomazia
clandestina - 14 giugno 1940 - 25 luglio 1943 (Baldini
Castoldi Dalai, «Storie della Storia d’Italia»), uscita a puntate
su «Il Ponte» di Calamandrei e subito in volume da La Nuova Italia
nel 1956. Qui Lussu, ancora una volta, sembra assecondare lo
stereotipo dello scrittore non soltanto tardo (egli ha esordito a
oltre quarant’anni con La catena, referto della fuga con
Carlo Rosselli dal confino di Lipari) ma si direbbe desultorio e
sempre ufficioso: Marcia su Roma (’32) lo ha scritto esule a
Parigi da cospiratore di “Giustizia e Libertà” mentre Un anno
sull’Altipiano, di lì a poco, su diretta committenza di
Gaetano Salvemini, nel sanatorio svizzero in cui curava la
tubercolosi contratta dieci anni prima da deputato sardista e
antifascista che il regime aveva gettato nel carcere di Cagliari; da
ultimo, Democrazia clandestina è redatto quando ormai Lussu è un ex
della Costituente, già ministro dei governi Parri e De Gasperi, un
senatore del Psi nemico della cosiddetta «legge truffa» come della
convergenza verso la De che presto porterà il suo partito al governo
e vedrà lui medesimo tra i fondatori del Psiup.
Chi rilegga oggi
Diplomazia clandestina, viceversa, potrà cogliere nella
pagina di Lussu una vocazione di saggista ben dissimulata, ovvero
contenuta, nella misura del memorialista. Come se la foga di un uomo
proverbialmente vocato all’azione (il capitano pluridecorato della
Brigata Sassari, l’organizzatore del movimento sardista, il fiero
oppositore del Duce in parlamento) riuscisse, una volta impedita
l’azione propriamente detta, a tradursi nel metabolismo dei ricordi
personali e nella maturazione di una idea della democrazia fondata
sulla progressiva integrazione della base alle istituzioni dello
Stato e sulla cosciente partecipazione delle masse popolari alla vita
pubblica, come peraltro ha intuito il suo maggiore biografo, Giuseppe
Fiori, nello splendido libro che si intitola Il cavaliere dei
Rossomori. Vita di Emilio Lussu (Einaudi 1985). Infatti
Diplomazia clandestina è tanto il resoconto del vagabondaggio
di un esule tra le cancellerie d’Europa in cerca di sostegno
militare-politico-economico per il movimento antifascista, quanto una
metafisica della Resistenza democratica al dispotismo. Lussu scrive
ora per allora, oltre dieci anni dopo i fatti, ma ha da sempre la
certezza che la Resistenza o sarà sollevazione dal basso,
politicamente matura, o sarà esclusivamente un appoggio formale agli
eserciti alleati, vale a dire agli eserciti occupanti.
Leggibile in controcanto
con le memorie della sua compagna (Joyce Salvadori Lussu che scrive,
ancora giovanissima, Fronti e frontiere, 1944), il libro ha
un’andatura picaresca e insegue le tracce di un maturo fuoriuscito
e scrittore a tempo perso, fra Parigi, Lisbona, Malta, New York,
Londra, Lione (fra storie di passaporti falsi, inchiostri simpatici,
nomadismo coatto, indigenza) mentre mette a fuoco una vera e propria
teoria dell’insurrezione, già formulata per esteso a Parigi in un
opuscolo agitprop a sua firma, del 1936. Che il moto insurrezionale
non sia poi scoppiato nell’isola a opera degli autonomisti sardi e
dei fanti della Brigata Sassari, come Lussu invece sognava, ciò non
toglie nulla alla nettezza e persino alla chiaroveggenza della sua
posizione: «Le mie conferenze finivano sempre là: il problema è
politico, senza di che una collaborazione militare è resa
impossibile. Credo che dovetti ripetere un centinaio di volte il mio
punto di vista: ‘Nessuno degli esponenti dell’antifascismo
italiano farà mai l’agente inglese, così come nessun inglese farà
mai l’agente italiano’ (...) In seguito, anche dopo la guerra,
con l'esperienza della guerra partigiana in Italia,
rievocando quel periodo ai Londra e l'insuccesso di quei miei
tentativi diplomatici, ho sempre pensato che la causa ne sia stata
non tanto la diffidenza verso l’antifascismo rivoluzionario nel
campo politico e in quello sociale, che le esigenze della vittoria
avrebbero anche potuto superare, quanto la mancanza di fiducia dei
dirigenti britannici sulla capacità concreta dell’antifascismo di
quell’epoca ad agire in vaste azioni insurrezionali».
Il suo stile
posato di saggista non contraddice affatto la passione del politico,
semmai la riscatta nella compostezza spigolosa, un poco ispida ma di
efficacia micidiale; e al riguardo, Goffredo Fofi ha potuto parlare
di «penna fredda, pudica, austera» introducendo la lettura di Un
anno sull’Altipiano effettuata nel settembre del 2008 da Marco
Paolini (accessibile nel sito di RadioTre, Ad alta voce, a
cura di Anna Antonelli e Fabiana Carobolante, con una suggestiva
testimonianza di Mario Monicelli). Chi ha avuto la fortuna di
ascoltarlo dal vivo sa che la sua oratoria, cosa rara, aveva i tratti
e la cadenza della sua stessa pagina, alta senza essere retoricamente
impostata, magra senza essere povera, complessa senza essere affatto
complicata. Pure se mai l’avrebbe confessato, sapeva bene che le
sue partiture saggistiche non erano affatto il surrogato di una
azione impossibile ma, come gli capitò di rilevare, esse
procedevano, al contrario, dal fermo «rifiuto dell’inazione». Ciò
vuol dire che Emilio Lussu scriveva per effettiva urgenza, non per
vanità ma per necessità. E ciò spiega, oltretutto, il sospetto che
prima o poi si insinua in chi abbia la ventura di leggerlo: quello di
trovarsi al cospetto di un classico, il quale non necessita di
ulteriori aggettivi.
“alias il manifesto”,
15 gennaio 2011
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