“Enas ribas do
lago, u eu vi andar…"
All’hotel “Sponda
d’Acheronte” stanno
lì in piedi col
dispaccio Ansa
cambiando biancherie,
aerando stanze. Il lago
tarda a incresparsi sotto
il tuo minimo peso,
non più di una piuma
sulla pece. Pronto
quel mezzo bicchiere di
bianco, come sempre.
Intanto sto tornando a
casa con la mia scorta d’avena
pennello per le arterie.
Trovo, a muro,
vecchi post-it mischiati
a foto ormai imbarcate:
“Do you like Satie?”.
“Bien sûr!”, mi rispondo da anni.
Poi gli anni, via via,
diventarono mesi, le arterie ti si allargarono
come strade sciancate da
carri di letame. Scrutavamo
a solecchio, astuti
marinari, i giorni.
“Maggio è alla fine,
allegri!”. C’era
però quell’io tuo che
fu sempre un io e in realtà
parlava di tutt’altro,
farsi mostro, only you,
per sconfiggere il
mostro. Segnale incontestabile
che l’ego può
diventare il grande rene, regolatore
di scorie e luce, di
proprio e altrui. E infatti tu, Edoardo,
non avevi un’anima, per
nostra fortuna. Non so se a altri
sia mai riuscito:
chiudere tutto il corpo nella storia,
tutta la storia nel
corpo, chiamare Io questo complotto,
poi mettersi da parte,
assistendo all’aurea farsa:
il mondo farsi beffe di
se stesso.
Giorgio Luzzi |
NOTA. Ho
scritto questi versi l’indomani della notizia della morte di
Sanguineti. Da qualche tempo avevo ripreso a ascoltare le cantigas,
antiche melopee protovolgari di area iberico-lusitana del tredicesimo
secolo: preghiera, lutto, lontananza. La musica di Satie, viceversa,
è tutta l’opposto: irriverenza, quotidianità, carnalità,
sperimentalità. Di certo deve essere stata nell’orizzonte di
interessi (ma che cosa non lo è stato?) di Sanguineti. In questo mio
testo lui compare nella seconda parte e si impadronisce del discorso
lasciando parlare me: la religio dell’enciclopedismo, la dialettica
dell’eccesso come sguardo simbolico su una forma trascendentale che
ha sempre l’umano come fine, l’ego come avanguardia dell’agire
storico e carica testimoniale di denuncia permanente. Applicata a noi
poeti come sguardo operativo, questa prospettiva dell’io è
esattamente l’opposto di ogni conforto autobiografico: è un io
prestato alla fase dialettica della negazione. Pensiamoci, d’ora in
poi, quando ci rimetteremo a scrivere.
L'Indice, luglio-agosto
2010
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