Presenza anomala nella
famiglia democratica statunitense, imparentato con figure in vista
della cultura liberal, da Jackie Kennedy a Jimmy Carter, Gore Vidal
ha avuto da sempre il ruolo insidioso del grillo parlante del Gotha
della politica americana. Nei ventidue volumi al suo attivo ha
offerto letture provocatorie e controverse della storia ufficiale
americana, dal ruolo di Roosevelt nell'attacco di Pearl Harbor alla
più recente guerra preventiva di cui individuò i primi segni nel
conflitto con il Messico e poi nel «national-security state»
inaugurato da Henry Truman (Perpetual War for Perpetual Peace,
2002).
Scrittore abile e
poligrafo, ha aperto, con lo sguardo informato dell'insider, inediti
scenari sul potere politico e sulle sue icone. La sua residenza a
Ravello ha avuto per anni i tratti di un esilio dorato che gli ha
dato l'agio di incontrare capi di stato e autori del calibro di
Christopher Isherwood e Tennessee Willliams.
Nella lussureggiante
costiera amalfitana amava rileggere i classici americani e riscrivere
la storia d'America in una forma resistente ai generi letterari come
è tradizione del new journalism, mescolando, sin dal primo
incontro con l'opera di Stephen Crane, cronaca e finzione, e facendo
della letteratura un luogo di radicale revisione storica sospeso tra
romanzo e biografia. In grado di impersonare icone americane come
Lincoln (1984) in ritratti romanzati molto documentati, senza
rinunciare alle dimensioni epiche del personaggio, Vidal ha narrato i
risvolti soggettivi delle vicende collettive di una nazione, senza
tralasciare figure apparentemente marginali nell'eroica ascesa dei
padri fondatori. Si pensi a Burr (1973), di cui ha intessuto la vita
nelle forme di un diario immaginario. Nella doppia veste di narratore
e di saggista, Vidal ha illuminato di vere presenze la scena politica
americana ingessata dai protocolli istituzionali, guardando al di là
dei resoconti ufficiali. Non diversamente da E. L. Doctorow, Joan
Didion e Don DeLillo, ha raccontato in piena libertà una storia
americana fuori dai cliché, facendo della narrativa un luogo di
rivelazione di verità nascoste.
Grande conoscitore della
storia degli Stati Uniti e consigliere di intellettuali e statisti,
nella sua villa italiana amava circondarsi di personalità della
politica e della cultura, uscendone malvolentieri, come nella rara
apparizione, nel 1988, alla Fondazione Crawford di Sant'Agnello di
Sorrento dove, da grande affabulatore, intrattenne un pubblico di non
addetti sul rapporto tra due espatriati in Italia: il grande Henry
James Jr. - un maestro inarrivabile esclusivamente dedito alla sua
arte - e lo scrittore popolare Francis Marion Crawford, che, come
lui, aveva scelto l'esilio sulla costiera campana, intraprendendo la
strada del romanzo popolare. Come Crawford, Vidal è estraneo alle
raffinatezze formali di James, ma, come ha scritto Richard Ambrosini
in un recente volume a cura di Gordon Poole (Di Mauro, 2011), ha
studiato a fondo la storia antica e i contesti italiani per
intrecciarli mitograficamente con le vicende recenti dell'impero
globale. D'altronde, fu proprio lui a riattualizzare, prima della
coppia Negri-Hardt, la storia della Roma imperiale per illuminare i
nuovi scenari internazionali, raccontando, in The Last Empire
(2001), i complotti, gli intrighi le perfidie e le ambizioni
individuali che muovono segretamente la storia delle nazioni.
Nella condizione di
dissidente che, in patria, lo ha reso inviso a gran parte della
stampa americana, che lo ha tacciato anche di antisemitismo, Vidal ha
narrato, in chiave fittizia e non, tutti i momenti chiave della
storia politica statunitense senza evitare il confronto con
l'industria culturale, avendo lavorato nei teatri di Broadway e alla
sceneggiatura hollywoodiana di Ben Hur, nello spazio
dialettico di un romanzo storico già postmoderno. Pur privilegiando
un realismo attento al mutare dei costumi che lo avvicinano più alla
prosa tersa di John Updike e di Alison Lurie che alla scuola di James
T. Farrell e di Hemingway su cui si è formato, dopo il successo di
Dallas, Vidal ha raccontato per primo l'America e le amnesie
dentro le dinamiche forsennate della sua iconografia ufficiale, o
attraverso una telenovela (Duluth, 1983). Con lo stesso
sguardo satirico e irriverente, ha dedicato, nel 1968 (Myra
Breckinridge) un romanzo a un transessuale, contro l'ipocrisia
dei rigidi protocolli eterosessuali di Washington.
Per riprendere una
definizione di Paul Barman, con l'appellativo di «Patriotic
Gore», non ci riferiamo solo all'uomo che nel 1943 ha perso in
guerra l'uso parziale delle ginocchia, ma al dissidente che, nella
tradizione democratica della disobbedienza civile americana, ha
difeso fino alla fine un'idea di democrazia che non si consuma solo
tra i marmi del Congresso. Con il suo rigore di storico e il gusto
per il gossip con cui anche Truman Capote intrecciava i giochi del
potere alle cronache mondane, Gore Vidal ci lascia un vasto
patrimonio di narrazione e di conoscenza dello spettacolo della
politica a cui, come il nonno senatore, anche lui, inizialmente,
aveva ambito, diventando, invece, un cronista d'America fedele agli
ideali della sua costituzione.
il manifesto, 2 agosto
2012
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