La miniera di Bosco Palo nel Comune di Serradifalco |
Nella villetta dei
misteri sepolti
A qualche chilometro da
Serradifalco, in provincia di Caltanissetta, c’è una villa
abbandonata. La casa è a pochi passi da una miniera, quella di Bosco
Palo. Nel giardino giacciono lastre d’amianto e rifiuti urbani. La
struttura sembra essere sopravvissuta a un terremoto. Dell’interno
non sopravvive più nulla. Quel che invece resta sono un centinaio di
fogli buttati in terra. Documenti. Alcuni sono in buono stato, altri
meno. Raccontano di una vicenda fosca. Sono certificati di
provenienza e avvenuto trattamento di rifiuti speciali. In alto, in
bella vista, il logo e il nome della società operatrice, la Aria
srl. Da uno dei documenti, compilato dal direttore sanitario, si
deduce di che materiale si tratti: siringhe, garze, liquidi speciali
e farmaci scaduti. E poi servizi di dialisi e delle camere
operatorie, solventi, reflui di radiologia, materiale di medicazione
e trasfusionale monouso. In basso, c’è il riferimento al luogo di
destinazione finale, il Consorzio Igiene Ambiente di Coriano, Forlì.
In evidenza il timbro del firmatario e dell’Usl di riferimento,
mentre a fine pagina troviamo anche il riferimento all’impianto di
smaltimento che ha contro-bollato il documento.
In un altro documento c’è
solo un elenco di località e date: Rimini, Riccione, Cattolica,
Misano Adriatica, San Giovanni. Finanche la Repubblica di San Marino.
Secondo questo foglio, c’è un carico di 565mila chilogrammi di
rifiuti ospedalieri speciali da smaltire.
Oltre ai fogli, nella
casa c’è quel che sembra un libro contabile. All’interno sono
conservati un elenco di assegni, cambiali, fatture, assicurazioni di
furgoni, biglietti di viaggi in aereo e treno, pernottamenti in
albergo, ma anche scontrini di gioiellerie e bollette della luce. Il
tutto riferito alla Aria srl di Catania, che oggi però non esiste
più. La documentazione fa riferimento alla titolare e
amministratrice della società, Maria Di Gioia. Nel 1995, il suo nome
è stato coinvolto nell’operazione Asterix1, condotta da Erminio
Amelio e Salvatore De Luca, allora sostituti procuratori di Palermo.
L’inchiesta aveva portato ad emettere 15 ordinanze di custodia
cautelare e 9 provvedimenti di sospensione dalle cariche pubbliche in
seguito ad accertamenti sull’irregolarità dello smaltimento dei
rifiuti solidi e tossici delle Usl di Palermo e provincia, che
venivano ritirati e stoccati violando le norme vigenti. In carcere
era andato anche Nicolò Cammarata, all’epoca commissario
straordinario della Usl provinciale di Palermo, che, secondo la
ricostruzione, aveva una relazione con l’amministratrice dell’Aria
srl e che avrebbe favorito illecitamente per aggiudicarsi il servizio
di smaltimento dei rifiuti ospedalieri delle Usl siciliane.
L’azienda, secondo i magistrati, “non disponeva dei requisiti
necessari per svolgere il servizio”, protrattosi per oltre due anni
nonostante la concessione fosse prevista per soli sei mesi.
Le testimonianze.
Salvatore Alaimo, ex
assessore della provincia di Caltanissetta, è convinto che molti dei
rifiuti speciali e ospedalieri siano stati sepolti all’interno
della miniera di Bosco Palo. «Di notte, arrivavano dei grossi tir
che sostavano in una piazzola poco distante dalla casa – ci
racconta – poi con i camioncini piccoli da un quintale e mezzo,
prendevano la merce contenuta nei camion più grandi e la
trasportavano qui, all’interno della villa». L’andirivieni,
durato fino al 1994, è confermato dagli abitanti della zona e nel
marzo 1991 i carabinieri della stazione di San Cataldo verificarono e
accertarono la presenza di rifiuti speciali ospedalieri nella
villetta. In seguito alla segnalazione dei militari,
l’amministratrice dell’Aria srl (ex Sicilconsa) venne iscritta
nel registro degli indagati in un processo penale svoltosi a
Caltanissetta, nel quale le fu contestata la violazione di alcune
norme in merito allo smaltimento di rifiuti. La vicenda però si
chiuse subito con l’oblazione richiesta dalla stessa imputata.
Quel che non si conosce
invece è la destinazione finale dei rifiuti transitanti dalla
villetta. «Secondo me li portavano là – spiega Alaimo indicando
le gole della vicina miniera di Bosco Palo». Dopo il blocco
dell’attività produttiva, le miniere sono state tombate e, in
molti casi, i pozzi allagati. «Non si può escludere a priori che
questi siti siano stati utilizzati per smaltire rifiuti più o meno
pericolosi – ci spiega Salvatore Caldara, dirigente dell’Azienda
Regionale per la Protezione dell’Ambiente Sicilia – Questo lo si
potrà verificare solamente quando sarà possibile accedere alle
cavità sotterranee che al momento, per ovvi motivi di sicurezza,
sono state tombate con delle piattaforme di calcestruzzo».
Impossibile accedere,
dunque. Come impossibile è effettuare analisi e carotaggi in
profondità. Per questo, durante la prima ispezione nel sito, i
tecnici dell’Arpa si erano fermati solo a un’analisi di
superficie, che non permise “di identificare l’emettitore delle
radiazioni prodotte”. Per chiarire perché il sopralluogo dell’Arpa
sia stato parziale e limitato solo a un’area della miniera, abbiamo
chiesto spiegazioni a Caldara. «Utilizzando altra strumentazione, è
stata fatta una seconda campagna di controlli tra il 2011 e il 2012
che sembrerebbe confermare la nostra prima valutazione: la
radioattività rilevata è riferita alla presenza del potassio che si
trova negli scarti di lavorazione della miniera».
Nel frattempo, la
Direzione distrettuale antimafia di Caltanissetta ha in mano un
fascicolo intitolato Smaltimento illecito di rifiuti speciali, e sta
portando avanti le proprie indagini. Al momento, l’unica certezza è
la presenza delle coperture degli impianti realizzate con pannelli di
amianto che, deteriorati a causa delle intemperie, sprigionano
nell’aria le fibre tossiche. A questo bisogna aggiungere la perdita
di olio dielettrico, fuoriuscito dai macchinari di trivellazione e le
masse di sale accumulate nei capannoni o in apposite aree della
miniera.
«Andrebbe caratterizzata
l’area e poi bisognerebbe fare tutta una serie di valutazioni –
ci spiega il dirigente Caldara – perché rimuovere quei
quantitativi di rifiuti è un’opera ciclopica. Stiamo parlando di
una discarica di proporzioni enormi, di dimensioni pari a più campi
di calcio. Quindi sarebbe opportuno valutare che tipo d’intervento
svolgere».
Mafia e miniere
Il binomio che lega le
cave estrattive siciliane a Cosa nostra ha una storia lunga. Parliamo
di un’epoca in cui gli “uomini d’onore” avevano grossi
appezzamenti di terreni e in molti casi si erano guadagnati la fama
di imprenditori. Uno di questi, Calogero Vizzini, è stato tra i più
influenti capi mafia della storia siciliana e azionista di
maggioranza della miniera di Gessolungo, in provincia di
Caltanissetta, oltre che di altre attività estrattive. Si racconta
che nel 1922 avesse fatto parte di una missione internazionale a
Londra, con i dirigenti della Montecatini e il futuro ministro delle
finanze Guido Jung. Scopo: trattare con altri industriali il prezzo
dello zolfo.
Un memoriale redatto dal
Partito Comunista in Sicilia e trasmesso nel 1964 alla Commissione
parlamentare di inchiesta sulla mafia, raccoglie minuziosamente ogni
singola infiltrazione mafiosa presente nelle cave della provincia di
Caltanissetta. Qualsiasi attività che ruota attorno all’estrazione
dei minerali è d’interesse della mafia, dalla manutenzione degli
impianti al trasporto, passando per l’assunzione dei lavoratori.
Nel complesso di Bosco e
Palo, i sali potassici viaggiano sui camion di Vincenzo Arnone, uomo
d’onore e compare di Genco Russo. La sua azienda aveva vinto la
gara d’appalto realizzata dalla Montecatini Spa, con un notevole
ribasso del prezzo stabilito. Poco distante c’è Trabia Tallarita
controllata dalla famiglia Di Cristina di Riesi; a Trabonella invece
sono ancora una volta gli uomini di Vizzini e i mafiosi di Racalmuto
a comandare.
Telecomandi e
tritolo
«Sa quanti uomini
d’onore lavoravano a Pasquasia? Una quindicina. E facevamo anche le
riunioni all’interno della miniera; faccia il conto di quante
miniere ci sono in Sicilia. Le cave nell’isola sono tutte in mano
nostra». È il 4 dicembre 1992, seduto davanti la Commissione
parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia c’è Leonardo
Messina, detto Narduzzo, figura di spicco della famiglia di Cosa
nostra a Caltanissetta e da alcuni mesi collaboratore di giustizia.
Messina era stato dipendente dell’Idrofont, una ditta pulita di San
Cataldo, nella quale ricopriva la mansione di assistente al
sottosuolo a Pasquasia, una delle più grandi miniere di sale
potassico d’Europa, situata tra Enna e Caltanissetta.
Durante l’audizione,
presieduta da Luciano Violante, il boss, soffermandosi sull’attentato
di Capaci confessa: «Non abbiamo bisogno di comprare l’esplosivo
all’estero perché le cave in Sicilia sono tutte in mano nostra».
Un concetto ribadito anche durante il processo Leopardo celebrato a
Caltanissetta: «Tutto quello che volevamo io l’ho uscito dalla
miniera – le parole di Messina – da detonatori elettrici a
dinamite. Noi rubavamo tutto all’Italkali, un anno l’azienda
disse che gli mancavano dalla contabilità 400 kg di dinamite». Lui
è l’ultimo pentito ascoltato da Paolo Borsellino.
1992, l’anno
delle stragi.
Messina racconta che tra
febbraio e marzo di quell’anno si era tenuta una riunione nel
territorio di Enna, alla quale aveva preso parte la Cupola – Riina,
Provenzano, Giuseppe Madonia e Santapaola – e che nel corso di
quella riunione era stata decisa l’eliminazione di Giovanni
Falcone. Con molta probabilità il vertice di Cosa nostra aveva
deciso di attuare una nuova strategia stragista e di colpire anche
vecchie amicizie, come l’onorevole democristiano Salvo Lima e
l’esattore Nino Salvo. Narduzzo era stato aggiornato sugli esiti
del summit dal suo amico Liborio Micciché, detto Borino, all’epoca
consigliere per la Provincia di Enna.
Lima era stato anche il
referente della mafia negli affari che ruotavano attorno a Pasquasia,
aiutando la cooperativa La Pietrina che si occupava della pulizia dei
nastri dei macchinari e che era amministrata proprio da Miccichè e
da Raffaele Bevilacqua, esponente della corrente andreottiana della
Dc e considerato sotto-capo della stessa ‘provincia’ mafiosa.
Secondo la ricostruzione di Messina, agli atti del processo
Andreotti, Salvo Lima, contattato da Bevilacqua, aveva a sua volta
fatto pressioni su Francesco Morgante (presidente dell’Italkali),
per convincerlo a dare dei lavori anche a La Pietrina, che da qualche
mese era stata esclusa dalle commesse. Dopo l’intermediazione, la
cooperativa di Micciché e Bevilacqua fu reinserita.
«Noi (inteso come Cosa
nostra, ndr) eravamo i padroni della miniera – racconta Messina –
perché loro (riferito all’Italkali, ndr) si occupavano di scavare
il sale e noi invece ci occupavamo di controllare le gallerie». Le
miniere erano i fortini di Cosa nostra. «A Pasquasia c’erano
tutti: Miccichè, Mazzarisi, Arnone», spiega il collaboratore di
giustizia.
Degli altri due abbiamo
già parlato prima, Arnone invece era riferito a Paolino, titolare di
un’azienda di trasporti e considerato uomo d’onore della famiglia
di Serradifalco, arrestato durante l’operazione Leopardo condotta
dalla Procura di Caltanissetta nel 1992.
La miniera atomica
Da circa vent’anni sono
tante le inchieste giudiziarie che si sono susseguite sulla miniera
di Pasquasia. Tuttavia, ad oggi, non sappiamo cosa nascondano quelle
gallerie. Secondo uno studio dell’Arpa Sicilia, delle Asp di Enna e
Palermo e i rilevamenti dei vigili del fuoco (commissionati dalla
Procura di Enna), nella miniera ci sarebbero 9 mila quintali di
amianto per 15 milioni di chili di terreno contaminati. Nel 2011,
erano finiti sotto indagine Raffaele Lombardo (che ricopriva la
duplice funzione di governatore e commissario delegato in materia di
bonifica e risanamento ambientale), gli assessori Piercarmelo Russo e
Giosuè Marino, e il consegnatario della miniera Pasquale La Rosa.
Per loro, l’accusa contestava i reati di omissione d’atti
d’ufficio e la gestione di rifiuti – amianto, nello specifico –
non autorizzata. Il processo è attualmente in corso.
La chiusura e
l’abbandono
Nel 1992 la miniera,
attiva dal ’59 e terzo polo estrattivo al mondo per sali potassici,
ferma la produzione. Ufficialmente perché gli scarti di lavorazione
finivano nei fiumi Salso e Salito. Nel ’91 la Regione stanzia 70
miliardi di lire per la costruzione di impianti di depurazione a
scarico controllato. I concorrenti tedeschi della Kali und Sulz,
però, impugnano la proposta siciliana a Bruxelles, perché ritengono
che favorisca l’Italkali (società a capitale misto che la gestiva
insieme alla Regione Sicilia), ponendola in una posizione
privilegiata sul mercato. Ne segue una lunghissima battaglia
giuridico-legale tra la commissione europea e la Regione Sicilia,
conclusasi a favore dell’Italia. Nel dicembre del 1992 la Giunta
regionale rende pubblico l’appalto, aggiudicato dal raggruppamento
di imprese Astaldi spa. Ma di nuovo tutto si blocca perché, secondo
gli uffici regionali, la “disponibilità economica non risultava
sufficiente per l’insieme delle opere del progetto”. Il tempo
passa, i lavori non iniziano mai, i soldi scompaiono.
Gli studi dell’Enea
Parallelamente
all’estrazione mineraria, alla fine degli anni ’70, la Comunità
Europea chiese a tutti i Paesi membri di realizzare degli studi per
cercare siti idonei a ospitare minerali radioattivi, di bassa e di
alta intensità, con un decadimento che poteva raggiungere i 25 mila
o i 100 mila anni. L’elenco prevedeva 134 siti, e tra i 12 situati
in Sicilia c’era Pasquasia. Negli anni ’80, l’Ente nazionale
per l’energia atomica (Enea) e l’Italkali firmarono un accordo
quinquennale che consentiva agli scienziati di realizzare nella cava
un laboratorio a 400 metri di profondità, per studiare le argille
del sottosuolo e capire se era possibile costruire un deposito
nucleare. I quotidiani riportano la notizia e la popolazione,
spaventata dall’ancora recente disastro di Chernobyl, insorge. A
farsi portavoce della battaglia è il sindaco di Enna, il
democristiano Emanuele Lauria, che spinge la Regione a intervenire.
Si apre un dibattito che portera alla revoca dell’autorizzazione
allo studio. Nello stesso tempo, la Procura di Enna pone i sigilli al
laboratorio. «Il nostro era uno studio sperimentale – spiega a
Narcomafie il professor Enzo Farabegoli, che negli anni ’80 prese
parte agli studi – non c’era niente di nascosto o di segreto,
realizzavamo dei report che sono ancora oggi consultabili all’Enea.
Le posso confermare che non c’è neppure un granello radioattivo
dentro la miniera». Diversi anni dopo, ancora Leonardo Messina
racconta al Procuratore antimafia Luigi Vigna che il Sisde si era
interessato parallelamente allo studio dell’Enea. Pare infatti che
i servizi segreti in forma ufficiosa avrebbero chiesto ai funzionari
pubblici locali il nulla osta per seppellire materiale di natura
militare altamente nocivo.
In Commissione
antimafia.
Alcuni anni dopo la
chiusura, nel 1997, l’avvocato agrigentino Giuseppe Scozzari,
deputato de La Rete e componente della Commissione antimafia, porta
all’attenzione del Governo la vicenda di Pasquasia e il possibile
occultamento di rifiuti speciali. «Avevo parlato con molti minatori
del luogo – ci racconta Scozzari – i quali mi avevano segnalato
un movimento di camion che entravano e uscivano in orari e giorni
inconsueti, considerando soprattutto che la cava era chiusa e
abbandonata già da alcuni anni». Scozzari scrive un’interrogazione
parlamentare per informare e chiedere chiarezza al Governo,
consegnando lo stesso atto alla Procura di Caltanissetta e alla
Commissione di cui era componente.
Il Procuratore della
Repubblica nissena è Giovanni Tinebra, che in quegli anni si sta
occupando delle stragi di Capaci e via D’Amelio e che viene
convocato a Roma dalla Commissione. Durante l’audizione, il
magistrato spiega che di Pasquasia «i giornali se ne erano occupati
a sproposito» e che la fuga di notizie avrebbe «ingenerato un
allarme superiore alla portata della questione». Ma tornando a
parlare dei possibili sospetti che ruotavano attorno alle cave,
spiega che «abbiamo tutta una serie di indicatori che ci portano a
sospettare una pesante presenza di Cosa nostra nell’attività di
raccolta, stoccaggio e smaltimento di rifiuti speciali e tossici». A
un certo punto però il magistrato chiede di passare alla seduta
segreta. A distanza di anni, Scozzari, presente all’audizione, ha
spiegato che «probabilmente all’epoca dire che si stava indagando
su Pasquasia poteva essere un fattore di rischio».
Fu l’ultima occasione
ufficiale in cui si parlò di occultamento di rifiuti nelle cave.
Solo nel 2003 Giuseppe Regalbuto. presidente della Commissione
speciale sulle miniere dismesse dell’Unione regionale province
siciliane (Urps), chiese ai magistrati di Caltanissetta lumi sugli
sviluppi delle indagini. Sergio Lari, procuratore capo, rispose che
c’erano stati degli accertamenti su «noti indagati» per reati di
«smaltimento illecito di rifiuti anche radioattivi all’interno
della miniera», ma che «tali atti tuttavia non sono ostensibili in
quanto coperti da segreto».
«Questo – aggiunge
Scozzari – è un altro dei dilemmi di questo Paese: come mai il
Governo non ha mai fatto chiarezza sulla triste storia delle miniere,
chiuse per volontà privata e per complicità pubblica».
Mamma Regione e gli
enti informali
Aveva già capito tutto
l’ingegnere Domenico La Cavera, detto Mimì, uno dei promotori
della So.Fi.S. (Società Finanziaria siciliana), nonché ideatore di
Sicindustria, il ramo distaccato nell’isola di Confindustria: «Il
sale e il potassio erano da considerarsi il nostro tesoro. Dopo che
si dimostrò che lo zolfo non era più economicamente valido e troppo
costoso anche in termini di vite umane. Inoltre l’impossibilità
della burocrazia regionale di agire in senso imprenditoriale e tanto
altro ancora, fece scomparire il sale dalle nostre produzioni.
Insomma la Sicilia dopo lo zolfo poteva diventare la regina del sale.
Non fu così».
Siamo negli anni
Cinquanta, la Regione ha affidato il timone del nuovo programma
economico all’avvocato Vito Guarrasi, nominato Segretario generale
del piano quinquennale per la ricostruzione della Sicilia. Ha il
compito di gestire in maniera autonoma e diretta qualsiasi decisione
o trattativa in merito alle vicende economico-finanziarie che
riguardano il territorio isolano. Vito è figlio di Raffaele, ricco
proprietario terriero di Alcamo, dal quale eredita i vigneti del
famoso vino Rapitalà. Guarrasi ha amicizie importanti: Enrico Mattei
e Eugenio Cefis, e i banchieri Enrico Cuccia e Michele Sindona.
L’avvocato appartiene inoltre alla sezione siciliana dell’antica
loggia della Massoneria universale di rito scozzese antico e
accettato, Supremo Consiglio d’Italia, che si riunisce segretamente
a Palermo, dove incontra boss mafiosi, ma anche magistrati,
imprenditori, avvocati. Conosce per esempio i fratelli Ignazio e Nino
Salvo (considerato l’esattore di Cosa nostra), Salvatore Greco
Ciaschiteddu, ovvero il capo della prima ‘commissione’ della
mafia, ed il cugino Totò Greco detto l’ingegnere, entrambi
appartenenti alla famiglia di Ciaculli.
La So.Fi.S
A dieci anni dalla sua
costituzione, l’ente regionale conta 55 partecipazioni azionarie in
svariate società e debiti stimati intorno ai 3 miliardi di lire.
L’idea di una Regione imprenditrice scricchiola. Ma invece di
rivedere le strategie economiche, la politica dà vita a nuovi enti.
Nascono l’Ente minerario ciciliano (Ems), la Società chimica
mineraria ciciliana (So.Chi.Mi.Si) e l’Ente sviluppo industriale
(Espi). A gestirne i fondi è Graziano Verzotto, democristiano di
area Fanfani, veneto di nascita ma siciliano d’adozione, che
qualche anno prima aveva accompagnato Enrico Mattei nella direzione
dell’Eni. Verzotto non ha solo importanti contatti politici e
imprenditoriali. Nel settembre 1960 insieme al boss catanese Giuseppe
‘Pippo’ Calderone, detto Cannarozze d’argento per via di una
protesi metallica alla gola, è testimone di nozze del padrino
Giuseppe Di Cristina, capo dell’omonima famiglia di Riesi e figura
di spicco di Cosa nostra in Sicilia. Molti anni dopo, proprio in una
società regionale controllata da Verzotto, il boss Di Cristina viene
assunto come tesoriere.
La famiglia di Riesi
controlla anche la miniera Trabia Tallarita, a metà strada tra i
paesi di Riesi e Sommatino, nell’entroterra della Sicilia. In
contrasto con le leggi regionali e i regolamenti, usavano per il
trasporto degli operai camion malsicuri anziché gli autobus come da
legge prescritto. A Riesi tutti conoscevano la situazione, ma le
autorità competenti non intervennero. Le autorità erano loro, i Di
Cristina.
La carriera di Verzotto è
stroncata negli anni Settanta da un’inchiesta congiunta delle
procure di Milano e Palermo sui fondi neri che l’Ems aveva
dirottato sui conti svizzeri di Sindona. Viene spiccato un mandato di
cattura e per evitare l’arresto fugge latitante in Libano.
Dalla ricostruzione degli
inquirenti emerge che l’Ente minerario, il quale già disponeva di
una concessione di finanziamenti con il Banco di Sicilia, deposita
svariate somme in altri due istituti di credito: la Banca Unione di
Michele Sindona e la Banca Loria, successivamente confluita nella
Banca di Milano, di cui lo stesso Verzotto risultava consigliere
d’amministrazione. Nell’inchiesta si fa riferimento a una parte
di pagamenti d’interessi – tra il 5 e 6% – che venivano
contabilizzati nei bilanci dell’Ems, mentre la parte restante –
tra il 1,25 e il 2,5% – era versata direttamente in nero. Secondo
gli inquirenti, circa 120 milioni di lire vengono intascati da uomini
vicini a Verzotto, tramite assegni e contanti.
Il business delle
bonifiche
Il primo vero passo per
la bonifica di una miniera in Sicilia è stato fatto a Pasquasia,
quando la Regione ha incaricato la società Sviluppo Italia di
redigere un piano di messa in sicurezza del sito. Gli interventi
prevedevano la possibilità di realizzare una nuova discarica
all’interno del perimetro della miniera. Tuttavia, la presenza di 9
quintali di eternit e il fatto che tutti i capannoni fossero
realizzati in cemento-amianto, resero impossibile ogni attività.
Senza contare il fatto che mancavano i siti per accogliere un tale
quantitativo di rifiuto speciale. Il sito è stato inoltre oggetto di
ripetuti sabotaggi: l’ultimo è accaduto nel dicembre 2013, quando
ignoti provocarono la fuoriuscita di olio dielettrico. Nessuno sembrò
accorgersi di nulla, neanche il servizio di vigilanza che,
interpellato dal consegnatario dei siti minerari dismessi Pasquale
Larosa (attualmente sotto processo per omissioni di atti d’ufficio
e disastro ambientale), riferì di non aver notato alcuna anomalia
nell’area interessata.
Per la bonifica, il
ministero dell’Ambiente stanziò venti milioni di euro. Ad
aggiudicarsi l’appalto fu la 1 Emme soluzioni ambientali srl di
Bergamo. Ma l’azienda Consap di Milano decide di fare ricorso al
Tar, sostenendo che i suoi avversari bergamaschi «non avrebbero i
titoli» per aggiudicarsi la gara. Dopo alcuni mesi di dibattito, fu
il Tar del Lazio a confermare la decisione presa dal ministero e a
consentire l’inizio dei lavori. Quando tutto però sembrò
risolto, ad intervenire fu la Direzione distrettuale antimafia di
Caltanissetta, poiché notò anomalie nel lavoro della 1 Emme. Le
indagini portano all’arresto di cinque persone trovate con un
grosso quantitativo di rame e altri rifiuti ferrosi che secondo gli
inquirenti sono stati rubati nel sito minerario. In particolare, i
giudici dispongono dei campionamenti su cinque semirimorchi che
trasportavano 106 tonnellate di “cemento-amianto” prelevato nella
cava. I tecnici dell’Arpa e del Noe analizzano un pacco di onduline
per ogni semirimorchio, constatando che “la superficie delle lastre
non è stata preliminarmente trattata per rendere efficace il
riferimento incapsulante” e che “la vernice incapsulante,
necessaria al fine di evitare l’aero-dispersione delle fibre di
amianto, risulta non uniformemente distribuita” . In altre parole,
la bonifica realizzata sui pannelli d’amianto è stata parziale e
incompleta.
Ad avvalorare la tesi
degli inquirenti ci sono anche le intercettazioni ambientali. Nel
corso di un dialogo tra un dipendente e un tecnico della 1 Emme si fa
riferimento proprio al trattamento dei pannelli in amianto, che “per
risparmiare” viene fatto solo “su una parte” e non su tutta la
lastra.
Queste dichiarazioni
evidenziano, secondo i giudici, “l’esistenza di un più ampio
sistema di illegalità all’interno del sito con la consapevolezza e
l’iniziativa dei referenti della società appaltatrice”. Nel
corso delle operazioni viene sequestrata una somma di denaro trovata
all’interno di automezzi provenienti dal casertano, sul quale si
sarebbe dovuto trasportare il rame. Le ipotesi di reato su cui si
procede vanno dal traffico illecito di rifiuti tossico-nocivi
all’associazione per delinquere finalizzata alla frode in pubbliche
forniture e a vari reati contro la pubblica amministrazione e la fede
pubblica.
«Non c’è dubbio che
le miniere – spiega a Narcomafie il procuratore della Repubblica di
Caltanissetta Sergio Lari – in Sicilia come in altri luoghi, siano
oggetto di grande interesse. Il problema della messa in sicurezza
delle cave abbandonate e dell’eliminazione dei rifiuti tossici e
nocivi, soprattutto l’amianto, costituisce una grande attrazione
per le imprese che operano in questo settore». Camion pieni di
tonnellate di rame prelevate dalle miniere e trasportati da corrieri
in Campania. Un nuovo business tra mafia e camorra casertana.
Commissioni,
interrogazioni e atti parlamentari
La complessa vicenda
delle miniere siciliane è stata più volte portata all’attenzione
del governo nazionale, sollecitato da numerose interrogazioni
parlamentari. La prima in assoluto, come già detto, è stata quella
dell’ex deputato della Rete Giuseppe Scozzari, interessato alle
vicende societarie dell’Italkali, azienda a capitale privato e
detentrice per il 49% delle miniere dell’isola gestite insieme alla
Regione Sicilia per mezzo dell’Ente minerario siciliano. Diversi
anni più tardi, agli inizi degli anni 2000, il deputato palermitano
Vincenzo Fragalà, del gruppo Alleanza Nazionale, chiede al Governo
Berlusconi di far luce sulle motivazioni che hanno portato alla
chiusura di Pasquasia. Nel testo dell’interrogazione, l’avvocato
era convinto che il blocco produttivo fosse stato provocato da “un
condizionamento venuto da altri due protagonisti dell’oligopolio”,
all’epoca Canada e Germania. Al termine della carriera politica,
Fragalà torna a interessarsi delle vicende minerarie dell’isola
scrivendo – nel gennaio 2010 – una lettera ad Adolfo Urso (suo
compagno di partito e sottosegretario dello Sviluppo economico) per
invitarlo ad un incontro a Enna per discutere della possibile
riapertura di Pasquasia. Un mese dopo l’avvocato viene aggredito a
colpi di mazza uscendo dal suo studio legale vicino al palazzo di
giustizia di Palermo. Muore in ospedale dopo tre giorni di coma.
Malgrado le tante ipotesi fatte dagli inquirenti, le indagini non
hanno portato a identificare esecutori e mandanti.
Un contributo alla verità
sulle miniere siciliane è arrivato con la realizzazione della video
inchiesta Miniere di Stato, trasmessa su RaiNews e finalista del
premio ‘Roberto Morrione’, che traccia un possibile quadro sullo
smaltimento di rifiuti all’interno delle miniere.
I documenti trovati nella
villetta dei misteri a Serradifalco sembrano avvalorare quest’ultima
tesi, e per questo motivo il deputato Erasmo Palazzotto di Sinistra
ecologia e libertà, interroga i ministeri dell’Ambiente e
dell’Interno affinché facciano luce sulla vicenda, chiedendo
inoltre di spiegare i tempi relativi alle bonifiche.
«Nell’interrogazione, che non ha ancora ricevuto risposta –
aggiunge lo stesso Palazzotto successivamente – appare logico
ipotizzare che l’area mineraria dismessa tra le provincie di Enna e
Caltanissetta, a causa della totale mancanza di vigilanza, possa
essere identificata come l’area finale dello stoccaggio illegale
dei rifiuti speciali. Anche per via di una forte presenza mafiosa nel
territorio».
I componenti del
Movimento 5 Stelle dell’Assemblea regionale siciliana hanno chiesto
e ottenuto l’istituzione di una sottocommissione di studio sui siti
minerari siciliani legata alla terza commissione (quella alle
Attività produttive). «Siamo in una fase di studio – spiega
Giancarlo Cancelleri, capogruppo M5S all’Ars – inizialmente
procederemo con la mappatura dei siti, poi incroceremo i dati con le
informazioni relative agli studi sanitari dei luoghi, per capire se
c’è una correlazione tra l’inquinamento del territorio e le
malattie, soprattutto oncologiche. Infine, abbiamo intenzione di
proporre un piano di bonifica che possa portare successivamente alla
riapertura dei siti e usufruire delle miniere come luoghi turistici»
Dalla rivista
“Narcomafie” - Luglio 2015
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