Giuseppina Ciuffreda,
Bianca Maria Frabotta, Liliana Boccarossa, Paola Redaelli... un
femminismo che cercava di aggredire una storia ad alta densità di
senso — il comunismo, nientemeno — e un nocciolo durissimo e
fragile, un partito che alla fine non ne volle sapere e peraltro durò
poco. Dopo di che anche noi ci siamo disperse. Nonostante i successi:
abbiamo contaminato partiti e sindacati, scuole e quartieri e uffici
e fabbriche, «a macchia d'olio». Femministe e cocciutamente
comuniste, non si sa bene come, tuttavia.
Ci siamo disperse
nonostante il giornale. Disperse nei pensieri, nelle strade che
abbiamo affannosamente cercato per essere fedeli a noi stesse,
ciascuna a suo modo. Non che siano mancati anche veri e propri
tradimenti. Non che fuori di lì uomini e donne tutte ci abbiano
accolto a braccia aperte.
L'ultima volta che ho
incontrato Giuseppina è stato nel corridoio del reparto ospedaliero
nel quale ci curavamo tutte e due. Un abbraccio, un rapido scambio di
solidarietà per l'ennesima trincea che ci toccava di frequentare,
una sorta di assalto al nostro corpo femminile. E un sorriso tra noi,
vere signore a modo nostro dal tempo degli zoccoli e delle lunghe
gonne a fiori e delle case ospitali. Come vorrei fischiettare per
Giuseppina il canto del merlo indiano che mi svegliava, a casa sua,
in via Labicana, quando «scendevo» a Roma per il comitato centrale
e per sopportarlo avevo un gran bisogno di amicizia e delle sue
sgridate, perché davvero ci pativo troppo. Perché ognuna di noi
collocava in un luogo diverso della vita la speranza o la pena per il
rifiuto maschile, o il sottrarsi, o l'ostilità aperta, la guerra
alle nostre invenzioni politiche. Pene d'amore comunque.
La strada di una
rimeditazione sociale e politica alla luce del femminismo me l'ha
aperta lei, insieme alla forza di parlare una lingua ibrida, una
lingua contaminata ma anche luminosa. Ricordo l'agitazione per il suo
intervento al Congresso di scioglimento del Manifesto, all'Eur. C'era
qualcosa di solenne nelle sue parole, e di molto forte. Spiegava, tra
l'altro, il piccolo gruppo di autocoscienza e le sue potenzialità
rivoluzionarie, il suo carattere egualitario e di democrazia diretta.
E collocava la necessità di un rapporto donne-classe operaia come
possibile «ricomposizione del proletariato». Così bello
quell'intervento che alla fine avevamo tutte le lacrime agli occhi:
non eravamo abituate a tanti applausi.
E così mi resta un
interrogativo, aperto, spalancato: che cosa, davvero, ci ha disperso?
Una sconfitta? Quale specifica sconfitta, nostra o almeno in parte o
prevalentemente altrui? Oppure (o anche) certe dosi di dolore che
nella vita si rovesciano in particolare sulle donne? Che cosa?
Giuseppina non c'è più.
Io non voglio che sia dimenticata o trascurata. Ha dato molto, ha
faticato molto, ha saputo lottare, reagire, sorridere con gli occhi
luminosi a tante tra noi. Altre e altri sanno delinearne la figura
meglio di me. Ma sfido la sua ironia — così romana — per
sollevare, ora e ancora, questioni che l'hanno riguardata. Come se
fosse qui. Questioni che mi legheranno a lei per sempre, con un tipo
di affetto che forse ancora non ha trovato le parole giuste per
dirsi.
“il manifesto”, 9
luglio 2015
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