1.7.15

La poesia di Anna Cascella Luciani (Roberto Galaverni)

Ora che Anna Cascella Luciani ha raccolto la sua intera opera in versi nel volume Tutte le poesie 1973-2009 (Gaffi, pp. 768, € 25,00), è possibile valutare appieno la fecondità della vena poetica di questa scrittrice sempre reattiva, appassionata e intimamente necessaria. Nella sua introduzione Massimo Onofri ha individuato con molta precisione alcuni attributi fondamentali della sua poesia, a partire dalla specifica «costellazione» di riferimento che le appartiene: Penna, Saba, Bertolucci, Caproni, i classici latini, Catullo e Orazio, anzitutto, ma poi anche Giudici e Fortini, tanto più attivi e visibili nelle ultime raccolte, quando il rapporto con la vita s’inasprisce e il discorso poetico si fa via via più amaro e grave, più strappato. Ma è vero che se esiste un elemento costante, direi quasi una base sonora della Cascella Luciani, questo andrà trovato comunque nella disposizione al canto e nella costante freschezza dell`intonazione, o se si preferisce della voce. «A sorreggere questi versi sono sempre, e innanzi tutto, convinzioni esclusivamente musicali, forti solo del loro ritmo. Se la vita si vanifica nel niente dei suoi tesori, sarà comunque l`evidenza della musica a replicarne la verità», ha scritto bene Onofri.
Parecchi tratti tra espressivi e tematici o, in senso lato, di rappresentazione, sono in vario modo connessi con un simile talento vocale e melodico: il verso prevalentemente breve, la tendenza epigrammatica e il piacere della rima (una rima dettata non dalla metrica ma dalla risoluzione concettuale), la preferenza per la canzonetta (Canzonette è anche il titolo di una sezione del libro), il lessico semplice, basico, che fornisce come i mattoni dati una volta per sempre di questi versi. E se proprio da Penna, capostipite inarrivabile, è derivato tutto un modo di scrivere poesia, allora alcune caratteristiche di un tale assetto poetico potrebbero anche riconoscersi comuni con una certa area di poesia romana su cui la critica è tornata più volte negli ultimi anni (anche se un tale legame non andrà tenuto fisso più di tanto): un rapporto assoluto con la realtà, la precedenza, tra cameretta e apertura atmosferica, della dimensione privata rispetto alla Storia, la centralità della parola vita (piuttosto che esistenza).
Nel componimento che apre i semplici (1989), che vale anche come un`indicazione di poetica e perfino, se vogliamo, come la ricerca di un certo tipo di lettore, la Cascella Luciani scrive: «se è vero che io - / come tu dici - muto / l’orrore in splendore / e l’angoscia / in idillio, ebbene io / non ti assomiglio».
Se si aggiunge che il testo subito successivo è un breve esercizio concettuale su amore e morte («amore e morte si guardano / a distanza»), si può vedere subito come la sua poesia si possa leggere, e non dietro ma proprio dentro agli accordi del ritmo e alle figure della scrittura, come una vera e propria guerra per la difesa di una propria essenziale integrità, di una dovuta misura umana, si può dire, e cioè di tutto quello che per questa poetessa si associa all’idea della vita, o meglio all'idea di quello che la vita si sente che dovrebbe essere. E per la Cascella Luciani è presto detto, anche se si tratta di qualcosa d'irrinunciabile e, proprio per questo, da dire e ridire continuamente: amore, gioia, libertà, felicità. In ogni parte del suo canzoniere si trova il senso di una promessa mancata: «mai avrebbe detto / la figlia che il petto / di ognuna ha / una storia nel tempo / che cambia il corpo-fanciulla». Si tratti dell'abbandono alla malinconia amorosa, come la chiamava Saba, o viceversa della partecipazione all’estasi del presente (l’amore-passione, ma anche l’improvviso avvertimento della pienezza auratica delle cose: l’azzurro del cielo, gli uccelli, il gatto, il suo «concluso orto», le piante, i fiori); si tratti invece delle memorie dell'infanzia e del retaggio familiare abruzzese (Pescara, l’Adriatico, intessuti in modo sempre più continuo e organico), questa poesia coincide appieno con quella che sì può definire come la sua situazione prima e ultima: il sentimento per la perdita della bellezza e della gentilezza del mondo, della sua grazia.

In questa oscillazione continua di aspirazioni e di smentite, di promesse e di adempimenti mancati, quello che più stupisce - lo dirò con un gioco di parole - è come la poetessa non smetta di stupirsi. Credo che proprio questo abbia a che vedere con la freschezza della voce di cui dicevo all’inizio. Pur con tutta la sua ironia, con la sua saggezza di vita, con la progressione spesso amara nella conoscenza di sé e delle cose, la Cascella Luciani non ha mai fatto proprio il disincanto per il disincantamento del mondo. Ogni nuovo accadimento, ogni nuovo incontro o nuova constatazione, rappresentano una scoperta anch'essa nuova, che però è sempre la stessa. La sua poesia, anzi il suo gesto poetico possiede in questo qualcosa di estremamente vitale che viene prima dell’ideologia, prima della concettualizzazione, prima anche, se possibile, della letteratura. La Cascella Luciani corre al verso come se ogni volta non poetesse farne a meno. Ne ha bisogno per comprendere, per superare, prima di tutto per difendere, sapendo comunque bene che nessuna poesia può davvero sostituire e compensare quanto della vita è stato tolto. Così le basta dislocare anche solo di un poco il proprio angolo d’osservazione, per trovare quel punto esatto di giuntura tra il fiato caldo della dimensione immediata e l‘intelligenza, tra l’incantamento musicale e la definizione precisa del concetto, in cui credo si trovino i suoi risultati migliori (il suo fiore prediletto è non a caso la rosa, a cui sono dedicate varie poesie; e la rosa, com'è noto, è per eccellenza il fiore in cui si uniscono naturalezza e artificio, natura e letteratura, il profumo e la massima convenzionalità): «Misurando il piccolo e il grande e / la distanza tra le due misure, veniva / fuori la forma di una nenia. // La sussurrava il bambino a mezza bocca / segnando il tempo, a chi tocca tocca».

"alias il manifesto", 26 novembre 2011

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