Ora che Anna Cascella
Luciani ha raccolto la sua intera opera in versi nel volume Tutte
le poesie 1973-2009 (Gaffi, pp. 768, € 25,00), è possibile
valutare appieno la fecondità della vena poetica di questa
scrittrice sempre reattiva, appassionata e intimamente necessaria.
Nella sua introduzione Massimo Onofri ha individuato con molta
precisione alcuni attributi fondamentali della sua poesia, a partire
dalla specifica «costellazione» di riferimento che le appartiene:
Penna, Saba, Bertolucci, Caproni, i classici latini, Catullo e
Orazio, anzitutto, ma poi anche Giudici e Fortini, tanto più attivi
e visibili nelle ultime raccolte, quando il rapporto con la vita
s’inasprisce e il discorso poetico si fa via via più amaro e
grave, più strappato. Ma è vero che se esiste un elemento costante,
direi quasi una base sonora della Cascella Luciani, questo andrà
trovato comunque nella disposizione al canto e nella costante
freschezza dell`intonazione, o se si preferisce della voce. «A
sorreggere questi versi sono sempre, e innanzi tutto, convinzioni
esclusivamente musicali, forti solo del loro ritmo. Se la vita si
vanifica nel niente dei suoi tesori, sarà comunque l`evidenza della
musica a replicarne la verità», ha scritto bene Onofri.
Parecchi tratti tra
espressivi e tematici o, in senso lato, di rappresentazione, sono in
vario modo connessi con un simile talento vocale e melodico: il verso
prevalentemente breve, la tendenza epigrammatica e il piacere della
rima (una rima dettata non dalla metrica ma dalla risoluzione
concettuale), la preferenza per la canzonetta (Canzonette è anche il
titolo di una sezione del libro), il lessico semplice, basico, che
fornisce come i mattoni dati una volta per sempre di questi versi. E
se proprio da Penna, capostipite inarrivabile, è derivato tutto un
modo di scrivere poesia, allora alcune caratteristiche di un tale
assetto poetico potrebbero anche riconoscersi comuni con una certa
area di poesia romana su cui la critica è tornata più volte negli
ultimi anni (anche se un tale legame non andrà tenuto fisso più di
tanto): un rapporto assoluto con la realtà, la precedenza, tra
cameretta e apertura atmosferica, della dimensione privata rispetto
alla Storia, la centralità della parola vita (piuttosto che
esistenza).
Nel componimento che apre
i semplici (1989), che vale anche come un`indicazione di
poetica e perfino, se vogliamo, come la ricerca di un certo tipo di
lettore, la Cascella Luciani scrive: «se è vero che io - / come tu
dici - muto / l’orrore in splendore / e l’angoscia / in idillio,
ebbene io / non ti assomiglio».
Se si aggiunge che il
testo subito successivo è un breve esercizio concettuale su amore e
morte («amore e morte si guardano / a distanza»), si può vedere
subito come la sua poesia si possa leggere, e non dietro ma proprio
dentro agli accordi del ritmo e alle figure della scrittura, come una
vera e propria guerra per la difesa di una propria essenziale
integrità, di una dovuta misura umana, si può dire, e cioè di
tutto quello che per questa poetessa si associa all’idea della
vita, o meglio all'idea di quello che la vita si sente che dovrebbe
essere. E per la Cascella Luciani è presto detto, anche se si tratta
di qualcosa d'irrinunciabile e, proprio per questo, da dire e ridire
continuamente: amore, gioia, libertà, felicità. In ogni parte del
suo canzoniere si trova il senso di una promessa mancata: «mai
avrebbe detto / la figlia che il petto / di ognuna ha / una storia
nel tempo / che cambia il corpo-fanciulla». Si tratti dell'abbandono
alla malinconia amorosa, come la chiamava Saba, o viceversa della
partecipazione all’estasi del presente (l’amore-passione, ma
anche l’improvviso avvertimento della pienezza auratica delle cose:
l’azzurro del cielo, gli uccelli, il gatto, il suo «concluso
orto», le piante, i fiori); si tratti invece delle memorie
dell'infanzia e del retaggio familiare abruzzese (Pescara,
l’Adriatico, intessuti in modo sempre più continuo e organico),
questa poesia coincide appieno con quella che sì può definire come
la sua situazione prima e ultima: il sentimento per la perdita della
bellezza e della gentilezza del mondo, della sua grazia.
In questa oscillazione
continua di aspirazioni e di smentite, di promesse e di adempimenti
mancati, quello che più stupisce - lo dirò con un gioco di parole -
è come la poetessa non smetta di stupirsi. Credo che proprio questo
abbia a che vedere con la freschezza della voce di cui dicevo
all’inizio. Pur con tutta la sua ironia, con la sua saggezza di
vita, con la progressione spesso amara nella conoscenza di sé e
delle cose, la Cascella Luciani non ha mai fatto proprio il
disincanto per il disincantamento del mondo. Ogni nuovo accadimento,
ogni nuovo incontro o nuova constatazione, rappresentano una scoperta
anch'essa nuova, che però è sempre la stessa. La sua poesia, anzi
il suo gesto poetico possiede in questo qualcosa di estremamente
vitale che viene prima dell’ideologia, prima della
concettualizzazione, prima anche, se possibile, della letteratura. La
Cascella Luciani corre al verso come se ogni volta non poetesse farne
a meno. Ne ha bisogno per comprendere, per superare, prima di tutto
per difendere, sapendo comunque bene che nessuna poesia può davvero
sostituire e compensare quanto della vita è stato tolto. Così le
basta dislocare anche solo di un poco il proprio angolo
d’osservazione, per trovare quel punto esatto di giuntura tra il
fiato caldo della dimensione immediata e l‘intelligenza, tra
l’incantamento musicale e la definizione precisa del concetto, in
cui credo si trovino i suoi risultati migliori (il suo fiore
prediletto è non a caso la rosa, a cui sono dedicate varie poesie; e
la rosa, com'è noto, è per eccellenza il fiore in cui si uniscono
naturalezza e artificio, natura e letteratura, il profumo e la
massima convenzionalità): «Misurando il piccolo e il grande e / la
distanza tra le due misure, veniva / fuori la forma di una nenia. //
La sussurrava il bambino a mezza bocca / segnando il tempo, a chi
tocca tocca».
"alias il manifesto", 26 novembre 2011
Nessun commento:
Posta un commento