Questo
articolato testo di Giovanna Lo Presti sulla condizione della scuola
italiana è stato pubblicato sul “Ponte”, la rivista fondata da
Piero Calamandrei, nel numero di luglio 2015 . Vi si utilizzano
strumenti originali, in particolare Adorno e (non citate, ma
puntualmente riprese) le ricerche ProForma degli anni 90 sulla
psicopatologia degli insegnanti (vedi
http://salvatoreloleggio.blogspot.it/2014/09/follia-docente-uno-studio-sulla.html
).
Spero
che le proposte di Lo Presti siano dibattute all'interno di un
movimento di insegnanti che non si è arreso dopo l'approvazione
della cosiddetta riforma Renzi-Giannini, ma che per trovare nuove
forme di resistenza e possibilmente di vittoria, ha bisogno di
analisi che vadano a fondo e proposte che volino alto. (S.L.L.)
Una società, come
quella basata sul profitto sfrenato,
che non fa onore ai
propri insegnanti, è difettosa
(George Steiner).
Dopo Berlinguer, Moratti
e Gelmini adesso anche Renzi vuole lasciare il suo segno sulla scuola
italiana: la quarta “riforma” della scuola italiana nel breve
volgere di tre lustri sta per approdare in Senato. Noi speriamo che
quel tratto di mare che la “riforma” deve ancora percorrere sia
molto, molto agitato – tanto da impedire all’ingegnosa navicella
renziana di raggiungere il porto. Speriamo, insomma, in un bel
metaforico naufragio; e speriamo che quello della “buona scuola”
sia il primo, importante insuccesso di Matteo il Giovane, perché
questo paese non ha bisogno di un primo ministro che auspichi il
Partito Unico, il Sindacato Unico e la «Buona Scuola». A differenza
del Partito e del Sindacato, la Scuola della Repubblica dovrebbe
davvero essere unica – invece ha un suo “doppio” nella scuola
privata, che lo Stato vorrebbe far crescere a detrimento della
propria scuola. Tant’è che anche quest’anno il “doppio” è
già stato rimpinguato con un bel po’ di soldi: più di 470 milioni
di euro.
Tale è il protagonismo
di Matteo il Giovane da averlo spinto a eclissare la già scialba
figura del ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini, sinora
distintasi per l’aria sprezzante e per una singolare (almeno per
una glottologa) povertà linguistica: non ha trovato di meglio, per
un gruppo di insegnanti che la stavano contestando, che definirli
«squadristi».
Più di una affinità con
il ventennio fascista, ahimé, la si può rintracciare invece proprio
nella «buona scuola»: il rafforzamento del potere dei presidi che,
nella riforma gentiliana era funzionale e organica a una visione
della scuola e della società, nel documento renziano entra in
conflitto con una melassa falsa e bugiarda che dovrebbe costituire la
«finalità» della «buona scuola», «una scuola aperta, quale
laboratorio permanente di ricerca, sperimentazione e innovazione
didattica, di partecipazione e di educazione alla cittadinanza
attiva, di garantire il diritto allo studio e pari opportunità di
successo formativo per gli studenti e l’educazione permanente per
tutti i i cittadini». Parole vuote, come sono vuote le parole sulla
presunta autonomia scolastica, che dovrebbe comportare «la
programmazione plurisettimanale e flessibile dell’orario
complessivo del curricolo e di quello destinato alle singole
discipline, anche mediante l’articolazione del gruppo della classe;
il potenziamento del tempo scolastico anche oltre i modelli e i
quadri orari, nei limiti della dotazione organica dell’autonomia
[…] tenuto conto delle scelte degli studenti e delle famiglie; la
programmazione plurisettimanale e flessibile dell’orario
complessivo del curricolo e di quello destinato alle singole
discipline, anche mediante l’articolazione del gruppo della
classe», – insomma, una sorta di scuola on demand, a patto
che tutto stia «nei limiti delle risorse strumentali e finanziarie
disponibili». Una vera sciocchezza. Difatti, non c’è riforma
della scuola possibile senza un netto e reale aumento della spesa per
l’Istruzione: e l’Italia è all’ultimo posto tra i paesi Ocse
per spesa per l’istruzione rispetto al Pil (Dato
messo in rilievo dall’«Annuario statistico» pubblicato dall’Istat
a fine 2014. La spesa pubblica per la scuola in Italia ammonta al
4,6% del Prodotto interno lordo: la Danimarca, che guida la
classifica, spende oltre tre punti percentuali in più per
l’istruzione rispetto al nostro paese).
Sappiamo inoltre che, tra
le caratteristiche della scuola italiana, c’è quella di avere la
classe docente più vecchia d’Europa. Il dato vale sia per il
personale assunto a tempo indeterminato sia per il personale
precario; l’ultimo forum sui lavoratori della Pubblica
Amministrazione, tenutosi nel 2014, ha messo in luce come, nel
complesso, l’età media dei docenti sia di 51 anni. Due insegnanti
italiani su tre sono ultracinquantenni, l’11,3% ha più di 61 anni
e appena lo 0,2% ha meno di 30 anni. Nei paesi Ocse, invece, in media
i docenti giovani under 30 sono il 10%. Già prima della “riforma”
Fornero la situazione non era tranquillizzante: un’indagine della
Fondazione Agnelli, presentata nel febbraio del 2009, rilevava un’età
media dei docenti superiore ai cinquant’anni (47 anni nella scuola
primaria, 51 anni nella scuola secondaria inferiore, 53 anni nella
secondaria superiore). Gli insegnanti con più di 50 anni
risultavano, già nel 2008, essere più del 55% del totale. La
differenza, rispetto al 2011 (che partorisce a fine anno la “riforma”
Fornero) è che, in quel momento, la vita lavorativa di un
cinquantenne non andava oltre il decennio. Adesso, a cinquant’anni
ci si deve attendere di lavorare ancora per diciassette o diciotto
anni.
Un altro dato: il
concorso Profumo del 2012 ha visto la partecipazione di 321.210
candidati alla prova pre-selettiva, per 11.542 cattedre a bando. Fra
i partecipanti le donne erano 258.476, gli uomini 62.734. Età media
vicina ai quarant’anni, fatto inquietante, se vivessimo in un paese
normale e normalmente governato. Avere la conferma che esiste in
Italia una sacca di disoccupazione intellettuale equivalente agli
abitanti di una città come Bari dovrebbe destare un allarme sociale.
Così come è un allarme sociale quello di una classe docente
abnormemente vecchia. Che nessuno si chieda quali siano le
conseguenze per i docenti “anziani”, precari o stabili, e per gli
studenti, è segno della colpevole incuria con cui la nostra classe
dirigente pratica il proprio lavoro.
Troppe scuole italiane si
sono trasformate in luogo di conclamato malessere; ce lo raccontano,
con tono scandalistico, frequenti fatti di cronaca. In questa sede
vorremmo andar oltre la notizia “gridata”, lasciare sullo sfondo
(senza dimenticarlo) il disegno di legge ironicamente denominato «La
buona scuola» e cercar di capire perché a scuola, troppo spesso, si
viva male.
Aggiungiamo soltanto che
nel ddl «La buona scuola» nessuno dei punti che segue è affrontato
in modo credibile: è evidente invece l’intenzione di limitare la
libertà di insegnamento dando maggiori poteri ai dirigenti
scolastici e, parallelamente, decontrattualizzando il rapporto di
lavoro. Appena approvato il ddl, per esempio, qualsiasi parte del
Ccnl in vigore (scaduto da sei anni) in contrasto con il ddl perderà
di efficacia. Si immagina senza fatica dove si andrà a parare:
abbiamo già capito che, rispetto al lavoro dipendente, lo slogan
preferito di chi ci comanda è «più orario e meno salario». Dopo
l’approvazione del ddl sarà abbastanza semplice applicarlo al
milione di lavoratori della scuola.
Parlare dello stato della
scuola in Italia richiederebbe senz’altro un’analisi molto
articolata; qui ci limiteremo a mettere a punto alcune tesi per il
benessere di studenti e insegnanti, tenendo sempre presente il
problema da cui partiamo – e cioè il fatto che, nell’ultimo
ventennio, i problemi reali della scuola di massa sono stati
sottovalutati e che, parallelamente, la figura dell’insegnante ha
subito una perdita di status drammatica. A chi, come Matteo il
Giovane, è convinto che i lavoratori della scuola difendano delle
«rendite di posizione» (Come
recentemente ha affermato Matteo Renzi all’incontro genovese della
«Repubblica delle Idee», 6 giugno 2015) e pensino quindi che
«la scuola sia intoccabile» siamo tentati di rispondere in un solo
modo: venite a verificare personalmente quale rendita di posizione
sia insegnare nelle nostre scuole.
Le tesi
1) L’istruzione è
la via principale per raggiungere la meta fissata dall’articolo 3
della Costituzione italiana: «rimuovere gli ostacoli di ordine
economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e
l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della
persona umana». Lo Stato si impegna a rimuovere tali ostacoli –
ergo lo Stato dovrebbe fare delle proprie scuole un luogo in cui si
sta bene e si impara bene, qualunque sia la famiglia di provenienza
dello studente.
Guardiamole, invece, le
nostre scuole: luoghi fatiscenti, non abbastanza puliti, non
decorosi, carenti delle attrezzature fondamentali per la didattica.
Mentre scrivo ho dinanzi agli occhi la biblioteca della scuola in cui
lavoro: una specie di magazzino, zeppo di mobili di recupero. Negli
scaffali, il segno di un passato migliore, di tempi in cui i libri si
potevano ancora acquistare; brutte luci al neon, che illuminano
squallidi tavoli. Un unico computer del quale, personalmente, non ho
ancora capito la funzione, visto che non lo si può usare.
Guardiamole, le nostre aule: pareti scrostate, lavagne antiquate,
arredi acquistati secondo il criterio dell’economia. Cosa
comunicano ai bambini, ai ragazzi questi ambienti, se non il fatto
che sono ospitati in un luogo che non vale la pena di rispettare?
Quindi, in primo luogo, le scuole devono essere luoghi dignitosi –
e non a parole, e non seguendo la logica sbruffona dell’attuale
primo ministro, secondo il quale per le scuole «belle e sicure»
erano a disposizione tre miliardi di euro già lo scorso anno.
Peccato che non si sappia che fine abbiano fatto.
Inoltre, così come deve
essere dignitoso l’ambiente scolastico, allo stesso modo deve
essere dignitosa la figura dell’insegnante (e anche, va da sé,
quella degli altri lavoratori della scuola). Ma se lo stesso ministro
dell’Istruzione Giannini (mi riferisco a un episodio recente, che
sarà ancora nella memoria di molti) in una trasmissione televisiva
tratta gli insegnanti con protervia e supponenza, come si può
pensare che l’opinione pubblica guardi agli insegnanti con
simpatia? Quella dell’insegnante è peraltro una professione su cui
tutti, a torto o a ragione, hanno qualcosa da dire. Nessuno si
sognerebbe di dar consigli a un professionista nel suo ambito di
competenza, mentre tutti sanno cosa c’è che non va negli
insegnanti e nella scuola. Un’analisi acuta del discredito sociale
che grava sull’insegnante l’ha compiuta Adorno, in un suo saggio
ormai lontano nel tempo, ma che voglio ricordare sia perché non è
molto conosciuto sia perché ciò di cui il filosofo parla è materia
del tutto attuale. Dunque, Adorno sostiene che sull’insegnante
grava una sorta di tabù, in senso freudiano: “Tabù è un vocabolo
polinesiano che ci è difficile tradurre perché non possediamo più
il concetto che corrisponde a tale vocabolo. Il concetto era ancora
familiare agli antichi romani: il termine latino sacer è l’esatto
equivalente del tabù dei polinesiani […]. Per noi il significato
di tabù si sviluppa in due direzioni opposte e divergenti. Da un
lato vuol dire santo, consacrato. Dall’altro lato: perturbante,
pericoloso, proibito, impuro” (Th.
W. Adorno, Tabù sulla professione dell’insegnante in Parole
chiave, Milano, SugarCo Edizioni,1974, pp. 95-117).
Tabù sta insomma a
indicare un’ambivalenza emotiva, un sentimento insieme di
attrazione e repulsione, di divieto e di volontà di infrazione.
Anche quando i motivi remoti che hanno generato un tabù non sono che
pallidissime tracce, i residui di tali motivi restano operanti nella
mentalità collettiva, dando origine a un tabù sociale. Nel suo
saggio Adorno mette a fuoco una serie di elementi che giustificano
l’atteggiamento di ambiguità che il corpo sociale ha nei confronti
dell’insegnante, la cui figura, per quanto necessaria, è colpita
da un discredito che, a quanto pare, è tanto forte oggi quanto nella
Germania degli anni sessanta. Tale discredito è da Adorno spiegato
con una pluralità di argomenti, primo fra tutti il fatto che
l’insegnante sia l’evoluzione di una figura sostanzialmente
servile, quella del precettore. Nello stesso tempo, fra le
professioni intellettuali quella dell’insegnante si caratterizza
per il fatto di non essere una libera professione: il rapporto di
tipo impiegatizio che l’insegnante mantiene con il suo datore di
lavoro toglie qualsiasi aura di “audacia” alla professione
dell’insegnante, che è ridotto a essere qualcuno che preferisce
non rischiare, qualcuno che si tiene fuori dall’agone, che si
sottrae, imboscandosi, alla competizione. E ancora, come spiegare la
mancanza di prestigio dell’insegnante a confronto dell’indubbio
prestigio del docente universitario? Lasciando da parte la netta
differenza di retribuzione (in una società mercantile chi guadagna
poco inevitabilmente vale poco) resta ciò che ci porta al cuore del
problema. Mentre l’insegnante deve necessariamente affrontare
l’aspetto disciplinare, questo non è richiesto al docente
universitario. I suoi studenti frequentano liberamente, sono soggetti
autonomi che non devono essere più educati ma soltanto introdotti al
sapere, guidati verso la conoscenza. All’insegnante è invece
demandato il compito dell’educazione. Per capire quanto un lavoro
così prezioso e importante sia potuto cadere così in basso
nell’apprezzamento collettivo non basta certo dire che ciò succede
perché gli insegnanti non sanno fare il loro lavoro. Bisogna
piuttosto riflettere su qual sia il lavoro che si pretende da loro. È
in questo stesso lavoro che, secondo Adorno, si annidano tutti gli
elementi che portano alla formazione del tabù della professione
dell’insegnante. La società, afferma Adorno, è «ora come sempre,
fondata in sostanza sulla violenza fisica». Attualmente, però, non
è certo con la violenza fisica che la società vuole imporre i suoi
ordinamenti, pur essendo indubbio che una qualche forma di violenza
indiretta vada esercitata.
La delega a esercitare
una potenziale violenza, base dell’educazione conforme alle
richieste sociali, viene affidata all’insegnante. Questa violenza
fisica viene delegata dalla società, e nel contempo rinnegata al
livello in cui si collocano gli individui a essa delegati. Coloro che
la praticano costituiscono dei capri espiatori per coloro che
prescrivono questa stessa violenza. Il fatto che
l’insegnante-bastonatore sia un lontano ricordo, che la violenza
fisica non venga ormai esercitata se non in qualche prestigioso
college britannico (ammesso che sia vero) non nega che il ricordo
dell’insegnante che punisce sia sedimentato nella memoria
collettiva e lavori inconsciamente nella formazione del tabù. Non
solo, quindi, l’insegnante esercita una forma di violenza, ma la
esercita anche slealmente, su soggetti non autonomi e in stato di
minorità fisica e intellettuale. E ancora, la smania della pedagogia
che vuole adeguare il materiale da insegnare alla misura dei soggetti
che lo debbono assimilare, provoca quella che Adorno definisce una
falsità immanente, parte essenziale della scorrettezza ontologica
dell’insegnante, che sa già tutto prima e meglio del suo allievo.
Dal saggio di Adorno è da accogliere un’altra riflessione: quella
che sottolinea insieme l’infantilismo dell’insegnante e la
chiusura della scuola, definita come un mondo a parte con proprie
regole.
Mi è capitato spesso di
constatare quanto gli insegnanti tendano a riprodurre il rapporto
docente-discente nel momento in cui devono confrontarsi con il loro
diretto superiore. Quella stessa subordinazione che gli allievi
dovrebbero avere nei confronti del loro insegnante, il timore di
essere ripresi, una reale mancanza di autonomia, il supino adeguarsi
a ciò che il preside-dirigente richiede, fanno parte del
comportamento di molti insegnanti nel loro luogo di lavoro.
Abituati ad avere come
interlocutori per gran parte della loro attività soggetti in stato
di minorità (per età e per grado di conoscenza) è come se gli
stessi insegnanti non fossero mai usciti dalle mura scolastiche e non
conoscessero altro rapporto se non quello tra chi impara (e subisce)
e chi insegna (e dà ordini). L’assenza di un rapporto di lavoro
adulto, in cui si contrappongono soggetti che esercitano funzioni
diverse ma a partire dallo stesso grado di autonomia intellettuale, è
dimostrabile con lo stato delle nostre scuole, che non sarebbero
certo così se un maggior numero di insegnanti pretendesse di
esercitare capacità critica rispetto al proprio lavoro.
Abituati a vivere con
minori, molti insegnanti non si emancipano mai realmente e questo
contribuisce non poco al conformismo che dilaga nelle nostre aule.
C’è qualcosa di squilibrato nel fatto stesso che una persona
adulta svolga gran parte della sua attività lavorativa con bambini o
con adolescenti. Le occasioni formali in cui gli adulti-docenti
possono parlare tra di loro non riequilibrano nulla – è il
discorso logoro e vuoto dei collegi docenti e dei consigli di classe,
ben lontani dal favorire un qualche scambio intellettuale e invece
sedi privilegiate dell’anima burocratica della scuola. Chiusi nelle
loro aule, a confronto con la classe, gli insegnanti vivono in una
dimensione che ha regole proprie, avulso dal mondo reale.
Si incrociano, nella
riflessione di Adorno, sia le motivazioni sociali che gettano
discredito sulla professione dell’insegnante sia motivazioni più
radicali, che hanno a che fare con quello che Freud avrebbe definito
il disagio della civiltà. L’uscita dallo stato di natura
attraverso l’educazione è evidentemente percepita dalla
collettività come una violenza, per quanto necessaria e simbolica.
L’insegnante è la figura adulta che deve rendere conformi i
giovani individui alle richieste sociali – quanto l’universo
scolastico abbia a che fare con una dimensione di controllo totale è
oggi, nel momento in cui il problema disciplinare è diventato
un’emergenza, drammaticamente chiaro.
Il crimine di cui
l’insegnante si è macchiato coincide con il suo lavoro e credo che
non si possa spiegare la mistica dell’insegnamento, la
superfetazione retorica che vorrebbe fare del lavoro dell’insegnante
una “missione” se non con un elementare processo di denegazione.
Ciò che davvero si pensa di tale lavoro è che è un lavoro sporco,
il più sporco di tutti i lavori “missionari”. In fondo il medico
si batte contro la morte e la malattia e il religioso cura le anime,
mentre l’educatore sottrae innocenti creature allo stato di natura
e le immette nel corso forzoso della civiltà.
Crollati i baluardi
dell’educazione tradizionale, in cui valeva il principio di
anteriorità, che garantiva immediatamente l’autorità dei singoli
adulti, siamo approdati nel deserto dell’educazione in cui, delle
costruzioni precedenti, rimangono soltanto macerie scomposte. Sono
quelle stesse macerie, ridotte a spazzatura, senza la dignità delle
rovine, che contribuiscono a formare, oggi, il tabù che grava sulla
professione dell’insegnante. Per l’opinione pubblica egli è un
servo, un bastonatore, anche se in realtà non lo è più da tempo; e
resta per molti uno sleale aguzzino, un individuo fuori dal mondo e
fuori dal mercato. Sino a quando non si cercherà di ridare dignità
sociale all’insegnante – e sino a quando gli insegnanti stessi
non la pretenderanno – a scuola non si potrà star bene.
2) L’aspetto
centrale della scuola consiste nella relazione tra chi insegna e chi
impara: la qualità di tale relazione determina la natura della
scuola.
Si tratta di una
relazione complessa e che contiene in sé potenziali contraddizioni e
che dunque andrebbe sorretta da un’organizzazione del lavoro che
non facesse ricadere sul singolo tutta la responsabilità della
relazione stessa. Cominciamo con il dire che parlare di “scuola
italiana” è un’astrazione; sotto l’etichetta “scuola
italiana” si comprendono realtà concrete assai differenziate. Nel
nostro paese vige una sorta di particolarismo feudale in cui il tipo
di scuola e la collocazione geografica determinano situazioni molto
diverse tra di loro: tale varietà dipende essenzialmente dal
contesto sociale, culturale, economico da cui provengono gli studenti
che confluiscono nella singola scuola. Limitandoci alle superiori, un
liceo classico avrà, per forza di cose, problemi diversi da un
istituto tecnico o professionale; a sua volta un istituto tecnico
metropolitano si differenzierà non poco da un istituto analogo di
provincia; e, in generale, tra Nord e Sud le differenze sono spesso
notevoli.
Resta il fatto che oggi,
in gran parte delle scuole italiane, è difficile insegnare.
Esistono, certo, isole felici in cui tutto funziona bene; ma ciò non
può oscurare le difficoltà rilevanti, che travagliano le nostre
scuole, in particolare quelle che si devono far carico di rimediare a
tutto ciò che gli studenti non ricevono dall’ambiente da cui
provengono.
Infatti, la nostra è una
scuola classista: ce lo dicono i dati statistici. Su quattro
ragazzini licenziati con “ottimo” dalla scuola media, tre
provengono da famiglie benestanti. Circa l’84% dei figli di
famiglie benestanti si iscrive al liceo. Il rapporto Istat 2013
evidenzia come i figli di genitori con al massimo la scuola
dell’obbligo abbiano un tasso di abbandono scolastico del 27,7%,
che scende al 7,8% per i figli di genitori con il diploma di scuola
media superiore e arriva al 2,9% per i figli di genitori laureati.
Non c’è bisogno di molto altro per evidenziare il declino della
scuola come fattore di promozione sociale. I superficiali discorsi
sulla “meritocrazia” dovrebbero, in primo luogo, tener conto di
questo stato di cose.
In sintesi: ci sono le
scuole metropolitane, le scuole di provincia, le scuole dei
piccolissimi centri, le scuole del Nord, del Centro, del Sud, i
licei, gli istituti tecnici, i professionali – e ciascuna di queste
determinazioni si intreccia con le altre, sino a formare un quadro
molto complesso e ricco di sfumature. Anche l’“insegnante
italiano” è un’astrazione: c’è chi il mestiere lo fa per
amore, c’è chi lo fa per professione, c’è il doppiolavorista
(sempre più raro, perché la crisi si fa sentire e l’impegno a
scuola lascia poco tempo libero), ci sono la mamma e il padre di
famiglia, c’è chi non ne può più di stare a scuola e c’è chi
passa le ore a formulare il «Piano dell’offerta formativa». Fra
gli insegnanti ci sono persone coltissime e altre che non toccano un
libro da anni – non dobbiamo avere paura di dirlo. Non esiste un
idem sentire fra i lavoratori della scuola, c’è invece molto
individualismo e l’incapacità di riconoscere, in genere, le
ragioni dell’altro (insegnanti che guardano con sospetto i bidelli
e il personale di segreteria e viceversa).
Ripetiamo: esistono
numerose eccezioni, ma, poiché il disagio è diffuso è bene
concentrarsi su quello. Il grande “corpo scolastico” è malato:
non diagnosticarne la malattia, in nome del fatto che uno o più
organi funzionano perfettamente sarebbe come non voler curare un
malato di polmonite con la scusa che ci vede benissimo.
Già quelle esposte in
precedenza sarebbero ragioni sufficienti a spiegare da dove nasca il
disagio degli insegnanti, che si esprime nel diffuso fenomeno del
burnout e, nei casi più gravi, in serie patologie nervose.
Questo quadro complesso e variegato da qualche anno, da quando cioè
non si può più uscire dal lavoro attorno ai 55 anni, conosce
un’altra variabile: quella degli insegnanti “anziani”, spesso
logorati non soltanto sul luogo di lavoro ma anche in famiglia.
Tenuto conto che la gran parte dei docenti è donna, chi oggi si
colloca tra i 50 e i 60 anni (quindi in piena attività lavorativa)
ha spesso da fare i conti con impegni famigliari che prevedono
l’accudimentio di figli ancora non abbastanza grandi e di genitori
non più autonomi. Che conseguenze può avere su queste lavoratrici
un carico di lavoro oggettivamente aumentato (oggi a scuola si lavora
peggio e di più rispetto a trent’anni fa) e di impegni domestici
anch’essi più gravosi?
3) È necessario
riequilibrare la relazione tra chi insegna e chi impara
Abbiamo avuto in quindici
anni la riforma Berlinguer (legge 10 febbraio 2000, n. 30 «Legge
quadro in materia di riordino dei cicli dell’istruzione»), la
riforma Moratti (legge 28 marzo 2003 n. 53), la riforma Gelmini (una
serie di atti normativi che iniziano con legge 30 ottobre 2008, n.
169); adesso sta per essere varata (ma noi speriamo di no!) la «buona
scuola» di Renzi. Ancorché il filo rosso che attraversa le tre
riforme sia chiaramente rintracciabile nella necessità di ridurre le
spese per la scuola statale e, contemporaneamente, nella volontà di
accrescere il flusso di denaro pubblico verso le scuole private, non
si può fare a meno di mettere in evidenza due elementi che hanno
caratterizzato gli ultimi quindici anni: a) la riforma precedente
veniva cancellata da quella successiva e in nessuna delle sedicenti
riforme esistevano provvedimenti concreti concernenti lo specifico
del lavoro docente; b) si scaricava totalmente sulle spalle
dell’insegnante la questione dell’emergenza educativa, resa ogni
anno più seria dall’aggravarsi di problemi esterni alla scuola
(crescente disagio sociale causato dalla crisi economica, crescente
numero di studenti non italiani e di recente immigrazione, crescente
discredito dell’istituzione, crescente numero di studenti per
classe, crescente età media degli insegnanti, crescente confusione e
pressione sui docenti a causa di riforme che partivano e poi venivano
sostituite da altre).
In realtà la disparità
insita nel lavoro dell’insegnante, di cui parlavo già prima,
andrebbe riequilibrata. Se ne era reso conto Freud, all’inizio del
Novecento, in tempi in cui il modello educativo non era ancora
esploso in una miriade di modelli (ed è principalmente a causa della
moltiplicazione dei modelli educativi che le relazioni tra scuola e
famiglia si sono trasformate da solidali in conflittuali):
“L’educazione deve quindi cercare una via tra Scilla del lasciar
fare e Cariddi del divieto frustrante. Ammesso che il compito non sia
comunque insolubile, deve essere trovato un optimum per
l’educazione in modo che essa possa ottenere il massimo e nuocere
il minimo […]. Se si considerano ora i difficili problemi che si
presentano all’educatore – riconoscere le caratteristiche
costituzionali specifiche del bambino, indovinare da piccoli indizi
che cosa si svolga nella sua vita psichica incompleta, accordargli la
giusta quantità d’amore pur mantenendo un sufficiente grado di
autorità – si deve concludere che l’unica preparazione adeguata
alla professione di educatore è un rigoroso apprendistato
psicoanalitico. […] L’analisi degli insegnanti e degli educatori
sarebbe una misura profilattica più efficace che quella degli stessi
bambini” (S. Freud,
Introduzione alla psicoanalisi, in Opere, vol. XI, Torino,
Boringhieri, 1979, pp. 254-255).
Ricordiamoci che
“insegnare” deriva dal latino in-signare, che significa
“segnare”, “lasciare il segno”; “educare” deriva da
e-ducere, “trarre fuori”. Nell’insegnare c’è l’idea
dell’imposizione di un ordine, nell’educare l’idea di far
emergere quello che di buono c’è in ogni bambino, in ogni ragazzo.
Conciliare l’esigenza dell’imporre un ordine con quella di aprire
alla vita le menti giovani è sempre stato un compito arduo: lo è
ancora di più oggi, nella nostra modernità “liquida” e
complessa che preme con forza sulle fragili pareti del “recinto”
scolastico. È necessario che insegnanti e dirigenti riflettano su
tutto ciò e distinguano, separandole, le inefficienze di sistema
dalle inefficienze del singolo. L’acquisizione di consapevolezza
porterà a giuste rivendicazioni e impedirà che la responsabilità
educativa ricada integralmente sulle spalle del singolo. Tanti casi
di burnout, tanti cedimenti dipendono proprio dalla scarsa
stima di sé, derivante dall’attribuire il fallimento educativo
unicamente a una incapacità personale e dalla mancata comprensione
che le condizioni in cui si lavora sono fortemente carenti.
La soluzione, che qui
indichiamo sommariamente, passa quindi attraverso un’accresciuta
consapevolezza del problema da parte dei docenti che non può
prescindere da un lavoro collettivo, necessariamente solidale. Altro
che competitività tra i docenti o “premio al merito”!
Un secondo fattore,
indispensabile quanto più la situazione scolastica è difficile, è
quello di creare contesti in cui il dialogo diretto con ogni studente
sia possibile: quindi, una didattica per piccoli gruppi, in cui il
rumore di fondo (in tutti i sensi) non renda torbida la
comunicazione. C’è poi la via indicata da Freud: «l’analisi
degli insegnanti e degli educatori sarebbe una misura profilattica
più efficace che quella degli stessi bambini». E qui vengono in
mente le tante sciocchezze riassunte sotto le sigle recenti Bes, Dsa,
ecc.
4) I processi di
burocratizzazione del lavoro dei docenti contribuiscono a rendere
ancor più estraniato il lavoro degli insegnanti; è necessario
contenere tale aspetto.
La burocratizzazione è
un fenomeno che certo non riguarda soltanto la scuola. Ma a scuola
essa assume un aspetto particolare, perché viene sentita dagli
insegnanti come una forzatura del loro lavoro, un’imposizione
inutile e autoritaria. Si spiega così la diffusa resistenza a una
serie di innovazioni (dal registro elettronico, alla timbratrice per
rilevare le presenze) e di pratiche imposte dal ministero (prima tra
tutte l’ostilità alle prove Invalsi e la resistenza verso le tante
carte da riempire). In ogni caso, la pesante burocratizzazione
contribuisce ad accrescere il senso di estraneità dei docenti verso
il proprio lavoro. L’ordine rigoroso della “scuola di carta”
confligge e contrasta, dolorosamente, con il caos magmatico e vitale
della scuola vera. La difficoltà di dare un ordine a tale caos è
accresciuta da griglie, schemi, prospetti che girano a vuoto, come
una vite spanata. La burocratizzazione non fa che aggiungere ansia in
un ambito lavorativo già di per sé decisamente ansiogeno. Inoltre,
la sottrazione di senso che deriva dall’adempiere pratiche inutili
non può che influire negativamente sul lavoratore.
5) Rivendicare hic
et nunc quello che spetta a lavoratori della scuola e studenti,
rifiutarsi di accettare un futuro minaccioso, impegnarsi contro la
rottura del patto tra generazioni.
Esistono crimini contro
l’umanità non contemplati in nessun codice penale e che
determinano uno stato di violenza senza spargimento di sangue, un
asservimento di fatto degli esseri umani pur in un apparente stato di
libertà. Tre di questi crimini continuano a essere perpetrati in
Italia dalla classe dominante: la rottura del patto tra generazioni
(patto che prevedeva una buona trasmissione ereditaria – in tutti i
sensi – da una generazione all’altra), la vanificazione della
speranza in un futuro migliore, il reiterato ricorso ad
argomentazioni evidentemente illogiche, finalizzate a rendere
naturali, inevitabili, necessari sia il presunto antagonismo tra
generazioni sia il futuro-minaccia.
In tempi recenti, il
governo Monti è stato il punto d’approdo di un lungo percorso,
caratterizzato dall’erosione dei diritti conquistati dai lavoratori
in lunghi anni di lotta e da una crescente posizione di privilegio da
parte del padronato. Il progetto manifesto era quello di ridisegnare
i rapporti sociali, sottraendo ulteriori diritti alla gran massa
degli individui e confermando, per pochi, spropositati privilegi.
Renzi non fa che procedere sulla stessa strada. Mentre il pianeta
rischia la catastrofe ecologica, i nostri tecnocrati sproloquiano di
aumento del Pil e di sviluppo e invocano il fantasma dell’Europa e
quello della globalizzazione per convincerci che tutto si decide
altrove.
Non è vero: tutto si
decide qui e ora. È qui e ora che deve cominciare la riscossa.
Nessuna guerra è vinta per sempre – e questo vale anche per i
Signori della Borsa. Recuperare il senso del futuro è un’urgenza –
e non solo per le giovani generazioni che, giustamente, hanno
individuato nei ladri di futuro i loro antagonisti. La possibilità
di pensare il tempo futuro è la caratteristica che ci rende quel che
siamo, e cioè esseri umani. Ma il futuro che ci appartiene è il
nostro futuro, non un futuro generico. Inutile pensare sui tempi
lunghi, perché, come ci ricordava un economista di statura ben
diversa dai nostri Monti e Tremonti, sui tempi lunghi saremo tutti
morti.
È tempo di giocare il
nostro hic et nunc contro l’hic et nunc di chi ci
governa. Il loro è l’hic et nunc della mancanza di memoria
storica, dell’appiattimento degli eventi, della trasformazione di
decisioni umane in decisioni metafisiche, inappellabili, stoltamente
naturali (è il leitmotiv del “si deve fare così, perché così
vogliono i mercati”). Il nostro deve essere l’hic et nunc
di chi ragiona, si rifiuta di accettare un futuro minaccioso e sente
perciò l’urgenza di un cambiamento positivo. Dar senso alla nostra
finitezza mantenendo vivi i legami sociali è quello che siamo
chiamati a fare. Contro il conformismo, contro il futuro-minaccia,
contro la prospettiva di una crescita esponenziale della
diseguaglianza, contro la morte della speranza dobbiamo giocare la
carta del dire no a tutto quanto vuol rendere la nostra vita
peggiore. È questo l’unico modo di batterci anche per i nostri
figli. Oggi i padroni di turno stanno togliendo loro l’aspettativa
di una vita dignitosa; l’unica, vera eredità che possiamo lasciare
alle nuove generazioni è quella della speranza, che si nutre di
ragione e che si ribella – sempre – quando la ragionevolezza
viene calpestata in nome del privilegio di pochi.
La classe dominante ci
vuole indigenti e precari, dalla culla alla tomba. Un’istruzione
pessima, un lavoro indecente, gravoso e mal pagato, una pensione da
fame, da percepirsi in età avanzata, è tutto quello che ci vogliono
offrire. Quando Monti parlava di equità della sua manovra diceva
paradossalmente il vero: non solo i precari, ma anche gli
stabilizzati devono patire. L’allineamento verso il basso è
l’equità reale del banchiere Monti e dell’imbonitore Renzi. Si
tratta di un’aggressione inaccettabile al benessere della
maggioranza dei cittadini. Dalla scuola, dal luogo in cui si
incrociano le vite delle nuove e vecchie generazioni, può partire la
risposta adeguata, poiché una scuola regressiva è un ossimoro.
Chiedamoci chi, se non
chi a scuola vive e lavora, è chiamato a spiegare quanto siano
lontani dalle esigenze reali di studenti, insegnanti, lavoratori
della scuola le proposte dei nostri politici. Si pensi alla “riforma”
Gelmini, o alla proposta di legge “Aprea” o, infine, alla “buona
scuola” di Renzi e si giudichi in che misura i problemi urgenti
esposti in precedenza vengano presi in considerazione. Il primo passo
per uscire dal burnout, accresciuto oggi da uno spropositato
spostamento in avanti dell’età della pensione, è il recupero di
un ruolo attivo, all’interno di un’azione collettiva volta al
miglioramento della nostra scuola.
25 giugno 2015
da “Il Ponte”, anno
LXX n.7, luglio 2015
Nessun commento:
Posta un commento