Kirk Douglas nei panni di Spartaco |
Un crollo della «Casa
dei Gladiatori» sarebbe stato salutato da loro medesimi con uno
scatto di entusiasmo. Essi erano infatti schiavi due volte: schiavi
come condizione giuridica e schiavi di quelle armi. Questo stato di
cose ne faceva un gruppo a parte, nell’ambito della massa
schiavile: una élite alla rovescia. L’uso ripetuto delle armi, di
armi non loro ma dei loro datori di morte, li poneva nella condizione
atroce di adoperare di continuo degli strumenti — quelle armi
appunto - dai quali avrebbe potuto discendere la loro libertà, ma di
potersene servire solo per darsi reciprocamente la morte a
divertimento di ricchi e poveri di condizione libera assidui
frequentatori di tali «giochi» demagógicamente efficacissimi. Di
qui le loro due caratteristiche: temibi-lità per i padroni ed
esasperazione estrema.
Non bastarono nel 73 a.C.
le precauzioni correnti (non mettere assieme gladiatori della stessa
etnia) per evitare l’insurrezione di Spartaco, che incominciò,
appunto, con un assalto al deposito delle armi. Per tre anni Roma,
già vincitrice di ogni genere di conflitto, tremò di fronte a un
esercito di gladiatori, capeggiati da Spartaco: cioè di schiavi
specializzati (grazie ai loro padroni!) nell’uso delle armi.
Per sconfìggerli, il Senato affidò poteri vastissimi al politico più ricco e più potente, Crasso. Il quale non solo terrorizzò con le decimazioni i suoi soldati ma - conseguita la vittoria - volle terrorizzare l’intero gruppo sociale degli schiavi, e i gladiatori soprattutto, crocefìggendone migliaia e lasciandone i corpi in esposizione lungo tutta la via Appia.
Per sconfìggerli, il Senato affidò poteri vastissimi al politico più ricco e più potente, Crasso. Il quale non solo terrorizzò con le decimazioni i suoi soldati ma - conseguita la vittoria - volle terrorizzare l’intero gruppo sociale degli schiavi, e i gladiatori soprattutto, crocefìggendone migliaia e lasciandone i corpi in esposizione lungo tutta la via Appia.
Proprio la peculiarità
del «gladiatore» — schiavo del padrone e schiavo delle armi -
fece sì che la stessa guerra contro di loro venisse percepita come
qualcosa di più che una «guerra servile» quali quelle che avevano
insanguinato la Sicilia alla fine del II secolo a.C. Anneo Floro, che
scriveva vari secoli dopo, quando deve narrare la guerra contro gli
insorti di Spartaco, esordisce dicendo: «Questa guerra non so con
quale nome esattamente definirla»; concede che gli schiavi siano pur
sempre «un’umanità di seconda classe», ma nel caso di Spartaco -
osserva - ci fu una umiliazione in più: in quell’esercito ribelle,
infatti, dei gladiatori addirittura avevano il comando, e gli schiavi
che li seguivano pretendevano di agire come liberi.
Spartaco, il
gladiatore-generale, fu per Roma un incubo di lunga durata. Cicerone,
che aveva una trentina d’anni al tempo della rivolta, quando fu
console, dieci anni dopo, e schiacciò con la forza i congiurati
intorno a Catilina, chiamò Catilina, in Senato, «codesto
gladiatore» (e il capo della congiura era un senatore appartenente a
un’antica e nobile famiglia). E quando, venti anni più tardi,
Cicerone si trovò di fronte al triumviro Antonio, rincarò la dose:
«Non sei un Catilina, sei uno Spartaco!». Marx invece, nei primi
mesi del 1861, forse irritato da quella che era parsa la
capitolazione di Teano, scrivendo in privato a Engels commentava:
«Spartaco fu un vero grande generale, non un Garibaldi!».
Corriere della sera, 8
novembre 2010
ora in Il presente
come storia, Rizzoli, 2014
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