Dal blog di
Gianni De Proiettis, nel sito de “il manifesto”, recupero questo
antico e storico articolo di “Gabo” su Hugo Chavez. Ho aggiustato
qua e là la traduzione, che tuttavia resta resta un po' zoppicante.
(S.L.L.)
Nel
gennaio 1999, due settimane prima che Hugo Chávez assumesse la
presidenza del Venezuela, Gabriel García Márquez lo intervistò in
un viaggio in aereo da La Habana a Caracas. Mano a mano che
conversavano, lo scrittore colombiano, già premio Nobel di
letteratura (1982), scoprì una personalità che non corrispondeva
all'immagine di un despota come quella che si era formato sui media.
Esistevano due Chávez. Qual era quello reale? Un ritratto del
presidente che fece la carriera militare per poter giocare a
baseball, che recitava a memoria poesie di Neruda o Walt Whitman ed è
morto per un tumore a 58 anni. (Gianni De Proiettis)
All'imbrunire,
Carlos Andrés Pérez, allora presidente del Venezuela, scese
dall'aereo di ritorno da Davos, Svizzera, e si sorprese di venir
accolto dal suo ministro della Difesa, il generale Fernando Ochoa
Antich, “Che succede?”, gli domandò intrigato. Il ministro lo
tranquillizzò con spiegazioni così rassicuranti che il presidente,
anziché andare al Palazzo di Miraflores, si diresse a La Casona, la
residenza presidenziale. Stava prendendo sonno quando lo stesso
ministro della Difesa lo svegliò con una chiamata per informarlo di
una sollevazione militare a Maracay. Era appena entrato a Miraflores
quando esplosero i primi colpi di artiglieria.
Era il 4
febbraio del 1992. Il colonnello Hugo Chávez Frías, con il suo
culto sacramentale delle date storiche, comandava l'assalto dal suo
posto di comando improvvisato nel Museo Storico della Planicie. Il
presidente comprese allora che la sua unica risorsa era l'appoggio
popolare e andò negli studi di Venevisión per parlare alla nazione.
Dodici ore dopo, il golpe militare era fallito. Chávez si arrese,
con la condizione che anche a lui fosse permesso di rivolgersi al
popolo dai teleschermi. Il giovane colonnello creolo, con il basco da
paracadutista e la sua ammirevole capacità di parola, si assunse la
responsabilità del movimento. Ma il suo discorso fu un trionfo
politico. Fece due anni di carcere, finché fu amnistiato dal
presidente Rafael Caldera. Tuttavia, molti suoi seguaci - ma anche
non pochi nemici - credono che il discorso della resa fu il primo
della campagna elettorale che lo portò alla presidenza della
Repubblica meno di nove anni dopo.
Il
presidente Hugo Chávez Frías mi raccontava questa storia nell'aereo
della Fuerza Aérea Venezolana che ci portava da La Habana a Caracas,
due settimane fa, quando mancavano meno di quindici giorni al suo
insediamento come presidente costituzionale del Venezuela eletto dal
popolo (il 2 febbraio 1999, ndt). Ci eravamo conosciuti tre giorni
prima a La Habana, durante la sua riunione con i presidenti Castro e
Pastrana, e la prima cosa che mi ha impressionato è stato il suo
corpo possente, di cemento armato. Aveva la cordialità immediata e
la grazia creola di un venezuelano puro. Cercammo di rincontrarci
un'altra volta, ma non fu possibile per colpa di entrambi, cosicché
viaggiammo insieme verso Caracas per conversare della sua vita e dei
suoi miracoli nell'aereo.
Fu una buona
esperienza da reporter a riposo. Mano a mano che mi raccontava
la sua vita, scoprivo una personalità che non corrispondeva affatto
all'immagine di tiranno che ci eravamo formati attraverso i media.
Era un altro Chavez. Quale dei due era quello reale?
L'argomento
duro usato contro di lui nella campagna elettorale era stato il suo
passato recente di cospiratore e golpista. Però la storia del
Venezuela ne ha digerito più di quattro. Cominciando da Rómulo
Betancourt, ricordato a ragione o a torto come il padre della
democrazia venezuelana, che detronizzò Isaías Medina Angarita, un
ex-militare democratico che cercava di purgare il paese dai trentasei
anni di Juan Vicente Gómez. Il suo successore, il romanziere Rómulo
Gallegos, fu spodestato dal generale Marcos Pérez Jiménez, che
rimase quasi undici anni con tutto il potere. Questi, a sua volta, fu
deposto da tutta una generazione di giovani democratici che inaugurò
il periodo più lungo di presidenti eletti.
Il golpe del
febbraio 1992 sembra essere l'unica cosa riuscita male al colonnello
Hugo Chávez Frías. Eppure, lui lo ha visto dal lato positivo come
un fiasco provvidenziale. E' la sua maniera di intendere la buona
sorte, o l'intelligenza, o l'intuizione, o l'astuzia, o qualunque
cosa sia l'afflato magico che ha guidato le sue azioni da quando
venne al mondo a Sabaneta, nello stato di Barinas, il 28 luglio 1954,
sotto il segno del potere: Leone.
Chávez,
cattolico convinto, attribuisce la sua buona stella allo scapolario,
l'immaginetta religiosa con più di cento anni che porta con sé fin
da bambino e che ha ereditato da un bisnonno materno, il colonnello
Pedro Pérez Delgado, uno dei suoi eroi tutelari. I suoi genitori
sopravvivevano a fatica con gli stipendi da maestri elementari e lui
dovette aiutarli, a partire dai nove anni, vendendo dolci e frutta
con un carrettino. A volte andava a dorso d'asino a visitare la sua
nonna materna a Los Rastrojos, un paese vicino che gli sembrava una
città perché aveva una piccola centrale elettrica che dava due ore
di luce la sera e vi risiedeva una levatrice che aiutò a nascere
lui e i suoi quattro fratelli. Sua madre avrebbe voluto che
diventasse prete, ma arrivò solo a chierichetto e suonava le campane
con tanta grazia che tutto il paese lo riconosceva per il suo tocco.
“E' Hugo che suona”, dicevano. Tra i libri di sua madre trovò
un'enciclopedia provvidenziale, con un primo capitolo che lo sedusse
immediatamente: Come trionfare nella vita.
In realtà
era un ricettario di possibili scelte e lui le provò quasi tutte.
Come pittore ammirato di fronte alle riproduzioni di Michelangelo e
del David, a dodici anni vinse il primo premio in un'esposizione
regionale. Come musicista, si rese indispensabile per serenate e
compleanni grazie alla sua maestria con la chitarra e alla buona
voce. Come giocatore di baseball riuscì a diventare un catcher di
prima categoria. La scelta militare non stava nella lista, e non gli
sarebbe neanche venuta in mente da solo, se non gli avessero detto
che il modo migliore di arrivare in prima serie era entrare
all'accademia militare di Barinas. Fu sicuramente un altro miracolo
dell'immaginetta, perché quel giorno cominciava il piano Andrés
Bello, che permetteva ai diplomati delle scuole militari di ascendere
fino ai più alti gradi accademici.
Studiava
scienze politiche e storia, dal marxismo al leninismo. Si appassionò
per lo studio della vita e opera di Simón Bolívar, il suo Leone
maggiore, i cui proclami imparò a memoria. Però il suo primo
conflitto cosciente con la politica reale fu la morte di Allende nel
settembre del 1973. Chávez non capiva. Perché se i cileni hanno
eletto Salvador Allende, ora i militari cileni fanno un colpo di
stato? Poco dopo, il capitano della sua compagnia gli assegnò il
compito di vigilare un figlio di José Vicente Rangel, che era
reputato comunista. “Guarda le giravolte che dà la vita”, mi
dice Chávez con una eplosione di riso. “Ora suo papà è il mio
cancelliere”. Ancora più ironico è che, quando si laureò
nell'accademia, ricevette la sciabola dalle mani del presidente che
venti anni dopo avrebbe cercato di deporre: Carlos Andrés
Pérez."Oltretutto", gli dissi, “lei stette quasi per
ucciderlo". “Assolutamente no”, protestò Chávez. “L'idea
era quella di convocare un'assemblea costituente e tornare nelle
caserme". Fin dal primo momento mi ero reso conto che era un
narratore naturale. Un prodotto íntegro della cultura popolare
venezuelana, che è creativa e giocosa. Ha un grande senso
dell'impiego del tempo e una memoria con un che di soprannnaturale,
che gli permette di recitare a memoria poesie di Neruda o Whitman e
pagine intere di Rómulo Gallegos.
Fin da
bambino, per caso, scoprì che suo bisnonno non era un assassino
delle sette leghe, come diceva sua madre, bensì un guerriero
leggendario dei tempi di Juan Vicente Gómez. Fu tale l'entusiasmo di
Chávez che decise di scrivere un libro per purificare la sua
memoria. Spulciò archivi storici e biblioteche militari e percorse
la regione di paese in paese con un bagaglio da storiografo per
ricostruire gli itinerari del bisnonno attraverso le testimonianze
dei sopravvissuti. Da allora, lo incorporò all'altare dei suoi eroi
e cominciò a portare lo scapolario protettore che era stato suo.
Fu in quei
giorni che attraversò la frontiera, senza rendersene conto, per il
ponte di Arauca e il capitano colombiano che gli perquisì la borsa
trovò motivi sufficienti per accusarlo di spionaggio: aveva una
macchina fotografica, un registratore, documenti segreti, foto della
regione, una mappa militare con grafici e due pistole regolamentari.
I documenti di identità, come è proprio di una spia, potevano
essere falsi. La discussione si prolungò varie ore in un ufficio in
cui l'unico quadro era un ritratto di Bolívar a cavallo. "Non
ce la facevo quasi più - mi disse Chávez -, perché quanto più gli
spiegavo, meno mi capiva". Finché non gli venne in mente la
frase salvatrice: "Guardi, mi capitán, come è la vita: solo
cento anni fa eravamo uno stesso esercito e quello che ci sta
guardando dal quadro era il comandante di tutti e due. Come posso
essere una spia?". Il capitano, commosso, cominciò a tessere le
lodi della Gran Colombia e i due finirono la serata bevendo birra dei
due paesi in una cantina di Arauca. Al mattino seguente, con un mal
di testa condiviso, il capitano restituì a Chávez i suoi attrezzi
da storiografo e lo salutò con un abbraccio a metà del ponte
internazionale.
"E' da
quell'epoca che mi venne l'idea concreta che qualcosa andava male in
Venezuela", dice Chávez. Lo avevano destinato all'Oriente del
paese come comandante di un plotone di tredici soldati e un'unità di
comunicazioni per liquidare gli ultimi ridotti guerriglieri. Una
notte di forti piogge gli chiese rifugio nella base un colonnello di
intelligenza con una pattuglia di soldati e dei presunti guerriglieri
che avevano appena catturato, macilenti e ridotti pelle ed ossa.
Verso le dieci di sera, quando Chávez si stava addormentando, sentí
nella stanza vicina delle grida lancinanti. "Erano i soldati che
stavano picchiando i prigionieri con mazze da baseball avvolte negli
stracci per non lasciare segni", raccontò Chávez. Indignato,
esigette dal colonnello che gli consegnasse i prigionieri o se ne
andasse di lì, poiché non poteva accettare che si torturasse
qualcuno nel suo comando. "Il giorno dopo fui minacciato di
processo militare per disobbedienza - raccontò Chávez -, ma mi
mantennero in osservazione solo per un certo tempo".
Pochi giorni
dopo, fece un'altra esperienza che superò le precedenti. Stava
comprando carne per la sua truppa quando un elicottero militare
atterrò nel cortile della caserma con un carico di soldati feriti in
una imboscata guerrigliera. Chávez prese in braccio un soldato che
aveva varie pallottole in corpo. "Non mi lasci morire, mi
teniente..." gli disse terrorizzato. Riuscì appena a metterlo
in un'auto. Altri sette morirono. Quella notte, insonne nell'amaca,
Chávez si domandava: "Perché sto qui? Da un lato campesinos
vestiti da militari che torturano campesinos guerriglieri e
dall'altro lato campesinos guerriglieri che uccidono
campesinos vestiti di verde. A quel punto, quando la guerra
era finita, non aveva più senso sparare un colpo contro qualcuno".
E concluse, nell'aereo che ci portava a Caracas: "Lì mi trovai
nel mio primo conflitto esistenziale".
Il giorno
dopo si svegliò convinto che il suo destino era quello di fondare un
movimento. E lo fece a 23 anni, con un nome evidente: Ejército
bolivariano del pueblo de Venezuela. I membri fondatori: cinque
soldati e lui, con il grado di sottotenente. "Con che
finalità?", gli domandai. Molto semplice,
disse: “Con la finalità di
prepararci se succedeva qualcosa”.
Questa
era la situazione il 17 diciembre 1982, quando si produsse un
avvenimento inaspettato che Chávez considera decisivo nella sua
vita. Era già capitano nel secondo reggimento di paracadutisti e
aiutante di un ufficiale di intelligenza. Quando meno se lo
aspettava, il comandante del reggimento, Ángel Manrique, lo designò
per pronunciare un discorso di fronte a milleduecento uomini fra
truppa e ufficiali.
All'una del pomeriggio, con il
battaglione già riunito nel campo di calcio, il maestro di cerimonie
lo annunciò. "E il discorso?", gli chiese il comandante
del reggimento, vedendolo salire sul palco senza alcun foglio. "Non
ho nessun discorso scritto", gli disse Chávez. E cominciò a
improvvisare. Fu un discorso breve, ispirato a Bolívar e Martí,
però con un apporto personale sulla situazione di oppressione e di
ingiustizia dell'America Latina a duecento anni dall'indipendenza.
Gli ufficiali, sia i suoi che gli altri, lo ascoltarono impassibili.
Fra loro, i capitani Felipe Acosta Carle e Jesús Urdaneta Hernández,
simpatizzanti del suo movimento. Il comandante della guarnigione,
molto disgustato, gli rivolse un rimprovero che fosse ascoltato da
tutti: "Chávez, lei sembra proprio un politico". "Inteso",
gli rispose Chávez. Felipe Acosta, che era alto due metri e neanche
dieci uomini riuscivano a immobilizzare, si mise di fronte al
comandante e gli disse: "Si sbaglia, mi comandante. Chávez non
è affatto un politico. E' un capitano di quelli di adesso e quando
voi ascoltate quello che ha detto nel suo discorso, ve la fate
sotto".
Allora il colonnello Manrique mise
la truppa sull'attenti e disse: "Voglio che sappiate che quanto
ha detto il capitano Chávez era autorizzato da me. Io gli ho dato
l'ordine che facesse questo discorso e tutto quello che ha detto,
anche se non l'aveva scritto, me lo aveva anticipato ieri". Fece
una pausa d'effetto e concluse con un ordine tassativo: "Che
questo non esca da qui!"
Alla fine dell'atto, Chávez andó
a correre con i capitani Felipe Acosta e Jesús Urdaneta verso il
Samán del Guere, a dieci chilometri di distanza, e lì ripeterono il
giuramento solenne di Simón Bolívar sul monte Aventino. "Al
finale, claro, gli feci un cambiamento", mi disse Chávez.
Invece di "cuando hayamos roto las cadenas que nos oprimen por
voluntad del poder español", dissero: "Hasta que no
rompamos las cadenas que nos oprimen y oprimen al pueblo por voluntad
de los poderosos".
Da allora, tutti gli ufficiali che
aderivano al movimento segreto dovevano fare questo giuramento.
L'ultima volta fu durante la campagna elettorale di fronte a
centomila persone. Per anni fecero congressi clandestini sempre più
numerosi, con rappresentanti militari di tutto il paese. "Facevamo
riunioni di due giorni in luoghi nascosti, studiando la situazione
del paese, facendo analisi, prendendo contatto con gruppi civili,
amici. "In dieci anni - mi disse Chávez - arrivammo a fare
cinque congressi senza essere scoperti".
A questo punto della
conversazione, il presidente rise maliziosamente e rivelò con un
sorriso malizioso: "Bueno, abbiamo sempre detto che i primi
eravamo tre. Però possiamo già dire che in realtà c'era un quarto
uomo, la cui identità abbiamo sempre occultato per proteggerlo,
perché non fu scoperto il 4 febbraio e rimase attivo nell'esercito,
arrivando al grado di colonnello. Ma ora siamo nel 1999 e possiamo
già rivelare che il quarto uomo è qui con noi in questo aereo".
Indicò il quarto uomo, che stava seduto a parte, e disse: “Il
colonnello Badull!". Un anno dopo, già come ufficiale
paracadutista in un battaglione blindato di Maracay, cominciò a
cospirare in grande. Però mi chiarì che usava la parola
cospirazione solo nel senso figurato di convocare volontà per un
compito comune.
Secondo l'idea che il comandante
Chavez ha della sua vita, l'avvenimento culminante fu El Caracazo, la
sollevazione popolare che devastò Caracas. Soleva ripetere:
“Napoleone diceva che una battaglia si decide in un secondo di
ispirazione dello stratega". A partire da questa considerazione,
Chavez sviluppò tre concetti: uno, l'ora storica. L'altro, il minuto
strategico. E infine, il secondo tattico. “Eravamo inquieti perché
non volevamo andarcene dall'esercito", diceva Chavez. “Avevamo
formato un movimento, però non avevamo ben chiaro per che cosa".
Tuttavia, il dramma tremendo fu che quello che doveva succedere
successe e loro non erano preparati. “Vale a dire - concluse Chavez
- che ci sorprese il minuto strategico".
Si riferiva, naturalmente, alla
rivolta popolare del 27 febbraio 1989: El Caracazo. Uno dei
più sorpresi fu lui stesso. Carlos Andrés Pérez aveva appena
assunto la presidenza grazie a una copiosa votazione ed era
inconcepibile che in venti giorni succedesse un fatto così grave.
“La sera del 27, io andavo all'università per il mio master e
entro nel forte Tiuna in cerca di un amico che mi prestasse un po' di
benzina per poter tornare a casa", mi raccontò Chavez pochi
minuti prima di atterrare a Caracas. “Allora vedo che stanno
facendo uscire le truppe e domando a un colonnello: Dove vanno tutti
questi soldati? Perché mandavano fuori quelli di Logistica che non
sono addestrati al combattimento, e meno ancora per il combattimento
urbano. Erano reclute, impauriti dallo stesso fucile che portavano.
Cosicché domando al colonnello: Ma dove va questo mare di gente? E
il colonnello mi dice: Nelle strade, nelle strade. L'ordine che hanno
dato è questo: bisogna fermare questo casino a qualunque costo, e lì
andiamo. Dio mio, ma che ordini vi hanno dato? Bueno Chavez, mi
risponde il colonnello: l'ordine è di fermare il casino sia come
sia. E io gli dico: Ma mi coronel, si immagina cosa può succedere. E
lui mi dice: Bueno, Chavez, è un ordine e non c'è niente da fare.
Che succeda quello che Dio vuole".
Chavez dice che oltretutto aveva
la febbre alta per un attacco di rosolia e quando accese il motore
vide un soldatino che correva con l'elmetto caduto, il fucile appeso
e le munizioni che gli cadevano. “Allora mi fermo e lo chiamo",
disse Chavez. “E lui monta in macchina, tutto nervoso, sudato, un
ragazzino di 18 anni. Allora gli domando: Ebbe', dove vai correndo
così? No, dice lui, è che ho perso il mio plotone e il mio tenente,
che vanno in quel camión. Mi aiuti, mi mayor, mi aiuti a
riprenderli.
E
io raggiungo il camion e chiedo a chi li comanda: Ma dove andate? E
lui mi dice: Io non so niente. Chi lo può sapere, si figuri".
Chavez rimane senza fiato e si mette a gridare, affogando
nell'angoscia di quella notte terribile: “Tu lo sai, i soldati li
mandi per le strade, impauriti, con un fucile e cinquecento colpi e
li usano tutti. Sparavano all'impazzata per le strade, sparavano
nelle colline, nei quartieri popolari. Fu un disastro! Questo fu:
migliaia di morti, e tra loro Felipe Acosta". “E l'istinto mi
dice che lo fecero ammazzare", dice Chavez. “Fu il minuto che
aspettavamo per agire". Detto fatto: da quel momento cominciò a
prendere corpo il golpe che fallì tre anni dopo.
L'aereo atterrò a Caracas alle
tre di mattina. Vidi dal finestrino la palude di luci di quella città
indimenticabile dove vissi tre anni cruciali per il Venezuela, ma che
lo furono anche per la mia vita. Il presidente si congedò con il suo
abbraccio caraibico e un invito implicito: “Ci vediamo qui il 2
febbraio". Mentre si allontanava in mezzo alla sua scorta di
militari decorati e amici della prima ora, mi folgorò la sensazione
di aver viaggiato e conversato gustosamente con due uomini opposti.
Uno a cui il destino ostinato offriva l'opportunità di salvare il
suo paese. E l'altro, un illusionista, che poteva passare alla storia
come uno dei tanti despoti.
Questo articolo fu pubblicato
originariamente nella rivista “Cambio di Colombia”, nel febbraio
1999.
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