I vari volti della
crisi ambientale
Aumento della
concentrazione di anidride carbonica e di altri gas nell’atmosfera
e mutamenti climatici; impoverimento della fertilità del suolo;
graduale distruzione delle foreste e diminuzione della biodiversità;
erosione del suolo con conseguenti frane e alluvioni; congestione
delle città; aumento della popolazione nel Sud del mondo e
invecchiamento della popolazione nel Nord del mondo; inquinamenti
industriali; montagne di rifiuti che nessuno sa dove mettere,
contaminazione dei prodotti agricoli con pesticidi.
Questi sono soltanto
alcuni aspetti della crisi che le società industriali, e anche
quelle in via di industrializzazione, nel sud del mondo, stanno
affrontando.
Pochi numeri danno
un’idea della dimensione del problema: sulla Terra ci sono (2003)
6.200 milioni di persone, circa 1.700 milioni nel Nord del mondo e
circa 4.500 milioni nel Sud del mondo. La popolazione terrestre
aumenta in ragione di circa 60 milioni di persone all’anno. La
massa di materiali movimentati attraverso il mondo — la
“tecnosfera” — degli oggetti fabbricati e usati, ammonta ogni
anno a circa 50.000 milioni di tonnellate (acqua ed aria escluse);
l’acqua usata dalle comunità urbane e dalle famiglie, nel mondo,
ammonta a circa 500 miliardi di tonnellate all’anno; i consumi di
acqua totali ammontano a circa 9.000 miliardi di tonnellate all’anno;
le automobili in circolazione nel mondo sono circa 550 milioni.
Se passiamo al caso
dell’Italia vediamo che una popolazione di circa 57 milioni di
persone, abbastanza stazionaria, ogni anno assorbe circa 700 milioni
di tonnellate di materiali (combustibili, sabbia e ghiaia, argilla,
prodotti alimentari, minerali e metalli, eccetera, di produzione
nazionale o di importazione, acqua e aria escluse) e genera circa 100
milioni di tonnellate di rifiuti solidi, oltre a circa 500 milioni di
tonnellate di gas gettati nell’atmosfera e circa 100 milioni di
tonnellate di rifiuti immessi nelle acque. Le famiglie italiane
assorbono circa 9 miliardi di tonnellate all’anno di acqua e
l’agricoltura e l’industria ne assorbono circa 40 miliardi di
t/anno. Circa 200 milioni di tonnellate di materiali, ogni anno, sono
immobilizzati negli edifici, nelle strade, nei prodotti a vita lunga
(automobili, macchinari, treni, rotaie, eccetera). Le automobili in
circolazione in Italia sono circa 35 milioni.
Ho parlato di crisi
perché questa situazione è insostenibile, non può durare a lungo,
per motivi fisici che non possono essere annullati o scavalcati con
nessuna legge o con nessuna quantità di denaro.
Una prima legge della
fisica e dell’ecologia afferma che la produzione e i consumi delle
merci comportano inevitabilmente un impoverimento delle riserve di
materiali naturali — minerali, riserve sotterranee di combustibili,
acqua, fertilità del suolo e quindi diminuzione dei prodotti
agricoli e forestali — e un peggioramento della qualità delle
risorse naturali restanti: tale peggioramento può essere
rappresentato da un aumento della temperatura e da una addizione di
sostanze chimiche inquinanti e dannose nelle acque e nell’atmosfera
o da una perdita del suolo superficiale.
Una seconda legge della
fisica e dell’ecologia afferma che ogni corpo naturale — aria,
acqua, suolo coltivabile e edificabile, spazio urbano — ha una
capacità ricettiva limitata. Da un pozzo si possono estrarre
petrolio o metano in una quantità che un giorno finisce e che non è
più rigenerabile, nel corso della storia umana. Se si gettano 100
chili di acidi all’anno nell’atmosfera si possono avere disturbi
locali limitati, ma se si gettano 10.000 kg di acidi all’anno,
l’atmosfera diventa irrespirabile e le piogge diventano acide e
corrosive, eccetera. Ma anche quando siamo di fronte a risorse
rinnovabili, come l’acqua, si costata che in un fiume possono
essere gettati 100 chili di acidi all’anno senza che venga
compromessa la qualità dell’acqua, perché altra acqua viene
apportata dalle piogge e diluisce le sostanze dannose; se però si
gettano 10.000 chili di acidi l’acqua diventa non può più essere
usata per l’irrigazione, per alimentare acquedotti o non è più
idonea per la vita dei pesci.
Più merci e più consumi
comportano un peggioramento — e un aumento del costo — dei
minerali e delle fonti energetiche, e una diminuzione della
possibilità di avere acqua di buona qualità e aria respirabile in
futuro.
Giorgio Nebbia |
Le interazioni fra
comportamento umano e natura dipendono dal sistema sociale adottato
dagli esseri umani che occupano una parte di un territorio o che
occupano l’intero pianeta. La maggior parte delle società, nel
Nord del mondo e ormai anche nel Sud del mondo, vivono secondo le
regole del mercato capitalistico. Anche i paesi che si spacciano per
socialisti — ormai solo Cuba e in parte la Cina, la Corea del Nord
e pochi altri — sopravvivono soltanto adottando più o meno
apertamente le regole del capitalismo.
Il capitalismo da parte
sua vive secondo una unica legge. Il capitalismo sopravvive soltanto
se si producono e consumano crescenti quantità di merci, cioè
soltanto attraverso uno sfruttamento crescente e quanto più rapido
possibile delle risorse naturali e del lavoro. Il capitalismo,
insomma, sopravvive soltanto distruggendo i beni della natura,
lasciando risorse impoverite alle generazioni future; con la
sottrazione, da parte di un popolo, di tali risorse ad altri popoli.
Poiché in genere i popoli rapinati — di minerali, di mano d’opera,
di prodotti agricoli e forestali, di merci — non sono contenti e
tendono a ribellarsi, il capitalismo ricorre a due sistemi
principali.
Il primo consiste nel
sottomettere altri popoli con l’imperialismo; il secondo consiste
nell’asservirli a bisogni che solo il capitalismo può soddisfare.
Spesso non occorre mandare eserciti di occupazione, ma basta
inventare sistemi che generano, nei popoli ribelli o potenziali
ribelli, bisogni indotti di merci e tecniche forniti dai paesi
imperialisti. All’unica legge del capitalismo segue una conseguenza
inevitabile: il capitalismo è insostenibile, non può durare senza
fine; una società umana, che voglia evitare o diminuire la rapina
delle risorse naturali, che voglia evitare conflitti fra popoli e fra
poveri e che abbia rispetto per le generazioni future, deve fermare
il modo capitalistico di produrre e consumare. Non è detto che la
fine del capitalismo sia vicina, o facile, ma solo la lotta al
sistema capitalistico di produzione può almeno rallentare o
attenuare i danni per la nostra e le future generazioni.
Charles Darwin |
Le radici
dell’ecologia
Già alla fine del XVIII
secolo Malthus (1766-1834) aveva riconosciuto che un aumento della
popolazione avrebbe portato a una insufficiente disponibilità di
cibo: essendo un economista borghese Malthus suggeriva come unica
soluzione delle azioni per rallentare l’aumento della popolazione
dei poveri (che fanno più figli) tagliando i sussidi di povertà e
con una adeguata “educazione”.
Gli studiosi del secolo
scorso avevano riconosciuto che la fertilità dei suoli diminuiva con
l’aumentare della produzione agricola. Justus von Liebig
(1803-1873) aveva descritto le leggi della nutrizione vegetale e
aveva spiegato le ragioni per cui il suolo si impoverisce se
coltivato intensamente. Il capitalismo seppe subito dare una risposta
mettendosi a sfruttare i concimi cileni, poi mettendosi a fabbricare
concimi dai fosfati africani, poi mettendosi a fabbricare concimi
sintetici.
Sempre nella metà del
1800 Darwin (1809-1882) intraprendeva il viaggio intorno al mondo
sulla nave Beagle (1831-1836) e, al suo ritorno, nel 1859, ha
spiegato le leggi dell’evoluzione e le modificazioni che le specie
subiscono in relazione all’ambiente circostante. Nel 1866 Ernst
Haeckel (1834-1919), il grande divulgatore del pensiero di Darwin, in
una delle sue “conferenze” suggeriva la necessità di studiare
gli scambi di materia e di energia fra gli esseri viventi e il mondo
circostante e assegnava alla nuova disciplina il nome di “ecologia”,
in quanto “economia della natura”.
Per decenni l’ecologia
si è sviluppata ed è rimasta chiusa nei laboratori scientifici
influenzando solo limitatamente il pensiero e l’agire politico.
Anche se, già nella metà dell’Ottocento, è nato, in risposta ad
una domanda sollecitata in parte dai naturalisti e in parte da una
nuova attenzione civile, un movimento per la conservazione della
natura e sono stati creati i primi parchi nazionali.
Peraltro, a differenza
dell’attuale effimera attenzione per le scoperte scientifiche, il
dibattito sulla rivoluzione delle conoscenze biologiche
nell’Ottocento si diffondeva rapidamente non solo fra gli studiosi,
ma a livello della masse popolari e sollecitava una analisi delle
radici della violenza nei confronti della natura, riconosciute insite
nel sistema capitalistico borghese e consumistico. Si possono
ricordare gli scritti degli anarchici, come Henry Thoreau (1817-1862)
e Piotr Kropotkin (1842-1922), le battaglie socialiste per migliorare
le condizioni di vita e l’ambiente nelle città e nelle fabbriche.
Per esempio, il fascicolo
del 15 giugno 1882 del giornale operaio e socialista “La Plebe”
contiene un lungo necrologio di Darwin con una interessante
interpretazione “politica” del suo pensiero: “La solidarietà,
e il lavoro solidale, sono ciò che protegge le specie nella lotta
che esse hanno a sostenere contro le forze ostili della natura per
mantenere la loro esistenza… il miglior modo d’organizzazione
d’una società animale è quella del comunismo anarchico”.
Lo stesso problema della
scarsità delle risorse naturali e del loro possibile esaurimento
futuro era ben presente agli studiosi del secolo scorso. L’economista
Stanley Jevons (1835-1882) aveva scritto un esemplare studio a questo
proposito, anche se le sue previsioni si erano poi rivelate
sbagliate, avvertendo che lo sfruttamento delle miniere di carbone
avrebbe portato ad un loro impoverimento e poi esaurimento.
Davanti a tale
avvertimento il capitalismo mobilitò i suoi scienziati e scoprì le
riserve di petrolio, poi di gas naturale; dapprima gli Stati uniti
hanno realizzato il loro avanzato capitalismo con le proprie risorse
petrolifere nazionali; poi, quando queste hanno cominciato ad
esaurirsi, hanno cominciato a importare petrolio, con adatte
operazioni di imperialismo in Persia, nella penisola arabica, in
Africa, nell’America Latina.
L’ecologia
scienza borghese?
Un vero e proprio
“movimento” di contestazione ecologica in senso moderno è
cominciato negli anni 50 del Novecento con la protesta contro le
esplosioni delle bombe atomiche nell’atmosfera; si sono così
intrecciate la domanda di pace e disarmo con quella di un ambiente
non contaminato dai sottoprodotti radioattivi delle attività
nucleari, e poi dai pesticidi, e poi dagli agenti tossici
industriali. Il movimento, che ha cercato nell’ecologia un nuovo
modo di pensare, è cresciuto nel corso degli anni sessanta del
Novecento, sull’onda della contestazione operaia e giovanile e
della protesta contro la guerra nel Vietnam. Il 1970 fu proclamato
anno europeo della conservazione della natura; il 22 aprile 1970 fu
proclamato in tutto il mondo “giornata della Terra”.
La contestazione
ecologica, anche nei suoi aspetti anarco-individualistici, aveva una
matrice borghese, come del resto era nata in ambiente borghese la
protesta contro le condizioni di lavoro e lo stesso movimento
socialista. In Italia il movimento di contestazione è stato
sostenuto da gruppi di intellettuali, insegnanti, studenti, borghesi,
anche se di matrice radical-socialista. E’ questo il tessuto
culturale in cui era nata, nella metà degli anni cinquanta, Italia
Nostra, la prima associazione per la difesa del patrimonio storico,
artistico e naturale del paese. Borghese era la matrice della
proposta di porre dei “limiti alla crescita”, formulata dal Club
di Roma agli inizi degli anni settanta. Questa situazione ha fatto sì
che il movimento di contestazione di estrema sinistra, in Italia e
altrove, abbia guardato con sospetto all’ecologia che alcuni
chiamarono “la scienza delle contesse”.
Sarebbe utile rileggere
gli scritti dell’estrema sinistra degli anni sessanta del Novecento
per ritrovare questa posizione che del resto è ben interpretata dal
celebre libro di Dario Paccino, L’imbroglio ecologico, del
1972. Sostanzialmente la tesi era che l’ecologia era un ennesimo
imbroglio architettato dal capitale per polarizzare l’attenzione
verso la salvezza della “natura” dimenticando che l'“animale
operaio” è esposto, ben più degli uccelli, a violenza e pericolo
di estinzione. Questa critica era in parte ingenerosa: l’ecologia e
la contestazione ecologica avrebbero potuto offrire — e hanno anche
offerto — l’occasione per riconoscere che le radici della
violenza contro la natura e l’ambiente andavano cercate nella
proprietà privata, nelle leggi del massimo profitto, nelle ragioni
e regole della società capitalistica. Virginio Bettini, nel 1970,
aveva scritto, nel primo numero della rivista “Natura e Società”,
che “l’ecologia è rossa“.
Il capitalismo si
appropria dell’ecologia
Ben presto il capitalismo
ha elaborato i propri anticorpi alla contestazione ecologica degli
anni sessanta del Novecento e ha avviato la protesta nell’alveo
della propria logica: ben vengano le associazioni ambientaliste che
spiegano — a noi capitalisti — come correggere il nostro
comportamento senza toccare la prima legge del capitalismo.
Volete merci ecologiche?
ecco che siamo pronti a produrle; volete acque pulite? ecco che il
capitalismo vi offre depuratori e inceneritori. Molti
“ambientalisti”, soprattutto quelli del filone tecnocratico,
detto “ambientalismo scientifico”, sono stati tutti contenti,
senza rendersi conto che ogni soluzione proposta dal sistema
capitalistico non solo non risolveva il problema, ma spostava
l’inquinamento dai fiumi, ai fanghi immessi nel suolo; dalle
discariche, alle diossine prodotte dagli inceneritori;
dall’inquinamento del traffico alle montagne di rottami di
automobili; dai paesi industrializzati al Sud del mondo.
Ci troviamo oggi di
fronte a due possibilità: la prima consiste nell’accettare o
considerare buona e comunque correggibile la società capitalistica e
godere senza troppi pensieri dei suoi benefici merceologici; la
seconda è cercare di analizzare che tali beni merceologici non sono
beni fondamentali, ma beni il cui desiderio è indotto con arti
raffinate, addirittura a livello globale.
La globalizzazione non
consiste nella circolazione delle merci e del lavoro, ma nella
universalizzazione dei bisogni indotti e nella moltiplicazione
dell’asservimento, globale, agli stessi bisogni e alle stesse
merci. La gioia con cui sono stati salutati i negozi McDonald sulla
Piazza Rossa o a Pechino, in Corea o a Cuba, come a Stoccolma o a
Roma, dimostra come il capitalismo svolga in maniera perfetta la sua
funzione di asservimento planetario degli umani e della natura.
La seconda soluzione
consiste nel cominciare a pensare che questo non è il migliore dei
mondi: che i bisogni merceologici indotti mortificano e annullano i
veri bisogni umani: il bisogno di salute e di comunicare, di
conoscere e di avere acqua e cibo di buona qualità; il bisogno di
abitare e di lavorare; il bisogno di sicurezza sul lavoro. Molti di
questi bisogni non richiedono merci o richiedono meno merci e meno
beni materiali o merci e beni diversi dagli attuali; altri, come la
ricerca del silenzio, della capacità di guardare il cielo, l’amore
e la dignità, sono addirittura sovversivi perché non richiedono
merci.
Il fatto curioso è che i
problemi che sto qui elencando non sono nuovi, ma rappresentano la
base dell’analisi della società fatta già nell’Ottocento da
anarco-socialisti come Tolstoi, Kropotkin o Thoreau (già ricordati),
da socialisti come Marx, Engels o Veblen.
Tutti questi autori, i
cui scritti sono stati lentamente nascosti, ridicolizzati e poi
dimenticati, descrivono con grande intuito i caratteri della società
capitalistica, così come si presenta ancora oggi, e suggeriscono i
rimedi. Ancora più curioso è il fatto che, dopo una breve fiammata
anarco-comunista negli anni sessanta, l’ambientalismo borghese ha
saldamente rifiutato il socialismo e il comunismo come soluzioni. Ciò
è stato dovuto alla cattiva gestione del socialismo fatta nei paesi
comunisti — nell’Urss e nei suoi satelliti europei, ma anche in
Cina e nei paesi comunisti del sud-est asiatico — per cui, come
dimostra il successo editoriale de Il libro nero del comunismo,
è ora facile alle forze borghesi identificare il comunismo con le
repressioni e nessuna analisi viene fatta di come sono stati trattati
i problemi dell’ambiente e della natura nei paesi comunisti nel
corso di quasi un secolo.
Negli anni settanta del
Novecento le prime associazioni ambientaliste borghesi con grande
cura hanno ridicolizzato Marx ed Engels accusandoli di essere
“industrialisti”, di non aver capito l’ecologia. All’infuori
di poche voci — ho già citato il libro di Dario Paccino —
l’analisi marxiana della società capitalistica è stata rifiutata
o accantonata. Fino ai trionfali giorni di oggi, in cui gli scritti
dei padri del marxismo sono stati sepolti e perfino molti giovani
militanti ecologisti o “di sinistra” non li hanno mai letti.
In questa breve
esposizione voglio sostenere che non solo i rapporti fra gli esseri
umani e le risorse naturali erano stati ben presenti in Marx ed
Engels, ma che essi avevano anticipato e descritto il meccanismo con
cui il capitalismo aveva e avrebbe asservito all’universo dei
consumi tutti i popoli e tutta la natura.
E inoltre che l’analisi
del pensiero marxiano mostra che una soluzione dei rapporti fra
esseri umani, e degli esseri umani con le risorse scarse
dell’ambiente, può essere cercata soltanto in una soluzione
comunista dei rapporti di proprietà dei beni, in una pianificazione
delle merci, in una più equa distribuzione dei beni materiali fra i
diversi popoli e in un rigetto dell’imperialismo come strumento per
approvvigionarsi dei mezzi fisici con cui soddisfare i bisogni
materiali degli abitanti di ciascun paese.
Questo breve contributo
si può pensare come una anticipazione di un capitolo di un possibile
futuro Libro nero del capitalismo in grado di illustrare che,
fra i crimini del capitalismo, i reati contro le risorse naturali,
contro l’ambiente e contro i lavoratori addetti alla produzione
delle merci, hanno un ruolo importante. I pericoli di una analisi “di
sinistra” dell’ecologia, del resto, furono capiti subito dal
potere economico capitalista, ben conscio che le proposte di
cambiamento avanzate dal “movimento ecologico” (preferisco questo
aggettivo a quello di ecologista o ambientalista o verde), avrebbero
comportato mutamenti nei modi di produzione e nei modelli di consumo,
avrebbero richiesto nuovi processi, nuovi depuratori, e quindi costi
per le imprese, maggiori vincoli all’uso del territorio e quindi
minori profitti.
E il potere economico non
fece fatica — come aveva sempre fatto — a trovare, grazie al
ricatto occupazionale, la solidarietà dei lavoratori: se si fosse
dato retta alle ubbie degli “ecologisti” le imprese avrebbero
dovuto licenziare gli operai, ci sarebbe stata una ondata di
miseria. L’occupazione — fu chiaramente spiegato — avrebbe
potuto essere assicurata soltanto dall’espansione della produzione
e dei consumi, poco contava se accompagnati da disastri ambientali
che potevano stare a cuore a chi aveva già lavoro e pancia piena.
In questa sua campagna
il potere economico ebbe il sostegno e la complicità di numerosi
“scienziati”, degni nipotini di quel dottor Andrew Ure
(1778-1857), ricordato con ironia da Marx e da Engels, che nel suo
libro La filosofia delle manifatture (1835) contestava le
proposte di riduzione dell’orario di lavoro dei ragazzi,
dimostrando “scientificamente” che i bambini che lavoravano
dodici ore al giorno nelle filande stavano meglio di salute ed erano
più alti di statura dei loro ragazzacci coetanei che “perdevano
tempo” a giocare e a non far nulla o ad andare a scuola !
Alla freddezza della
sinistra e dei sindacati nei confronti dell'“ecologia”,
considerata un lusso borghese, alcuni, nelle frazioni moderate delle
associazioni ambientaliste, replicarono che non c’era da
meravigliarsi di questo attacco da sinistra, dal momento che, essi
sostenevano, la cultura dell’ambiente e della conservazione della
natura era estranea alla cultura socialista e comunista, che Marx ed
Engels parlavano solo di espansione della produzione e non si sono
mai occupati di ecologia. Del resto non era stato Lenin a spiegare
che il comunismo consisteva nei soviet e nell’elettrificazione ?
Una svolta verso la
comprensione e la diffusione popolare del pensiero di Marx ed Engels
sull’ecologia, o, meglio, sui rapporti uomo-natura, si è avuta nel
novembre 1971 quando l’Istituto Gramsci organizzò a Frattocchie un
seminario sul tema: “Uomo natura società“, il titolo del volume
degli atti pubblicato pochi mesi dopo dagli Editori Riuniti. Una
delle relazioni fondamentali fu quella del prof. Prestipino che
ampliò poi l’argomento nel suo libro: Natura e società.
In piedi Friedrich Engels e Karl Marx Sedute Jenny, laura ed Eleonor Marx |
Non è possibile in
breve spazio ricostruire i rapporti fra uomo e natura in Marx ed
Engels, esaminare le decine di pubblicazioni sull’argomento,
apparse a partire dai primissimi anni settanta del Novecento: una
vera età dell’oro della riscoperta “ecologica” dei due grandi
pensatori del comunismo. Del resto l’interesse di Marx (1818-1883)
ed Engels (1820-1895) per i rapporti fra gli esseri umani —
l'”uomo” — e la natura non avrebbe dovuto meravigliare.
Entrambi sono figli dell’Ottocento e sono stati contemporanei dei
grandi naturalisti: Liebig, Darwin, Haeckel, che essi ricordano e
citano, di George Marsh (1801-1882), l’autore del celebre libro
Uomo e natura, di James Joule (1818-1889), di Lord Kelvin
(1824-1907), eccetera.
I manoscritti marxiani
del 1844 erano stati tradotti (da Galvano Della Volpe, Delio
Cantimori, Norberto Bobbio) e pubblicati in Italia fin dal 1947-50 ed
avevano giustamente sollevato l’interesse per le opere giovanili
di Marx; la traduzione italiana della Dialettica della natura di
Engels era in libreria fin dal 1971.
Nella sua analisi
giovanile (aveva 26 anni) dell’alienazione imposta dai rapporti
capitalistici di produzione agli esseri umani nei confronti del
lavoro e del mondo circostante — della “natura” — Marx scrive
(nel primo dei Manoscritti economico-filosofici del 1844):
“Le piante, gli
animali, le pietre, l’aria, la luce, eccetera costituiscono una
parte della vita umana e dell’umana attività. La natura è il
corpo inorganico dell’uomo, precisamente la natura in quanto non è
essa stessa corpo umano. Che l’uomo viva della natura vuol dire che
la natura è il suo corpo, con cui deve stare in costante rapporto
per non morire. Che la vita fisica e spirituale dell’uomo sia
congiunta con la natura, non significa altro che la natura è
congiunta con se stessa, perché l’uomo è una parte della natura”.
Il tema è ripreso da
Engels nel 1876, pochi anni dopo la pubblicazione dei libri di
Haeckel, nel saggio “Parte avuta dal lavoro nel processo di
umanizzazione della scimmia”, oggi compreso nella Dialettica
della natura.
“L’animale si limita
ad usufruire della natura esterna, ed apporta ad essa modificazioni
solo con la sua presenza; l’uomo la rende utilizzabile per i suoi
scopi modificandola: la domina. Questa è l’ultima, essenziale
differenza fra l’uomo e gli altri animali, ed è ancora una volta
il lavoro che opera questa differenza.
“Non aduliamoci troppo
tuttavia per la nostra vittoria sulla natura; la natura si vendica di
ogni nostra vittoria. Ogni vittoria ha, infatti, in prima istanza, le
conseguenze sulle quali avevamo fatto assegnamento; ma in seconda e
terza istanza ha effetti del tutto diversi, impreveduti, che troppo
spesso annullano a loro volta le prime conseguenze.
“Le popolazioni che
sradicavano i boschi in Mesopotamia, in Grecia, nell’Asia minore e
in altre regioni per procurarsi terreno coltivabile, non pensavano
che così facendo creavano le condizioni per l’attuale desolazione
di quelle regioni, in quanto sottraevano ad esse, estirpando i
boschi, i centri di raccolta e di deposito dell’umidità.
“Gli italiani della
regione alpina, nell’utilizzare sul versante sud gli abeti così
gelosamente protetti al versante nord, non immaginavano di sottrarre,
in questo modo, alle loro sorgenti alpine per la maggior parte
dell’anno, quell’acqua che tanto più impetuosamente quindi si
sarebbe precipitata in torrenti al piano durante l’epoca delle
piogge …”
Per inciso sarebbe
interessante sapere quanto Engels è stato influenzato, nello
scrivere, intorno al 1876, queste pagine, dal ricordato libro Man
and nature di Marsh, apparso, nella prima edizione pochi anni
prima, nel 1864, che era stato tradotto in russo nel 1866, aveva
avuto altre tre edizioni nel 1869, 1872 e 1874, poco prima quindi,
della redazione del passo di Engels citato.
E nella “Parte avuta
dal lavoro …”, Engels continua:
“Ad ogni passo ci
viene ricordato che noi non dominiamo la natura come un
conquistatore domina un popolo straniero soggiogato, che non la
dominiamo come chi è estraneo ad essa ma che noi le apparteniamo
con carne e sangue e cervello e viviamo nel suo grembo; tutto il
nostro dominio sulla natura consiste nella capacità, ch ci eleva
al di sopra delle altre creature, di conoscere le sue leggi e di
impiegarle nel modo più appropriato”.
E, ancora più avanti,
Engels continua:
“Il singolo
industriale o commerciante è soddisfatto se vede la merce fabbricata
o comprata con l’usuale profittarello e non lo preoccupa quello
che in seguito accadrà alla merce o al compratore.
“Lo stesso si dica per
gli effetti di tale attività sulla natura. Prendiamo il caso dei
piantatori spagnoli a Cuba, che bruciarono completamente i boschi sui
pendii e trovarono nella cenere concime sufficiente per una
generazione di piante di caffè altamente remunerative. Cosa
importava loro che dopo di ciò le piogge tropicali portassero via
l’ormai indifeso ‘humus’ e lasciassero dietro di sé nude rocce
?
“Nell’attuale modo di
produzione viene preso prevalentemente in considerazione, sia di
fronte alla natura che di fronte alla società, solo il primo, più
palpabile risultato. E poi ci si meraviglia ancora che gli effetti
più remoti delle attività rivolte ad un dato scopo siano
completamente diversi e per lo più portino allo scopo opposto.”
Viene da sorridere
pensando che avrebbe dovuto passare un secolo prima che il concetto
di previsione degli effetti ambientali della produzione e del
consumo delle merci — la cosiddetta “valutazione dell’impatto
ambientale” — entrasse nella legislazione dei paesi “evoluti”.
C’è una ricetta che
consenta di usare le ricchezze della natura per soddisfare bisogni
umani senza distruggerne le fonti e le radici ? Marx indica tale
ricetta nella socializzazione dei beni della natura, un problema che
affronta nella sesta sezione del III libro del Capitale:
“Dal punto di vista di
una più elevata formazione economica della società, la proprietà
privata del globo terrestre da parte di singoli individui apparirà
così assurda come la proprietà privata di un uomo da parte di un
altro uomo.
Anche un’intera
società, una nazione, e anche tutte le società di una stessa epoca
prese complessivamente non sono proprietarie della terra. Sono
soltanto i suoi possessori, i suoi usufruttuari e hanno il dovere di
tramandarla migliorata, come boni patres familias, alle
generazioni successive.”
Sono le stesse parole che
stanno alla base di tutti i tanto declamati discorsi sull’attenzione
che si deve prestare alle future generazioni e sui guasti ambientali
che ne possono compromettere le condizioni di salute e di vita; un
principio che non potrà fare un passo avanti fino a quando la
proprietà e lo sfruttamento individuale, privato, guidano le regole
economiche relative all’uso delle risorse naturali.
Fondamentale, al fine
della comprensione delle cause della violenza contro la natura, è
l’analisi marxiana del modo di produzione delle merci. Il celebre
capitolo XIII del I libro del Capitale, il capitolo che tratta
“le macchine”, spiega bene come il modo capitalistico di
produzione inevitabilmente comporti lo sfruttamento dei lavoratori,
la produzione di merci alterate e sofisticate, l’inquinamento
ambientale. Per forza il capitale deve produrre più merci al minimo
costo possibile: non certo per la maggior gloria della classe
lavoratrice, ma per assoggettarla e costringerla a vendere il proprio
lavoro.
Come la proprietà
privata condizioni non solo il lavoro, ma anche i bisogni umani, è
ben descritto nel terzo dei “Manoscritti” del 1844:
“Abbiamo visto quale
significato abbia, facendo l’ipotesi del socialismo, la ricchezza
dei bisogni umani, e quindi tanto un nuovo modo di produzione, quanto
anche un nuovo oggetto della produzione.
“Nell’ambito della
proprietà privata il significato è opposto. Ogni uomo s’ingegna
di procurare all’altro uomo un nuovo bisogno, per costringerlo ad
un nuovo sacrificio, per ridurlo ad una nuova dipendenza e spingerlo
ad un nuovo modo di godimento e quindi di rovina economica. Ognuno
cerca di creare al di sopra dell’altro una forza essenziale
estranea per trovarvi la soddisfazione del proprio bisogno egoistico.
“Con la massa degli
oggetti cresce quindi la sfera degli esseri estranei, ai quali l’uomo
è soggiogato, ed ogni nuovo prodotto è un nuovo potenziamento del
reciproco inganno e delle reciproche spogliazioni. L’uomo diventa
tanto più povero come uomo, ha tanto più bisogno del denaro, per
impadronirsi dell’essere ostile, e la potenza del suo denaro sta
giusto in proporzione inversa alla massa della produzione; in altre
parole, la sua miseria cresce nella misura in cui aumenta la
potenza del denaro. Perciò il bisogno del denaro è il vero bisogno
prodotto dall’economia politica, il solo bisogno che essa produce.”
La progettazione e
fabbricazione di merci ed oggetti adatti a risolvere problemi umani,
anziché ad assicurare profitti al capitale, richiede nuovi
indicatori del valore su cui Marx si sofferma a lungo. La salvezza
va cercata nella identificazione del valore d’uso delle merci,
contrapposto al valore di scambio, e Marx ricorda che “la natura è
la fonte dei valori d’uso (e in questi consiste la ricchezza
effettiva !)” (Critica del programma di Gotha, 1875) e parla
del valore d’uso ancora presente nei rifiuti della produzione,
ritrasformabili in nuovi elementi della produzione (sezione I del III
libro del “Capitale“).
Le pagine del quarto
paragrafo del capitolo 5 di tale sezione I, hanno una
sorprendente modernità:
“Per residui della
produzione intendiamo gli scarti dell’industria e
dell’agricoltura, per residui del consumo sia quelli derivanti dal
ricambio fisico umano sia le forme che gli oggetti d’uso assumono
dopo essere stati utilizzati.
“Sono quindi residui
della produzione, nell’industria chimica, i prodotti accessori che
vanno perduti, le limature che risultano dalla fabbricazione
meccanica, ecc. Residuo del consumo sono le secrezioni naturali
umane, i resti del vestiario in forma di stracci, ecc. I residui
del consumo sono di grandissima importanza per l’agricoltura. Ma
nella loro utilizzazione si verificano, in regime di economia
capitalistica, sprechi colossali; a Londra, per es., dello sterco
di 4 milioni e mezzo di esseri umani non si sa far di meglio che
impiegarlo con enormi spese per appestare il Tamigi”.
Tutto il paragrafo
continua esponendo le prospettive di produzione della lana dagli
stracci (già praticata in Inghilterra nella metà del 1800), la
produzione di coloranti dal catrame di carbon fossile. E anche in
questa parte Marx ripete che alla base degli sprechi, degli
inquinamenti, si trova il modo capitalistico di produzione.
In vari passi delle sue
opere Marx invita a cercare una soluzione alle distorsioni della
produzione nello studio della storia naturale delle merci, nella
storia della tecnica. In una lunga nota al 13 capitolo della IV
sezione del primo libro del Capitale Marx scrive:
“Una storia critica
della tecnologia … finora non esiste. Il Darwin ha diretto
l’interesse sulla storia della tecnologia naturale, cioè sulla
formazione degli organi vegetali e animali come strumenti di
produzione della vita delle piante e degli animali. Non merita eguale
attenzione la storia della formazione degli organi produttivi
dell’uomo sociale, base materiale di ogni organizzazione sociale
particolare ? … La tecnologia svela il comportamento attivo
dell’uomo verso la natura, l’immediato processo di produzione
della sua vita, e con essi anche l’immediato processo di
produzione dei suoi rapporti sociali vitali".
La violenza urbana
Sia Marx sia Engels
riconoscono, ancora una volta con visione molto moderna, nella
maniera di produzione capitalistica le cause della separazione fra
città e campagna, della violenza urbana. Engels già nel 1845 (ne
“La situazione della classe operaia in Inghilterra“) aveva
scritto:
“Anche la popolazione
viene accentrata, come il capitale; e ciò è naturale perché
nell’industria l’uomo, l’operaio, viene considerato soltanto
come una porzione del capitale che si mette a disposizione del
fabbricante e alla quale il fabbricante paga un interesse sotto
forma di salario. Il grande stabilimento industriale richiede molti
operai, che lavorano insieme in un solo edificio; essi devono
abitare insieme e là dove sorge una fabbrica di una certa grandezza,
formano già un villaggio".
E, più avanti (p. 57):
“Già il traffico delle
strade ha qualcosa di repellente, qualcosa contro cui la natura umana
si ribella. Le centinaia di migliaia di individui di tutte le classi
e di tutti i ceti si urtano … si passano accanto in fretta come
se non avessero niente in comune … La brutale indifferenza,
l’insensibile isolamento di ciascuno nel suo interesse personale,
emerge in modo tanto più repugnante ed offensivo quanto maggiore è
il numero di questi singoli individui che sono ammassati in uno
spazio ristretto".
Del resto contemporanee
al libro di Engels sono le descrizioni della drammatica situazione
ambientale delle città operaie inglesi fatta da Charles Dickens
(1812-1870) nell'Oliver Twist (1837-38), in Tempi difficili
(1854).
Nella IV sezione del I
libro del Capitale Marx spiega bene le conseguenze dell’esodo
delle popolazioni operaie nelle grandi città, destinate a
rappresentare un serbatoio di mano d’opera accessibile e sotto
mano per l’impresa capitalistica. “Il modo di produzione
capitalistica porta a compimento la rottura dell’originale vincolo
di parentela che legava agricoltura e manifatture nella loro forma
infantile e non sviluppata. Con la proporzione sempre crescente della
popolazione urbana che la produzione capitalistica accumula nei
grandi centri essa turba il ricambio organico fra uomo e
terra, ossia il ritorno alla terra degli elementi costitutivi della
terra consumati dall’uomo sotto forma di mezzi alimentari e di
vestiario, turba dunque l’eterna condizione di una durevole
fertilità del suolo. Così distrugge insieme la salute fisica degli
operai urbani e la vita intellettuale dell’operaio rurale …
Come nell’industria urbana, così nell’agricoltura moderna,
l’aumento della forza produttiva e la maggiore quantità d lavoro
resa … vengono pagate con la devastazione e l’ammorbamento
della stessa forza-lavoro".
Engels riprende il tema
del rapporto città-campagna nell'Antidühring del 1878: “La
città industriale — che è condizione fondamentale della
produzione capitalistica — trasforma qualsiasi acqua in fetido
liquido di scolo“.
E più avanti, nello
stesso libro, fornisce quasi una guida alla pianificazione
territoriale:
“Solo una società che
faccia ingranare armoniosamente le une nelle altre le sue forze
produttive secondo un solo grande piano, può permettere
all’industria di stabilirsi in tutto il paese con quella
dislocazione che è più appropriata al suo sviluppo e conservazione,
e rispettivamente all’utilizzazione degli altri elementi della
produzione. Solo con la fusione fra città e campagna può essere
eliminato l’attuale avvelenamento di acqua, aria e suolo, solo con
questa fusione le masse che oggi agonizzano nelle città saranno
messe in una condizione in cui i loro rifiuti siano adoperati per
produrre le piante e non le malattie. La civiltà ci ha senza dubbio
lasciato nelle grandi città un’eredità la cui eliminazione
costerà molto tempo e molta fatica.”
La cultura del
limite
Neanche i termini del
dibattito sui “limiti” allo sfruttamento delle risorse naturali e
della fertilità del suolo, erano estranei a Marx ed Engels. Del
resto il pericolo dell’esaurimento delle miniere di carbone inglesi
era stato trattato dal loro contemporaneo, già ricordato, W.S.
Jevons (1835-1882) nel celebre libro The coal question, del
1865. Ed era loro contemporaneo anche Justus Liebig che aveva gettato
le basi della teoria della nutrizione vegetale ed aveva spiegato le
ragioni per cui la fertilità di un terreno diminuisce, se esso è
sfruttato eccessivamente. Di Liebig (citando la settima edizione del
1862 della Die Chemie in ihrer Anwendung auf Agrikultur und
Physiologie) parla Marx nel 13° capitolo della IV sezione del I
libro del Capitale, precisando che “la spiegazione del lato
negativo dell’agricoltura moderna è uno dei meriti immortali”
del chimico tedesco. Più avanti, nella sezione 44 del terzo libro
del Capitale, Marx scrive ancora che, “per quanto riguarda
la produttività decrescente del terreno in successivi investimenti
di capitale si deve consultare Liebig“.
Come si vede, il tanto
citato e discusso libro sui Limiti alla crescita, con la sua
analisi dell’impoverimento delle risorse e del crescente
inquinamento come conseguenza della crescente produzione di merci e
dell’aumento della popolazione, non era poi una novità nel
pensiero economico e sociale.
Originale e ancora
attuale era anche la soluzione che Marx suggerisce al problema della
scarsità, alla fine del III libro del Capitale.
“La libertà può
consistere soltanto in ciò che l’uomo socializzato, cioè i
produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio
organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo,
invece di essere da esso dominati, come da una forza cieca; che essi
eseguono il loro compito con il minore possibile consumo di energia
e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne
di essa. [Qui comincia] il vero regno della libertà“.
Un altro interessante
punto su cui l’ambientalismo “borghese” ha attaccato “i
comunisti” per la loro presunta insensibilità ai problemi
ambientali riguardava quanto era successo e stava avvenendo nei paesi
socialisti, in particolare dell’Unione sovietica. Quante volte, nel
corso del dibattito ecologico, si è sentito dire che i comunisti
italiani non avrebbero mai potuto dare risposta alla protesta
ecologica perché il loro modello sovietico era quanto di più
antitetico si potesse immaginare.
Anche questa critica
derivava soltanto da mancanza di informazioni adeguate sulla storia
dell’Unione sovietica. E’ vero che, come ricordavo prima, Lenin
aveva scritto che il comunismo è basato sull’elettrificazione,
quindi sulle grandi opere pubbliche di dighe e centrali — molte con
effetti devastanti sugli equilibri ecologici e idrogeologici di vasti
territori — ma Lenin è stato anche quello che ha creato, in piena
guerra civile, nel 1919, quando era assediato dall’esercito bianco
ad Astrakan, il primo parco nazionale, quello del delta del Volga.
L’Urss ha subito
l’ombra del lisenkoismo, ma ha dato spazio e prestigio ad uno
scienziato di fama internazionale come Vernadsky — morto all’inizio
del 1945 — lo studioso che ha gettato le basi della conoscenza
della biosfera e della geochimica. Solo adesso si comincia ad avere
un quadro dello sviluppo delle scienze della natura nell’Urss
attraverso il contributo anche di studiosi occidentali.
E’ solo storia
del passato?
Anche se vasti settori
dell’opinione pubblica, con la radicale trasformazione dell’Unione
sovietica, con l’ondata di frenesia per il libero mercato che
invade il mondo, considerano definitivamente sepolti Marx e Engels e
la storia comunista, tuttavia vi sono ancora alcuni che si chiedono
se non sia il caso di rimettersi a leggere le loro opere per
riscoprire dimenticate fonti di ispirazione di comportamenti per un
diverso rapporto fra uomo e natura.
A molti appare chiaro che
non si può ridurre tutto a soldi, alle regole del profitto, che
esistono altri valori, fra cui la solidarietà, la libertà, la
bellezza, che non si possono esprimere con l’unità “denaro”;
che le regole della “economia” portano alla distruzione di
materiali, di monumenti naturali e umani, alla cui sopravvivenza è
legata la stessa sopravvivenza degli esseri umani, in quanto animali
speciali.
Davanti ad un
appiattimento della contestazione ecologica in Occidente sta,
fortunatamente, nascendo una nuova contestazione ecologica nel Sud
del mondo: spesso si tratta di “ecologia” pensata e fatta dalle
donne, una ecologia che cerca la soluzione delle attuali
contraddizioni nel socialismo. Questa ventata assume vari colori e
nomi, da “ecosocialismo”, a “ecomarxismo”, a movimenti di
liberazione contro il nuovo colonialismo portato non solo dalle armi,
ma dalle ferree leggi del mercato.
Le riviste, pubblicate
in vari paesi, ma direi meglio il “movimento”, che si richiamano
a “Capitalismo, natura, socialismo”, negli Stati uniti, in
Catalogna, in Italia, in Francia, eccetera, rappresentano
interessanti osservatori del fatto che Marx ed Engels, anche nel
campo dell’ecologia, hanno ancora molto da insegnare al mondo del
XXI secolo.
Si parla tanto, per
esempio, di una società del futuro “sostenibile”, capace di
soddisfare i bisogni umani dell’attuale generazione senza
compromettere il diritto delle future generazioni a soddisfare in
modo decente gli stessi bisogni, una società compatibile con i
problemi di scarsità delle risorse naturali, della capacità
dell’aria, delle acque, del suolo, di funzionare come ricettori dei
crescenti rifiuti della vita umana.
A parole, sembra che
l’edificazione di questa società “sostenibile” sia uno degli
imperativi delle azioni politiche nazionali e internazionali. Ma ad
una analisi più attenta appare che, per le leggi della fisica e
dell’ecologia citate all’inizio, una società sostenibile
(secondo la definizione precedente) o a “emissioni zero” è
fisicamente impossibile: al più si può cercare di realizzare una
società meno insostenibile dell’attuale.
A maggior ragione, sempre
per le leggi del capitalismo citate all’inizio, una società
capitalista e borghese, le regole del libero mercato, accelerano la
insostenibilità, la insopportabilità degli attuali modi di
produzione e di consumo da parte della natura, accelerano la violenza
e l’impoverimento delle riserve delle risorse naturali e l’avvio
verso conflitti per la conquista delle risorse naturali scarse. La
insostenibilità è infatti figlia dell’appropriazione privata dei
beni collettivi che sta alle basi del capitalismo e del libero
mercato.
Conclusione
La rilettura di Marx ed
Engels è particolarmente importante proprio in questo momento in cui
la favola della società informatica, virtuale, biotronica,
dematerializzata, sta staccando le masse dalla realtà delle cose
fisiche, naturali, materiali — dalla realtà delle pietre, delle
acque, delle piante e degli altri animali, in cui anche il movimento
ambientalista e “verde” è travolto dalla società delle
immagini, si presta a fare il consulente del principe, in cui le
forze fasciste e di destra organizzano le proprie associazioni
ambientaliste e la confusione è somma sotto il cielo.
E’ una vecchia favola
della destra far credere che al buio tutti i gatti siano grigi e che
tutti sono amici dell’ecologia. La salvezza va cercata riprendendo
il gusto di leggere e studiare le pagine dimenticate, a cominciare da
quelle di Marx ed Engels e Lenin, la storia dei paesi socialisti e
delle loro contraddizioni. Va cercata nel gusto di ricominciare a
guardare al futuro, che necessariamente non può essere quello della
pubblicità melensa e degli spot televisivi, ma quello della
conoscenza, della riappropriazione critica del lavoro, di una nuova
attitudine, di una austerità nei confronti dei consumi
indifferenziati, proposti come unici possibili dalla propaganda.
Occorre ricordare che le merci non sono neutrali.Oltre un secolo e
mezzo fa, nel febbraio 1848, Marx ed Engels pubblicarono a Londra il
celebre “Manifesto del partito comunista”; è vero che in esso
non si parla di ecologia, ma viene chiaramente indicato che il
capitalismo crea le condizioni per una comune rovina, ma anche per la
propria distruzione — e la violenza contro la natura e l’ambiente
è proprio una delle condizioni che distrugge la possibilità di
moltiplicare le merci di cui il capitalismo si nutre.
In Italia, dove questi
problemi sono tenuti accuratamente sotto controllo, con la droga
della pubblicità e della banalità, può essere utile che almeno
alcuni, delle giovani generazioni, ricomincino a leggere i classici
del marxismo, si informino sugli studi marxiani che fortunatamente,
continuano, anzi stanno risorgendo, nel mondo.
Così come due secoli fa
l’illuminazione a gas, figlia del capitalismo, offrì la luce nelle
stanze in cui i proletari potevano riunirsi e discutere e leggere,
oggi uno strumento come Internet, figlio supremo della tecnica
capitalistica, offre gli strumenti per la liberazione dal buio in cui
si è costretti dalla borghesia capitalistica e per unirsi, con
modesta spesa, a tanti altri che nel mondo analizzano le radici della
crisi e cercano le strade per uscirne.
Vorrei aggiungere una
considerazione che solo indirettamente ha a che fare con l’ecologia.
Si parla tanto di moltiplicazione della criminalità, cioè delle
azioni che assicurano denaro violando la legge. Ma in una società in
cui l’unico dio è il possesso del denaro, i mezzi criminali
rappresentano la strada più semplice e meno faticosa per procurarsi
tale denaro.
Nel momento in cui il
valore delle persone non fosse più misurato sulla base del possesso
delle merci, in cui cessasse la pubblicità che costringe,
soprattutto le classi più fragili, a sognare il possesso del denaro
e delle merci, in una tale società le motivazioni della criminalità
sarebbero grandemente ridotte. I problemi dell’ecologia mostrano
che, contrariamente a quanto sosteneva de Mandeville (1670-1733)
nella Favola delle api, i “vizi privati” dell’egoismo
generano non il progresso e i “pubblici benefici”, ma le
condizioni per una pubblica, continua e crescente catastrofe
ecologica e morale.
Dal sito del Pdci –
Marche, 2014
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