C'è una parola nel
secondo volume dell’epistolario di Samuel Beckett (The Letters
of Samuel Beckett. II. 1941—1956, pubblicato di recente da
Cambridge University Press, due anni dopo il primo, sotto la
brillante direzione di George Craig e altri) che riassume non solo il
senso di un periodo essenziale - quello tra il 1941 e il 1956 -, ma
di tutta un’opera: «indigence», in francese.
La bella parola di
origine latina compare in una lettera del 3 gennaio 1951, indirizzata
all’amico Georges Duthuit, critico d’arte, confidente e
corrispondente privilegiato. Con una lucidità e una chiarezza di cui
non sembra né capace né desideroso altrove Sam sta formulando
l’estetica di En attendant Godot, la sua nuova commedia: la
rappresentazione occorre che si sviluppi unicamente dalle parole;
anche il cielo, se pure c’è un cielo, va evocato dal testo, non
dall’allestimento teatrale. Scene, musica, fronzoli di qualunque
tipo, via. L’arte drammatica (ma alla fine ogni arte, perché non
esiste parentela tra le arti) deve fare da sola; o cade nella
trappola dell’inessenziale.
La mancanza -
l’«indigence», appunto - provoca una sorta di perfezione;
dà potere al poco e quel poco lo tramuta in un tutto. Un filo divide
la pienezza dal nulla, la vita dalla morte. Anzi, i due concetti si
compenetrano, escono dallo spazio matematico delle antitesi. Dunque,
c’è felicità nella rinuncia: quella del resistere,
dell'avvicinarsi al grado ultimo della capacità di essere; della
massima spoliazione.
Di povertà parlano anche
altre lettere, e non in termini di poetica. Indigente, infatti, è
oltre all’arte anche l’artista, il quale tenta di campare con i
magri proventi delle traduzioni e delle lezioni (a un certo punto
invoca Francesco d’Assisi, che della povertà fece un credo) e di
promuovere la sua letteratura nonostante lo scarso interesse di
critici ed editori; e sgobba fino a sfinirsi, fino a non aver niente
da dire. E poi, soprattutto nelle lettere del periodo intorno ai
romanzi della trilogia (a proposito, Einaudi ha appena ripubblicato
Malone muore, tradotto da Aldo Tagliaferri e prefato da
Gabriele Frasca), abbondano le riflessioni - diffìcili, rarefatte,
stupende - sull’assenza, su quel che non si ha la virtù di
toccare, sull’imprendibilità del tempo e dello spazio,
sull’evanescenza del conoscere e - questione
centrale - sulla rinuncia all’inglese, la lingua madre.
Queste lettere mostrano
che il Beckett uscito dalla guerra lavora, attraverso la scrittura
così come attraverso la lotta quotidiana per la sopravvivenza, alla
messa a fuoco definitiva di una visione incontestabilmente
anti-narcisistica; anti-biografica; addirittura anti-maschilistica. "Basta erezioni", dichiara al solito Duthuit. Nel nuovo sistema logico
dell’«indigence» anche il creare e il contrario dell’atto
procreativo significano lo stesso.
il Fatto Quotidiano, 16
dicembre 2011
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