C’è chi – dallo
scranno della presidenza del Consiglio e da pulpiti mediatici di
primo piano – afferma che la politica ha voltato pagina, che
l’etica è ritornata nell’amministrazione della cosa pubblica,
che i corrotti e i mafiosi saranno inesorabilmente rimossi e puniti e
che l’Italia può guardare con fiducia al futuro. Intanto non c’è
(quasi) amministrazione pubblica esente da scandali, gli arresti e le
incriminazioni di uomini politici e funzionari pubblici si susseguono
con cadenza quotidiana, Roma è identificata sempre più come
capitale della corruzione più che del Paese.
Chi ha responsabilità
politiche e di governo si affanna a dire che i colpevoli sono altri:
quelli che hanno governato prima, i politici della parte avversa, i
compagni di governo o di partito appartenenti a gruppi o cosche
diversi… A volte è così. Ma ciò non modifica la realtà e mostra
la strumentalità e l’ipocrisia delle affermazioni che parlano di
nuovo corso della politica. Almeno di quelle provenienti di chi è
partecipe (direttamente o indirettamente) del sistema di governo che
si perpetua da decenni con rinnovamenti di pura facciata. Sono
cambiate le parole, è vero. Ma non i fatti, i comportamenti, le
scelte. Non amiamo la demagogia e sappiamo che non ci sono bacchette
magiche e che i cambiamenti richiedono tempo. Ma sappiamo anche che i
processi positivi si attivano solo con gesti forti e coerenti. Ed è
proprio questo che manca.
Due esempi per
tutti.
Il 29 maggio scorso, due
giorni prima delle elezioni regionali, la Commissione antimafia rende
noto l’elenco dei candidati la cui presenza nelle liste è in
contrasto con il codice etico approvato il 25 settembre 2014 dalla
stessa Commissione, all’unanimità e con squilli di tromba sul
cambio di marcia nel risanamento della politica. Tra gli
“impresentabili” (come sono definiti dalla stampa i candidati non
in regola con il codice etico) c’è il candidato governatore della
Campania per il Partito democratico Vincenzo De Luca (già destinato
alla sospensione, una volta eletto, ai sensi della cd legge Severino
per avere riportato una condanna in primo grado). Le reazioni di De
Luca e dei dirigenti del suo partito sono rabbiose: il primo afferma
che l’unica impresentabile è la presidente della Commissione; i
secondi parlano di strumentalizzazione della funzione e di metodo
scorretto di lotta politica. Scendono in campo anche gli immancabili
costituzionalisti di riferimento sostenendo, ex cathedra, che
si è violato il diritto al contraddittorio. La cosa ha
dell’incredibile e dimostra in modo scolastico lo scarto tra le
parole (pronunciate all’atto della approvazione del codice etico) e
i comportamenti (seguiti alla applicazione dello stesso).
Che cosa è accaduto,
infatti? È accaduto che la Commissione antimafia ha segnalato che De
Luca è imputato avanti al Tribunale di Salerno per il delitto di
concussione continuata di cui agli articoli 110, 317 codice penale
(reato per cui c’è stata rinuncia alla prescrizione già
maturata). Ciò in applicazione degli articoli 1 e 4 del codice
etico, secondo cui “i partiti che aderiscono alle previsioni del
presente codice si impegnano a non presentare come candidati alle
elezioni coloro nei cui confronti, alla data di pubblicazione della
convocazione dei comizi elettorali, sia stato emesso il decreto che
dispone il giudizio allorquando le predette condizioni siano relative
[tra l’altro] al reato di concussione (art. 317 c.p.)” e “la
Commissione verifica che la composizione delle liste elettorali
corrisponda alle prescrizioni del codice”.
La pendenza del processo
penale è vera (anche se i più hanno preferito ignorarlo) e, dunque,
la segnalazione della Commissione antimafia era doverosa essendo di
tutta evidenza che la «verifica» ad essa demandata è finalizzata a
rendere pubbliche le circostanze accertate. Né è stato impedito il
contraddittorio: è il partito interessato, al contrario, che avrebbe
potuto e dovuto, all’atto della presentazione (e dunque senza
aspettare le verifiche della Commissione) “rendere pubbliche le
motivazioni della scelta di discostarsi dagli impegni assunti con
l’adesione al presente codice di autoregolamentazione”. La
conclusione è obbligata: ancora una volta le regole sono state
introdotte per fare bella figura e per non essere applicate, la
trasparenza è un inutile impaccio e chi la pratica è un
irresponsabile avversario politico. Per non dire delle
giustificazioni addotte ex post, secondo cui se fosse stato scartato
dal Pd De Luca si sarebbe candidato comunque e, in ogni caso, il
consenso degli elettori è un lavacro di ogni presunta
impresentabilità (sic!).
Qualche giorno dopo un
sottosegretario del Governo è raggiunto da una comunicazione
giudiziaria come indagato nell’ambito dell’inchiesta per la
sottrazione di ingenti fondi pubblici destinati al centro per i
rifugiati di Mineo (reato, inutile sottolinearlo, doppiamente
odioso). Il sottosegretario proclama la propria totale innocenza e il
presidente del Consiglio afferma solennemente, invocando i principi
del garantismo, che non possono essere dei semplici avvisi di reato a
imporre le dimissioni o l’allontanamento di un uomo di Governo.
Difficile comprendere cosa c’entra il garantismo, che è una regola
fondamentale del processo penale e non della politica, nella quale
vale (dovrebbe valere) piuttosto l’antico principio secondo cui non
solo Cesare ma finanche sua moglie deve esente da sospetti… Ma
facile cogliere che il “nuovo” può ben essere uguale al
“vecchio”, quando non peggiore.
da "Narcomafie - la rivista" - Luglio 2015
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