Da un ampio scritto di
Franco Fortini sulla memoria, attualissimo pur risalendo
al 1982, riprendo un brano che mi pare assai denso e profondo. (S.L.L.)
Anni fa, quando mi
chiedevo come fosse stato possibile che, nella prima metà degli anni
Trenta, dei genitori antifascisti fossero stati — non sempre ma
spesso — incapaci di spiegare ai loro figli adolescenti che cosa
era stato il regime prefascista (ed erano trascorsi poco più di
dieci anni dalla Marcia su Roma) lo attribuivo al desiderio di
rimuovere un passato sgradevole o di preservare i figli da possibili
rischi. Non mi rendevo conto che a quella rimozione si aggiungeva la
nostra complicità di adolescenti, un non voler saper la realtà in
termini adulti, dunque un rifiuto di crescere.
Sgomenta il peso delle
questioni che la nozione di memoria (storica e personale) porta alla
luce. Ad esempio, sono bastati gli ultimi sei o sette anni di
terrorismo, di politica della unità nazionale e di inflazione e di
scandali (aggiungi le interpretazioni dei maggiori eventi mondiali,
proposte dalle ideologie dominanti) perché interi blocchi di
problemi venissero rimossi e considerati inesistenti non pochi
sperimentati principi di interpretazione. (In simili operazioni di
sgombero quel che mi stupisce sempre è la fretta, la rozzezza e
l’eccesso di zelo.) Ecco perché è assolutamente impossibile,
oggi, trasmettere a chi ha diciotto anni una qualche verità non
convenzionale su quello che da loro dista appena un decennio (il
periodo 1962-1972), quando i loro padri, oggi smarriti o rassegnati
quarantenni, li issavano sulle spalle nelle manifestazioni per il
Vietnam. E di quella incapacità siamo colpiti noi medesimi che la
lamentiamo. Come mille volte è stato rappresentato dal teatro
comico, finiremo col credere che le cose siano andate in modo diverso
dal vero. E che altre siano state le nostre convinzioni da quelle
che, giuste o sbagliate, furono veramente.
Sappiamo come si fa a
dimenticare e a far dimenticare. Il controllo dell’oblio, ci
dice Le Goff, è uno dei più spietati strumenti del potere. Ne sanno
qualcosa anche gli odierni cittadini degli Imperi. L’interdetto
della memoria — questa affascinante istituzione che varia di età
in età e di tirannia in tirannia, fino a noi — non opera mai da
solo, ha bisogno di un’altra istituzione sorella, il cui nome
risale alla rivoluzione giacobina: l’amalgama. Con il
principio dell’amalgama, soprattutto se introdotto o coltivato
dalla legislazione, si possono estendere criminalizzazione e
ostracismo a strati sempre più vasti. L’importante è che, anche
se in minima misura, ognuno sia colpevole o colpevolizzabile; dunque
bisognoso di dichiararsi «uomo» di qualcuno, di chiedere una
qualsiasi protezione. Così si controlla il consenso (ma si rende
irriducibile il dissenso).
Questo processo di
asservimento, generalizzato mediante l’attenuazione, la dormienza o
la scomparsa delle garanzie giuridiche, non sarebbe possibile se non
ci fosse, come si è detto, l’oblio indotto, che appoggia e, come
può, fomenta la resistenza «naturale» del figlio a conoscere la
storia sua e dei suoi. Non è un caso che nelle grandi e vere
rivoluzioni padri e figli combattano fianco a fianco. Né che in
tanti miti la rivelazione della storia prenatale faccia scattare
nell’eroe il passaggio alla auto-coscienza e alla maturità. Negli
anni Sessanta i giovani rifiutarono le forme nelle quali i padri
avevano mummificata la resistenza e andarono a cercarsi altrove, in
Vietnam o a Cuba, una storia «paterna»; in Germania, il rifiuto dei
padri avvenne invece come scoperta dell’orrore nazista che quelli
avevano voluto seppellire nell’oblio. La sola veramente traumatica
è, sempre, la storia cui dobbiamo la nascita.
Da Perché non
vogliamo ricordare sul “Corriere
della Sera”, 24 febbraio 1982 poi in Insistenze,
Garzanti, 1985 - con il titolo
Il controllo dell'oblio.
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