È raro il caso di un
personaggio che ponga ai suoi contemporanei tanti imbarazzi nel
tesserne l'elogio, da far sembrar loro insufficiente qualsiasi
aggettivo. È ciò che capitò a Pico della Mirandola, fin dai suoi
primi esordi. A maggior ragione, dopo la sua morte, si coniarono per
lui le metafore più sublimi: lo chiamarono "fenice degli
ingegni" e "prodigio della natura", lo esaltarono come
un'autentica meraviglia del suo tempo. Ma anche nei secoli successivi
si continuò a celebrare il conte mirandolano (Giovanni Pico
discendeva da una famiglia di signori feudali di una piccola enclave
fra gli Stati di Mantova e Ferrara) come un vero e proprio mostro di
intelligenza e di sapere. Tanto che il suo nome finì col divenire
sinonimo di talento straordinario e di insaziabile curiosità
intellettuale, oltre che di una capacità mnemonica proverbiale. In
effetti, nel breve arco della sua esistenza (durata poco più di
trent'anni, fra il 1463 e il 1494), Pico non soltanto apprese le
lingue più diverse - dall' ebraica all' araba alla caldaica - e
riuscì a decifrare i misteri orfici e cabalistici, ma compì anche
eccellenti studi di lettere e diritto, discettò con autorevolezza di
filosofia e teologia e strinse legami con il cenacolo degli umanisti
più prestigiosi della sua epoca, da Marsilio Ficino al Poliziano, a
Lorenzo de' Medici (l'amicizia di quest'ultimo in particolare, detto
per inciso, valse a tirarlo fuori dai guai almeno un paio di volte:
quando venne catturato nel 1486 in fuga da Arezzo con l'amante, una
nobildonna sposata; e due anni dopo, allorché i fulmini della
condanna papale contro le sue tesi lo raggiunsero in terra di
Francia. In quest'ultima circostanza Lorenzo gli consentì di
riparare a Firenze, dove Pico avrebbe vissuto il resto dei suoi
giorni sotto la sua protezione).
C'era quindi una buona
dose di verità nel fulgente ritratto che di lui tramandarono, sino a
metà Ottocento, tanti scrittori e letterati. Ma c'era anche qualcosa
- quell'insistenza nel raffigurarlo come una specie di portento
eccezionale - che impediva di cogliere le fattezze specifiche e la
complessità del personaggio.
La critica successiva ha
lavorato molto a questa necessaria opera di cesello; ed in tempi
recenti, attraverso successive elaborazioni influenzate in parte
dall'idealismo, è giunta a scorgere in Pico uno dei rappresentanti
più tipici, se non il più eminente, del pensiero umanistico; quasi
il simbolo vivente dell'età rinascimentale. Gli scritti del
mirandolano sul libero arbitrio, lo scontro con le autorità
ecclesiastiche a proposito del suo programma dottrinale fortemente
sincretista bollato come eretico da Innocento VIII, e l'attacco da
lui sferrato contro l'astrologia (contro la possibilità di un
influsso incontrollabile degli astri sull'uomo), parvero altrettanti
elementi fondamentali per riconoscere a Pico non soltanto una visione
dell'uomo e della sua libertà intimamente connessa agli ideali del
Rinascimento, ma anche delle tendenze precorritrici, o delle felici
intuizioni, in ordine agli sviluppi del pensiero scientifico e della
secolarizzazione che, con l'individualismo, sarebbero poi stati all'
origine della civiltà moderna.
Questa lettura dell'opera
pichiana, oggi comune fra gli storici del Rinascimento, è largamente
tributaria a due studiosi illustri come Cassirer e Garin, e in
particolare a quest' ultimo, che nel 1937 pubblicò la prima
monografia critica su Giovanni Pico e che negli anni successivi
continuò a occuparsene nell'ambito dei suoi studi prediletti per il
mondo e la cultura dell' Umanesimo. Sarà perciò destinato ad
accendere i fuochi della polemica un saggio, ora tradotto anche in
Italia, di William G. Craven (Pico Della Mirandola, Il Mulino)
che propone una revisione radicale, da cima a fondo, delle
interpretazioni fin qui fornite dai maggiori specialisti. La tesi di
Craven (che insegna all'Università australiana di Canberra) è che
gli scritti di Pico non presentano una omogeneità e una coerenza
tali da configurare un sistema di pensiero unitario, e da autorizzare
comunque i propositi che gli sono stati attribuiti.
A suo giudizio, il
mirandolano non avrebbe affatto proposto una dottrina antropologica
diametralmente opposta a quella medievale, né la sua ricerca di una
conciliazione fra il cristianesimo e le altre religioni e le varie
filosofie sarebbe stata ispirata dalla benché minima intenzione
antidogmatica o sovvertitrice nei confronti dei canoni ecclesiastici
tradizionali. In altri termini, le idee di Pico sarebbero state
fraintese o travisate in base a un paradigma precostituito, ossia in
base a quello che gli storici intendevano trovare in lui, e non
invece a quanto egli disse effettivamente o pensava di dire. In
sostanza, secondo Craven, si sarebbe prestata fede finora a una
"segnaletica" errata, basata su idee e orientamenti
preconcetti; per imboccare la direzione giusta, quindi, occorre non
soltanto rimuovere quella segnaletica, ma capire anche come mai sia
stata messa nel punto sbagliato.
Ed è proprio questa la
duplice fatica cui l'autore si è sobbarcato lungo tutto il suo
saggio. Su una questione fondamentale Craven si sofferma in modo
particolare: quella dell'autonomia e della creatività umana. Egli
mette in dubbio che Pico - nell'Oratio de hominis dignitate
del 1486, uno dei testi più celebri del pensiero rinascimentale -
abbia rivendicato la centralità e la libertà dell'uomo da ogni
coazione e dipendenza esterna; sostiene invece che il mirandolano
altro non volesse dire se non che l'uomo è libero di scegliere nel
bene e nel male il livello della sua esistenza morale, con l'intento
di ammonire che l'uomo, anziché rispecchiare la grandezza di Dio,
può anche degradarsi al basso dell'animalità, a una condizione di
pura vita vegetale. Il suo apologo non avrebbe quindi nulla a che
vedere con la dottrina dell'uomo-Proteo, padrone auto-creativo del
mondo delle forme, ma si limiterebbe ad affermare un' idea
nient'affatto nuova o particolarmente audace, ossia che l'uomo si
eleva o si abbassa secondo il suo agire.
Il libro di Craven, a
dispetto del titolo, non è una biografia; ma non vuole essere
neppure, a detta dell'autore, un'esercitazione di iconoclastia
accademica, sebbene ne abbia tutta l'aria (giacchè all'opera di
demolizione non fa seguito un lavoro di ricostruzione sulla scorta di
un'ipotesi o di una interpretazione alternativa). Di certo si può
dire che Craven non ha la mano leggera quando paragona la sorte
capitata a Pico, per mano di alcuni suoi cultori, a quella delle
vittime di Procuste. C' è perciò più di un motivo perché si apra
un vero e proprio "caso storiografico", di quelli che non
si esauriscono in qualche schermaglia garbata.
“la Repubblica”, 30
gennaio 1985
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