Lucas Cranach il Vecchio,
«Ritratto di Martin Lutero in abito agostiniano», 1520,
Washington,
National Gallery of Art
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Perché la Chiesa era
corrotta. Questa l’immancabile risposta degli studenti alla domanda
sulle cause della fine dell’unità religiosa dell’Occidente. Un
luogo comune difficile da sfatare che deprimerebbe uno storico come
Roland Bainton e la selva di studiosi che hanno messo in guardia dal
raccontino che riduce la svolta vittoriosa di Lutero a una facile
reazione contro un clero simoniaco e concubino (come dire che quella
di Wittenberg fu una spallata non troppo robusta assestata a un
edificio di per sé pericolante). Il coraggio di un editore, che
sfida le attuali regole del mercato librario, permette ora al lettore
italiano di accedere alle mille pagine di un’opera che, c’è da
augurarselo, aiuterà a dissolvere un’immagine stantia di quel
rivolgimento di lunga durata, Riforma La divisione della casa
comune europea (1490-1700) (Carocci editore, premessa di Adriano
Prosperi, traduzione di Corradino Corradi, pp. 1023, € 80,00).
L’edizione originale di Riforma è apparsa nel 2003, quando,
sotto i fuochi della guerra in Iraq, un papa malato criticava il
ricorso alle armi, faceva i primi conti con la denuncia della
pedofilia del clero e chiedeva la costituzionalizzazione delle radici
cristiane del Vecchio Continente. Ed è opera di uno studioso che nel
2009 ci ha regalato una nuova ponderosa ricerca (History of
Christianity: The First Three Thousand Years. il titolo è un
programma). Si tratta di Diarmaid MacCulloch, storico e teologo che
insegna a Oxford e la cui biografia rivela tratti peculiari: mancato
pastore, proviene da una famiglia di chierici anglicani, è stato
allievo della più tradizionale scuola storiografica d’Oltremanica,
è organista e ha abbandonato il progetto di prendersi cura delle
anime per l’aperta militanza nel Gay Christian Movement. Il
libro dedicato alla Riforma rispecchia il carattere profondo delle
sue domande storiche e riflette le sue battaglie religiose.
Si tratta di un’opera
di impianto e di stile a prima vista tradizionali. Il racconto parte
con l’affresco della Chiesa d’Occidente all’inizio del
Cinquecento, prosegue con la crisi teologica che portò alla nascita
del cristianesimo luterano e di quelli riformati, fotografa
l’evoluzione delle diverse forme che la religione personale e
collettiva assunse fino alle soglie della piena modernità, riporta i
conflitti e i punti di convergenza che caratterizzarono un’Europa
ormai divisa sul piano politico e confessionale. La lettura è
piacevole perché la scrittura di MacCulloch, come la fede degli
anglicani, è «rispettosamente cinica e scrupolosamente
perseverante» (p. 28). La vastità delle informazioni, la precisione
del disegno si alternano così a gustosi aneddoti che non hanno nulla
di gratuito: se «l’appello alla rivolta sfociata nella Riforma
svizzera giunse per mezzo di una salsiccia» (Zwingli la mangia in
pubblico, ma spiega perché osservare l'astinenza sia superfluo),
l'attesa della fine del mondo, nel 1597, poté trovare conferma
nella pesca di “un'aringa portentosa” nei mari norvegesi, e
l'importanza attribuita alla messa esplicarsi nelle natiche medievali
di una figura inserita in un capitello che, sfrontato, rivolge le
terga all’altare (p. 34). Persino la pancia di Lutero, un tempo
segaligno, ha una storia, e cresce fino a esplodere, anche nelle
incisioni coeve, quando abbandona il celibato e si sposa con
Katharina Bora, che rimpinza lui e i suoi ospiti facendo del desco di
Martin la cornice dei Discorsi a tavola (p. 208). Lo stile
appunto è tradizionalmente britannico (diffidare delle itale
imitazioni), ma la sostanza è nuova. Riforma infatte include nella
storia dei movimenti evangelici quella della Chiesa papale pre e
postridentina, e non è cosa da poco. Perché se si parla della
divisione della casa europea senza concessioni alle antiche
controversie, si deve tenere conto dell’evoluzione della fede
cattolica, che uscì mutata dalla crisi teologica del secolo XVI (e
non era affatto in rovina quando apparve Lutero). Anzi, in un testo
dedicato allo sviluppo di ciò che indichiamo come protestantesimo,
si è sorpresi dal fatto che si parta dai diversi significati storici
dell’aggettivo ‘cattolico’: un dato che mette in luce
l’importanza che nel testo viene attribuita al linguaggio (lo nota
Prosperi nella prefazione all’edizione italiana).
MacCulloch fa sue le
novità della storiografia degli ultimi anni, che riconoscono al
processo di rinnovamento cattolico una peculiarità che il termine
‘Controriforma’ appiattiva, ma senza concessioni a mode
revisionistiche e a una certa nostalgia per la ‘comunità’ che
attirano alcuni storici in terra angloamericana (per inciso: la
bibliografia di cui si serve è quasi tutta in lingua inglese, e solo
eccezionalmente in castigliano, in italiano e in portoghese). Inoltre
l’autore, grazie soprattutto alla storia del cattolicesimo iberico,
riconosce la necessità di collocare la vicenda del cristianesimo
europeo in un contesto mondializzato, senza esaltare oltre il dovuto
i risultati delle missioni e, forse, con troppa indulgenza nei
riguardi della chiusura protestante verso i popoli nativi del Nord
America.
Attento al problema delle
immagini e al ruolo della musica (e qui si misura la distanza dalla
cultura italiana), MacCulloch ha il pregio di non riportare una
storia scritta con il senno di poi: fino al 1570 la frattura poteva
essere ricomposta; dopo fu il tempo delle chiusure dogmatiche
(luterane e cattoliche, soprattutto), delle guerre civili (Francia,
Paesi Bassi, e poi Impero e Inghilterra) e di quelle tra opposte
confessioni, con tanto di ritorno aggressivo del cattolicesimo nel
Centro Europa e di espansione di una sorta di «intemazionale
calvinista». L’autore, che non mostra troppa simpatia per Calvino
(e forse sorvola rapidamente sul sangue delle guerre di religione),
avverte tuttavia che il trionfo di Ginevra fu più lento di quanto
pensiamo e che le varie sfumature del calvinismo vanno rimarcate
quanto quelle dei cattolicesimi nazionali e dei gruppi radicali nati
dalla Rifoma. In ogni modo fino a metà Seicento i fedeli si
adattarono al credo e alla pratiche delle Chiese ufficiali del loro
territorio (cujus regio eius et religio) con una buona
disposizione che fu favorita da prassi disciplinari comuni alla
diverse obbedienze ma che non si può liquidare come semplice frutto
della coercizione o dei tribunali ecclesiastici, che pure agirono. E
tuttavia, se un difetto bisogna trovare in un libro tanto ricco, è
quello di sottovalutare il peso della politica nell’affermazione
della Riforma e nella riscossa cattolica (evidente nella Baviera).
Certo, la divisione europea fu il risultato di una crisi teologica;
ma il potere è più importante di quanto appaia a MacCulloch, che
ricorda, giustamente, come l’alleanza di Lutero con i principi
tedeschi si sia saldata sui cadaveri dei contadini sterminati perché
fosse chiaro che una reformatio cristiana era altra cosa da
una rivoluzione sociale.
Il fatto è che l’autore
privilegia una chiave interpretativa precisa: molte pagine, tra le
più originali, sono dedicate non alla Germania ma alla Polonia,
quello stesso paese, oggi più piccolo di quanto fosse nel Cinque e
Seicento, che siamo soliti ricordare per Radio Maryja e per un
cattolicesimo attivo e retrivo che ha dato i natali a un papa.
Ebbene, la grande Polonia, tra il XVI e il XVII secolo, ospitò un
laboratorio di fedi diverse ma capaci di convivere favorito da un
patto di potere che non ammetteva re autoritari. Cattolici,
ortodossi, antitrinitari, anabattisti, calvinisti, ebrei (la più
grande comunità d’Europa, come sapeva Hitler), vissero fianco a
fianco finché la Controriforma non liquidò un’esperienza plurale
che quasi non si ricorda. Ma plurali furono anche i lauti Paesi Bassi
rivoltatisi contro la Spagna, e la Gran Bretagna dopo Elisabetta I.
Quella Chiesa, che solo dal Seicento si può definire anglicana,
piace a MacCulloch non solo perché ne è un fedele critico, ma
perché non ha mai scelto se essere pienamente riformata o un po’
cattolica, privilegiando il rito e i comportamenti piuttosto che una
teologia dai contorni netti. E siccome Gran Bretagna (e Irlanda)
riversarono le loro forze religiose vittoriose e dissidenti in
America, è negli Stati Uniti che si rintraccia la vitalità di una
Riforma che in Europa appare defunta, stando ai numeri. La convivenza
di più ‘denominazioni' e l’importanza della fede nel Dio biblico
nel discorso pubblico smentiscono la tesi di una secolarizzazione
ineluttabile in tutto il mondo occidentale, scrive MacCulloch, che
rintraccia nell’idea di alleanza di Bullinger, dei riformatori, dei
padri emigrati e di Welsey l’origine di un rapporto tra politica e
religione che valuta in modo ottimistico. Le Chiese pentecostali sono
davvero eredi della libertà del cristiano? L’attentato di Tucson,
l’aria di famiglia degli evangelici con certe posizioni del
cattolicesimo conservatore bastano a smentirlo.
Con un vero e proprio
libro nel libro, MacCulloch abbandona poi il racconto cronologico per
regalarci, nei capitoli finali, una mappa delle trasformazioni che
hanno reso l’Europa quel che è stata fino al Novecento. Non gli
importano le domande classiche di Weber sul rapporto
religione-modernità o calvinismo-capitalismo (a cui pure dedica un
passaggio). Gli importa descrivere come, dopo la Riforma, e in modo
spesso comune tra le diverse confessioni, sono cambiati riti e
liturgie, le famiglia e il ruolo delle donne, il modo di
rappresentare l’aldilà e di seppellire, la crudeltà verso le
streghe e le minoranze, il rapporto con la Bibbia e con la lettura,
gli inni e gli edifìci sacri. E qui si misurano pure le differenze
tra accedere o non accedere al testo sacro in volgare, tra un
inginocchiatoio calvinista e un confessionale, tra il sesso prima e
dopo Lutero. Qui si misura il mondo che abbiamo perduto, quello in
cui la fede era un fatto sociale, al di là di ogni rivendicazione
odierna in chiave identitaria delle radici cristiane europee. Qui si
misura quanto la storia dell’omosessualità, che riemerge dalle
tenebre dei secoli della Riforma, sia importante, e non solo per
MacCulloch, che con la reazione delle Chiese verso i gay misura le
nuove fratture tra i cristiani (p. 889). L’autore si diverte a
imporre Youtingai personaggi del passato (svelando le passioni
maschili di Erasmo, Bè-ze, Enrico III, Giacomo I), racconta
dell’omofobia clericale e di quella protestante, ma soprattutto
osserva come la pratica della sodomia con un compagno più giovane,
con o senza trasporto (più spesso senza) fosse l’ovvia (e talvolta
violenta) valvola di sfogo (solo maschile) per regolare gli impulsi
sessuali prima di nozze tardive. Poi nacque la subcultura gay, dove
il pluralismo religioso e lo sviluppo lo permettevano (Amsterdam, la
Londra georgiana). Ma questa è una storia che si avvia a finire
anch’essa grazie a un’emancipazione che non ammette né derisione
né ghetti. Che anch’essa, come il capitalismo, sia frutto della
Riforma (nella sua accezione plurale)? MacCulloch vuole suggerircelo.
“alias il manifesto”,
15 gennaio 2011
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