C’è una poesia nel
terzo volume delle Opere di Leonardo Sciascia pubblicate nel
1991 da Bompiani che lo scrittore di Racalmuto dedica alla sua terra
e di cui vale la pena riprodurre qualche brano per un discorso
sull’isola. «Come Chagall - scrive Sciascia - vorrei cogliere
questa terra dentro l’immobile occhio del bue. Non un lento
carosello di immagini, una raggiera di nostalgie: soltanto queste
nuvole accagliate, i corvi che discendono lenti; e le stoppie
bruciate, i radi alberi che si incidono come filigrane». E ancora.
«Il silenzio è vorace sulle cose. S’incrina se il flauto di canna
tenta vena di suono: e una fonda paura di rama».
Vita e morte, insomma,
legate tra loro nelle sensazioni di chi vive in Sicilia. Potrei
continuare la citazione ma credo che il lettore possa coglierne il
sapore. La terra siciliana comunica a chi c’è nato, o a chi c’è
stato tante volte amandola e insieme avendone emozione, il senso di
un mistero e di un’attrazione sottile. La sua lunga storia, i
popoli che ci sono arrivati e poi rimasti per tanto tempo come gli
arabi, lasciandovi tracce importanti, i contrasti della sua natura
solare, i misteri che la circondano, sono tutti elementi che ne
aumentano il fascino e la seduzione.
Chi può dire perché,
proprio in quell’isola, la mafia sembra esser nata e cresciuta non
si sa ancora quando e perché tutti quelli che l’hanno combattuta
fino alla morte (o che l’hanno studiata per tanti anni o magari per
tutta la vita) hanno contratto un così forte rapporto con lei?
“l'Unità”, 9
dicembre 2009
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