26.7.15

Fuoriclasse. Giacinto Facchetti (Luigi Cavallaro)

E' probabile che il magistrato Luigi Cavallaro, collaboratore del “manifesto” su questioni di teoria economica e di sport, sia interista e che la sua rievocazione del terzino, occasionata dalla biografia scritta dal figlio, contenga qualche esagerazione dettata dal tifo, ma credo che Giacinto Facchetti resti per molti versi una figura importante, quasi esemplare, della tradizione calcistica italiana ormai in declino. (S.L.L.)

Fresco di vittoria del Bancarella Sport 2012, è davvero un bel libro quello che Gianfelice Facchetti ha scritto per ricordare suo padre Giacinto, che il 18 luglio scorso avrebbe compiuto 70 anni (Se no che gente saremmo. Giocare, resistere e altre cose imparate da mio padre Giacinto, Longanesi, ).
È un libro gentile, delicato, in cui le emozioni e i sentimenti, per quanto intensi, non sono mai gridati, ma solo dolcemente raccontati, non di rado ricorrendo alla grammatica della similitudine, della metafora: perché, anche se è vero che le parole non possono mutare la natura delle cose, non è meno vero che possono addolcirla. Se ne dovette accorgere anche il nonno di Gianfelice, Felice Facchetti, classe 1900, terzino sinistro ribattezzato «ammazzacristiani» per il suo modo di marcare, quando rimproverava il figlio agli esordi perché non era altrettanto deciso con gli avversari: «Entra più duro, Giacinto!», gli gridava, dimenticando che se uno chiama un figlio col nome di un fiore non può poi chiedergli di rompere le caviglie all'avversario.
È un libro difficile da scrivere, perché racconta del passaggio di consegne insito nel rapporto tra un figlio e un padre. Ma è un libro che serve (e tanto anche) per ricostruire la straordinaria rivoluzione compiuta dal calciatore Facchetti. Perché per tutti noi appassionati di calcio fu questo, Giacinto Facchetti, prima d'ogni altra cosa: un calciatore rivoluzionario.
Proviamo a spiegarci. Quando arriva aMilano, nel 1960, sulla panchina nerazzurra siede già Helenio Herrera e la sua Inter, che non ha ancora vinto nulla, gioca come molte squadre italiane con il classico WM: 3 difensori marcano a uomo, 4 centrocampisti costruiscono la manovra, 3 attaccanti la finalizzano. Nonostante ne sbagli sistematicamente il cognome (lo chiama «Cipelletti»), il Mago intuisce subito le qualità del giovane terzino e decide di farlo esordire neanche ventenne contro la Roma, sul finire della stagione 1960-61. Una prestazione maiuscola contro l'uruguaiano Ghiggia e un gol col Napoli in casa la domenica successiva sembrano dargli ragione, ma in realtà il giovane gigante di Treviglio non si inserisce appieno nel disegno tattico dell'Inter e viene ripetutamente fischiato nella stagione successiva, mentre i nerazzurri concludono il campionato al 2° posto. Rispetto al 3° posto dell'anno prima è un progresso, ma Herrera capisce che non può bastare e decide di cambiare modulo, passando dal WM al catenaccio. L'operazione non è semplice. Il WM è organizzato intorno al quadrilatero di centrocampo, dove giocano un mediano incontrista, un mediano di raccordo, una mezzala e un regista; il catenaccio, invece, prevede 4 difensori, 3 centrocampisti e 3 attaccanti. Non si tratta, beninteso, di un 4-3-3 ante litteram: non solo perché i difensori marcano a uomo (il 2 sull'11, il 5 sul 9, il 3 sul 7), ma soprattutto perché non tutti sono disposti in linea. In linea giocano il terzino destro, lo stopper e il terzino sinistro, mentre alle loro spalle opera il libero, con il compito di recuperare e spazzar via tutti i palloni filtrati alle spalle dei difensori e/o all'occorrenza di raddoppiare la marcatura sugli attaccanti avversari. Ora, se ai 3 difensori del WM si vuole aggiungerne un quarto con funzioni di libero, bisogna stabilire a quale reparto sottrarlo e ridislocare conseguentemente l'intera squadra.
Ed è qui che entra in gioco la «variabile Facchetti». Dotato di una progressione formidabile (il suo primato personale sugli 80 metri è di 8”9, un decimo di secondo in meno di quello che allora è il record italiano) e di un tiro preciso e potente, Facchetti è capace all'occorrenza di proporsi come vero e proprio attaccante aggiunto. Di conseguenza, Herrera si trova nella condizione di poter rinunciare a un centrocampista (Picchi) per metterlo alle spalle dei difensori, e perfino di arretrare Suarez, perché grazie alle discese di Facchetti l'inferiorità numerica a centrocampo durante le ripartenze può essere facilmente recuperata con la scalata di un attaccante (si tratterà per lo più di Jair, ma talvolta anche di Mazzola), senza per ciò sottrarre efficacia al contropiede. Si spiega così quello che diventerà il peculiare movimento del terzino nerazzurro in strettissime marcature a uomo frustra sistematicamente il possesso avversario, costringendolo per lo più pervie orizzontali; recuperata palla, la squadra si distende immediatamente in avanti e, grazie all'incursione offensiva di Facchetti, si trova addirittura in superiorità numerica nelle corsie centrali, perché il tornante avversario dovrà pur sempre controllare Corso e la rigidità con cui vengono allora concepite le marcature rende improbabile che qualcun altro dei difensori avversari possa staccarsi dall'attaccante di riferimento per prendere in consegna il terzino nerazzurro. Che non a caso spesso segnerà dopo essersi ritrovato solo davanti al portiere. Ricorda Gianfelice che già nel 1963, in un'intervista concessa ad Antonio Ghirelli (siamo nella stagione della consacrazione ufficiale, che culminerà con lo scudetto), l'allora 21enne Facchetti si mostra affatto consapevole del suo ruolo di attaccante aggiunto e alla precisa domanda dell'intervistatore, che gli chiede se preferisca segnare o impedire agli avversari di far gol, risponde sorridendo e senza esitazione: «Segnare!».
Quell'anno i gol saranno 4, come l'anno dopo; nella stagione 1965-66 saranno addirittura 10, e a fine carriera ammonteranno a 59 in 476 gare di campionato (e a 79 nelle 728 gare disputate tra campionato, coppe e Nazionale). Numeri straordinari, se appena si pensa che un esterno difensivo moderno come Paolo Maldini ne ha segnati appena 33 in 902 gare ufficiali.
Helenio Herrera si è vantato spesso di aver inventato lui il catenaccio, prima ancora di Karl Rappan e Gipo Viani. Probabilmente esagerava, ma su un punto bisogna dargli ragione: nessuna delle squadre che adottò quel modulo riuscì mai a riproporre le dinamiche offensive della Grande Inter. «Ho messo Picchi a fare il libero, questo è vero», disse una volta il Mago, «ma non va dimenticato che avevo anche Facchetti, il primo terzino capace di segnare tanti gol quanti un attaccante». È perfino possibile che abbia ragione Andy Roxburgh (ora direttore della Football Development Commission dell'Uefa) a suggerire che, in realtà, «nessuno come Facchetti ha distrutto il catenaccio italiano»; è certo comunque che - per dirla ancora con Roxburgh - ci troviamo di fronte ad «uno di quei rari giocatori il cui talento e istinto hanno incoraggiato lo sviluppo di un nuovo tipo di gioco».
Non c'è da stupirsi se un sondaggio condotto lo scorso anno fra oltre 400.000 collezionisti delle figurine Panini l'abbia individuato come il terzino sinistro della squadra di calcio ideale degli ultimi 50 anni, insieme a campioni assai più vicini alla nostra contemporaneità come Baggio, Zidane o Del Piero: se la modernità nel calcio è la capacità di interpretare una pluralità di ruoli (di «fare le due fasi», come usa dire adesso: quella difensiva e quella offensiva), davvero Facchetti è stato il primo difensore moderno della storia del calcio italiano.
C'è un gol, fra tutti quelli della sua quasi ventennale carriera, che racconta al meglio la straordinaria qualità dei suoi inserimenti: è il terzo gol che l'Inter segna al Liverpool, il 12 maggio 1965, nella semifinale di ritorno a San Siro che fa da prologo alla vittoria della seconda Coppa dei Campioni. L'azione si sviluppa in 4 tocchi, da Picchi a Mazzola e quindi a Corso, che serve al limite dell'area inglese per l'accorrente Facchetti: gran destro e gol. Salvo che Picchi è sulla sua trequarti e Facchetti è poco più avanti a lui quando parte il primo passaggio per Mazzola, e da quel momento al tiro esploso dal terzino nerazzurro trascorrono appena 9 secondi, durante i quali egli percorre circa 70 metri di campo. Una progressione impressionante, specie considerando che arriva al 62', dopo oltre un'ora di strenua battaglia con i Reds, decisi logicamente a difendere fino all'ultimo il doppio vantaggio dell'andata. E che spinge il Times, il giorno dopo, a scriverne come di un gol «meritevole di vincere qualsiasi partita del mondo». Facchetti stesso lo ricorderà come il più bel gol della sua carriera, che chiuderà nel 1978, rinunciando alla convocazione in Nazionale per il Mondiale in Argentina. Giovanni Arpino, che ne aveva fatto il protagonista del suo romanzo Azzurro tenebra, scriverà in quel frangente di un gesto inusuale per «un popolo di disaffezionati, di renitenti, di protestatari, di gente che non si dimette mai, neppure quando sta per essere trascinata in tribunale».
È stato solo l'ultimo degli insegnamenti del calciatore Facchetti, la cui vicenda pubblica si concluderà di fatto il 12 maggio di 41 anni dopo, quando Gianfelice lo sentirà al telefono dall'ospedale di Treviglio «un po' sorpreso e spaventato, come chi a tutto pensa tranne che a qualcosa di estraneo nel proprio sangue». Di lì in poi, sino al 4 settembre dello stesso anno, saranno solo le «piccole immense cose» che possono accadere in una famiglia che assiste incredula al precipitare di una malattia rapida quanto era stato Giacinto sul campo di gioco. Restano giustamente nascoste dietro il nero su cui scorrono i titoli di coda.

“il manifesto”, ritaglio senza data, ma 2012

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