E' probabile che il
magistrato Luigi Cavallaro, collaboratore del “manifesto” su
questioni di teoria economica e di sport, sia interista e che la sua
rievocazione del terzino, occasionata dalla biografia scritta dal
figlio, contenga qualche esagerazione dettata dal tifo, ma credo che
Giacinto Facchetti resti per molti versi una figura importante, quasi
esemplare, della tradizione calcistica italiana ormai in declino. (S.L.L.)
Fresco di vittoria del
Bancarella Sport 2012, è davvero un bel libro quello che Gianfelice
Facchetti ha scritto per ricordare suo padre Giacinto, che il 18
luglio scorso avrebbe compiuto 70 anni (Se no che gente saremmo.
Giocare, resistere e altre cose imparate da mio padre Giacinto,
Longanesi, ).
È un libro gentile,
delicato, in cui le emozioni e i sentimenti, per quanto intensi, non
sono mai gridati, ma solo dolcemente raccontati, non di rado
ricorrendo alla grammatica della similitudine, della metafora:
perché, anche se è vero che le parole non possono mutare la natura
delle cose, non è meno vero che possono addolcirla. Se ne dovette
accorgere anche il nonno di Gianfelice, Felice Facchetti, classe
1900, terzino sinistro ribattezzato «ammazzacristiani» per il suo
modo di marcare, quando rimproverava il figlio agli esordi perché
non era altrettanto deciso con gli avversari: «Entra più duro,
Giacinto!», gli gridava, dimenticando che se uno chiama un figlio
col nome di un fiore non può poi chiedergli di rompere le caviglie
all'avversario.
È un libro difficile da
scrivere, perché racconta del passaggio di consegne insito nel
rapporto tra un figlio e un padre. Ma è un libro che serve (e tanto
anche) per ricostruire la straordinaria rivoluzione compiuta dal
calciatore Facchetti. Perché per tutti noi appassionati di calcio fu
questo, Giacinto Facchetti, prima d'ogni altra cosa: un calciatore
rivoluzionario.
Proviamo a spiegarci.
Quando arriva aMilano, nel 1960, sulla panchina nerazzurra siede già
Helenio Herrera e la sua Inter, che non ha ancora vinto nulla, gioca
come molte squadre italiane con il classico WM: 3 difensori marcano a
uomo, 4 centrocampisti costruiscono la manovra, 3 attaccanti la
finalizzano. Nonostante ne sbagli sistematicamente il cognome (lo
chiama «Cipelletti»), il Mago intuisce subito le qualità del
giovane terzino e decide di farlo esordire neanche ventenne contro la
Roma, sul finire della stagione 1960-61. Una prestazione maiuscola
contro l'uruguaiano Ghiggia e un gol col Napoli in casa la domenica
successiva sembrano dargli ragione, ma in realtà il giovane gigante
di Treviglio non si inserisce appieno nel disegno tattico dell'Inter
e viene ripetutamente fischiato nella stagione successiva, mentre i
nerazzurri concludono il campionato al 2° posto. Rispetto al 3°
posto dell'anno prima è un progresso, ma Herrera capisce che non può
bastare e decide di cambiare modulo, passando dal WM al catenaccio.
L'operazione non è semplice. Il WM è organizzato intorno al
quadrilatero di centrocampo, dove giocano un mediano incontrista, un
mediano di raccordo, una mezzala e un regista; il catenaccio, invece,
prevede 4 difensori, 3 centrocampisti e 3 attaccanti. Non si tratta,
beninteso, di un 4-3-3 ante litteram: non solo perché i difensori
marcano a uomo (il 2 sull'11, il 5 sul 9, il 3 sul 7), ma soprattutto
perché non tutti sono disposti in linea. In linea giocano il terzino
destro, lo stopper e il terzino sinistro, mentre alle loro spalle
opera il libero, con il compito di recuperare e spazzar via tutti i
palloni filtrati alle spalle dei difensori e/o all'occorrenza di
raddoppiare la marcatura sugli attaccanti avversari. Ora, se ai 3
difensori del WM si vuole aggiungerne un quarto con funzioni di
libero, bisogna stabilire a quale reparto sottrarlo e ridislocare
conseguentemente l'intera squadra.
Ed è qui che entra in
gioco la «variabile Facchetti». Dotato di una progressione
formidabile (il suo primato personale sugli 80 metri è di 8”9, un
decimo di secondo in meno di quello che allora è il record italiano)
e di un tiro preciso e potente, Facchetti è capace all'occorrenza di
proporsi come vero e proprio attaccante aggiunto. Di conseguenza,
Herrera si trova nella condizione di poter rinunciare a un
centrocampista (Picchi) per metterlo alle spalle dei difensori, e
perfino di arretrare Suarez, perché grazie alle discese di Facchetti
l'inferiorità numerica a centrocampo durante le ripartenze può
essere facilmente recuperata con la scalata di un attaccante (si
tratterà per lo più di Jair, ma talvolta anche di Mazzola), senza
per ciò sottrarre efficacia al contropiede. Si spiega così quello
che diventerà il peculiare movimento del terzino nerazzurro in
strettissime marcature a uomo frustra sistematicamente il possesso
avversario, costringendolo per lo più pervie orizzontali; recuperata
palla, la squadra si distende immediatamente in avanti e, grazie
all'incursione offensiva di Facchetti, si trova addirittura in
superiorità numerica nelle corsie centrali, perché il tornante
avversario dovrà pur sempre controllare Corso e la rigidità con cui
vengono allora concepite le marcature rende improbabile che qualcun
altro dei difensori avversari possa staccarsi dall'attaccante di
riferimento per prendere in consegna il terzino nerazzurro. Che non a
caso spesso segnerà dopo essersi ritrovato solo davanti al portiere.
Ricorda Gianfelice che già nel 1963, in un'intervista concessa ad
Antonio Ghirelli (siamo nella stagione della consacrazione ufficiale,
che culminerà con lo scudetto), l'allora 21enne Facchetti si mostra
affatto consapevole del suo ruolo di attaccante aggiunto e alla
precisa domanda dell'intervistatore, che gli chiede se preferisca
segnare o impedire agli avversari di far gol, risponde sorridendo e
senza esitazione: «Segnare!».
Quell'anno i gol saranno
4, come l'anno dopo; nella stagione 1965-66 saranno addirittura 10, e
a fine carriera ammonteranno a 59 in 476 gare di campionato (e a 79
nelle 728 gare disputate tra campionato, coppe e Nazionale). Numeri
straordinari, se appena si pensa che un esterno difensivo moderno
come Paolo Maldini ne ha segnati appena 33 in 902 gare ufficiali.
Helenio Herrera si è
vantato spesso di aver inventato lui il catenaccio, prima ancora di
Karl Rappan e Gipo Viani. Probabilmente esagerava, ma su un punto
bisogna dargli ragione: nessuna delle squadre che adottò quel modulo
riuscì mai a riproporre le dinamiche offensive della Grande Inter.
«Ho messo Picchi a fare il libero, questo è vero», disse una volta
il Mago, «ma non va dimenticato che avevo anche Facchetti, il primo
terzino capace di segnare tanti gol quanti un attaccante». È
perfino possibile che abbia ragione Andy Roxburgh (ora direttore
della Football Development Commission dell'Uefa) a suggerire che, in
realtà, «nessuno come Facchetti ha distrutto il catenaccio
italiano»; è certo comunque che - per dirla ancora con Roxburgh -
ci troviamo di fronte ad «uno di quei rari giocatori il cui talento
e istinto hanno incoraggiato lo sviluppo di un nuovo tipo di gioco».
Non c'è da stupirsi se
un sondaggio condotto lo scorso anno fra oltre 400.000 collezionisti
delle figurine Panini l'abbia individuato come il terzino sinistro
della squadra di calcio ideale degli ultimi 50 anni, insieme a
campioni assai più vicini alla nostra contemporaneità come Baggio,
Zidane o Del Piero: se la modernità nel calcio è la capacità di
interpretare una pluralità di ruoli (di «fare le due fasi», come
usa dire adesso: quella difensiva e quella offensiva), davvero
Facchetti è stato il primo difensore moderno della storia del calcio
italiano.
C'è un gol, fra tutti
quelli della sua quasi ventennale carriera, che racconta al meglio la
straordinaria qualità dei suoi inserimenti: è il terzo gol che
l'Inter segna al Liverpool, il 12 maggio 1965, nella semifinale di
ritorno a San Siro che fa da prologo alla vittoria della seconda
Coppa dei Campioni. L'azione si sviluppa in 4 tocchi, da Picchi a
Mazzola e quindi a Corso, che serve al limite dell'area inglese per
l'accorrente Facchetti: gran destro e gol. Salvo che Picchi è sulla
sua trequarti e Facchetti è poco più avanti a lui quando parte il
primo passaggio per Mazzola, e da quel momento al tiro esploso dal
terzino nerazzurro trascorrono appena 9 secondi, durante i quali egli
percorre circa 70 metri di campo. Una progressione impressionante,
specie considerando che arriva al 62', dopo oltre un'ora di strenua
battaglia con i Reds, decisi logicamente a difendere fino all'ultimo
il doppio vantaggio dell'andata. E che spinge il Times, il giorno
dopo, a scriverne come di un gol «meritevole di vincere qualsiasi
partita del mondo». Facchetti stesso lo ricorderà come il più bel
gol della sua carriera, che chiuderà nel 1978, rinunciando alla
convocazione in Nazionale per il Mondiale in Argentina. Giovanni
Arpino, che ne aveva fatto il protagonista del suo romanzo Azzurro
tenebra, scriverà in quel frangente di un gesto inusuale per «un
popolo di disaffezionati, di renitenti, di protestatari, di gente che
non si dimette mai, neppure quando sta per essere trascinata in
tribunale».
È stato solo l'ultimo
degli insegnamenti del calciatore Facchetti, la cui vicenda pubblica
si concluderà di fatto il 12 maggio di 41 anni dopo, quando
Gianfelice lo sentirà al telefono dall'ospedale di Treviglio «un
po' sorpreso e spaventato, come chi a tutto pensa tranne che a
qualcosa di estraneo nel proprio sangue». Di lì in poi, sino al 4
settembre dello stesso anno, saranno solo le «piccole immense cose»
che possono accadere in una famiglia che assiste incredula al
precipitare di una malattia rapida quanto era stato Giacinto sul
campo di gioco. Restano giustamente nascoste dietro il nero su cui
scorrono i titoli di coda.
“il
manifesto”, ritaglio senza data, ma 2012
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