“Fascio”, prima che Mussolini e i suoi la sporcassero, non era una brutta parola e, nel linguaggio politico, non era nemmeno una parola di destra. Era sinonimo di “unione”, di “lega”, di “associazione” e simili. La sua diffusione è legata a un grande movimento di rivolta e di rivendicazione sviluppatosi in Sicilia ad opera di organizzazioni politico-sindacali chiamate appunto Fasci dei lavoratori. Fu un moto di risonanza nazionale, perché portava alla luce una nuova umanità che chiedeva dignità, giuste retribuzioni, limiti allo sfruttamento del lavoro, diritti sociali e civili. La sua importanza stava anche nel collegamento che il movimento era riuscito a realizzare tra gruppi operai urbani (muratori, facchini ecc.), lavoratori delle campagne (braccianti e mezzadri), minatori delle zolfatare e delle cave. I suoi capi erano talora operai autodidatti, più spesso venivano dalla piccola borghesia vicina al mondo popolare: medici, maestri elementari, contabili, studenti che avevano interrotto gli studi.
I Fasci furono ufficialmente fondati il 1 maggio del 1891, a Catania, e guidati da Giuseppe de Felice Giuffrida. Il movimento crebbe tra il 1992 e il 1993. Il 20 gennaio 1893 a Caltavuturo (Pa) 500 contadini di ritorno dall'occupazione simbolica di terre di demanio vennero dispersi da soldati e carabinieri con i fucili e tredici manifestanti caddero vittime. Al massacro di Caltavuturo seguirono numerose manifestazioni di solidarietà in Sicilia e in Italia e il movimento si rafforzò anche con il sostegno del neonato partito socialista. L'apice fu raggiunto nell'autunno del 1893, quando i Fasci organizzarono scioperi in tutta l'isola, ottenendo in diverse località importanti concessioni contrattuali. Il governo Crispi scelse alla fine la via della dura repressione. All’inizio del 1994 le sezioni dei Fasci furono dichiarate fuorilegge e sciolte d’imperio, addirittura con un intervento militare. A giustificarlo si tirò in ballo addirittura una cospirazione internazionale che avrebbe incoraggiato e finanziato il movimento, guidata dalla Russia. Non ovviamente da quella di Lenin o di Stalin, ma quella degli zar. A Crispi e ai suoi propagandisti mancava evidentemente il senso del ridicolo.
Vi furono arresti in tutta l’isola e a giudicare i capi furono i tribunali militari. Il 30 maggio da Palermo giunsero le condanne più esemplari: Giuseppe de Felice Giuffrida a 18 anni di carcere, Rosario Bosco, Nicola Barbato e Bernardino Verro a 12 anni di carcere quali capi e responsabili dei Fasci siciliani.
Dei processati il più anziano era un medico di Piana dei Greci (oggi Piana degli Albanesi), Nicola Barbato. Aveva 38 anni e scelse di rinunciare alla difesa giuridica, pronunciando un’autodifesa che era un vero e proprio atto di accusa contro le classi dominanti. La pesante sentenza fece impressione e suscitò ben presto reazioni in Italia e in America. Un gruppo di studenti a Palermo si recò al teatro Bellini e chiese all’orchestra di eseguire l’inno di Garibaldi. E il teatro applaudì.
Vi furono sottoscrizioni a favore di Barbato nei luoghi più disparati, dall’Università di Bologna ad alcune fabbriche negli Stati Uniti. Per la liberazione dei condannati bisognò tuttavia attendere la disfatta della guerra coloniale ad Adua con la conseguente caduta di Crispi (1896). Il successivo Governo (di Rudinì) proclamò l’amnistia. L’impegno di Barbato come socialista e come organizzatore del movimento operaio continuò ininterrottamente, non solo in Sicilia, ma in Puglia, in Lombardia e perfino negli Usa, fino alla sua morte a Milano nel 1923. (S.L.L.)
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L’autodifesa di Nicola Barbato al processo di Palermo
Io, milite oscuro del socialismo, mi onoro di appartenere alla falange dei rivoluzionari, cioè, non credo che il fenomeno delle insurrezioni a mano armata possa evitarsi nella più grande e più umana delle rivoluzioni della mia specie. È impossibile predicare al povero l’amore pel ricco; il povero non vi ascolterebbe. Se il ricco è contro il povero, è naturale che il povero debba essere contro il ricco. Io non potevo predicare l’amore, perché non sarei stato ascoltato ed avrei quindi lasciato affrettare quello scoppio che io volevo allontanato. Allontanato e non congiurato; perché io ritengo che sia fatale l’esplosione. Non predicavo l’amore, dunque; ma non predicavo l’odio. Educavo. Persuadevo dolcemente i lavoratori morenti di fame che la colpa non è di alcuno; è del sistema… Perciò non ho predicato l’odio agli uomini ma la guerra al sistema. Certo la nostra propaganda è energica; fa rialzare la testa. “I contadini si lasciano crescere i baffi” – mi disse lamentandosi il delegato di polizia. È vero: essi hanno acquistato la coscienza di essere uomini. Non domandano più l’elemosina, chieggiono ciò che è diritto. La menzogna è svanita, è svanita la loro viltà; colla nostra propaganda s’innalzano… Il socialismo procede appunto perché non è sentimentalismo: è forza, è pratica. Esso si fonda sulle leggi economiche. E qualunque cosa si faccia da noi, la borghesia dovrebbe esserci grata. Noi rendiamo le forze sociali meno temibili, meno disastrose. Ma tutto questo oggi dalla classe dominante si ignora: ed essa, credendoci nemici, vuole schiacciarci. Così la borghesia fece ammannire dai suoi magistrati incoscienti questo processo. Davanti a voi abbiamo fornito i documenti e le prove della nostra innocenza; i miei compagni hanno creduto di dover sostenere la loro difesa giuridica; questo io non credo di fare. Non perché non abbia fiducia in voi, ma è il codice che non mi riguarda. Perciò non mi difendo. Voi dovete condannare: noi siamo gli elementi distruttori di istituzioni per voi sacre. Voi dove condannare: è logico, umano. Io renderò sempre omaggio alla vostra lealtà. Ma diremo agli amici che sono fuori: non domandate grazia, non domandate amnistia. La civiltà socialista non deve cominciare con un atto di viltà. Noi chiediamo la condanna, non chiediamo la pietà. Le vittime sono più utili alla causa santa di qualunque propaganda. Condannate!
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