14.3.10

1979. Sciascia in una assemblea studentesca. Nella Sicilia profonda.


Santo Stefano di Quisquina (Ag) - Il Santuario di Santa Rosalia

Walter Vecellio, su “Notizie Radicali”, l’organo telematico della galassia guidata da Bonino e Pannella, a 20 anni dalla morte, sta ripubblicando articoli, interviste, interventi noti e meno noti di Leonardo Sciascia, che fu deputato radicale. A puntate, dal 5 all’11 marzo, vi ha collocato il testo che qui riporto, a mio avviso molto bello. E’ la trascrizione sul quotidiano “L’Ora” del 9 maggio 1979, curata da Marcello Cimino, di una lunga conversazione con studentesse e studenti di un liceo sperimentale pedagogico e linguistico a Santo Stefano di Quisquina, nella Sicilia interna.
Vi si ritrovano non solo i tratti del grande scrittore di Racalmuto, ma anche i segni del tempo, un tempo di movimento e mutamento; vi si incontrano insegnanti sessantottini e sperimentatori, studenti curiosi e studiosi, assemblee scolastiche usate per confrontarsi e capire. C’erano già stati il 77 e il rapimento Moro, con la “solidarietà nazionale” il Pci di Berlinguer aveva mancato, anche per i suoi ritardi ed errori, l’occasione di una vera e grande riforma, e tuttavia i segni di un fermento che scuote le coscienze continuavano ad avvertirsi fin nella Sicilia più interna e, in apparenza, più chiusa. Il “grande freddo” degli anni Ottanta congelerà quelle speranze. Eppure da lì bisognerà prima o poi ripartire se si vuol cambiare in meglio, da quei ragazzi che alla cultura e alla politica rivolgevano, seri e perfino seriosi, domande come quelle che si possono leggere in questo testo.
Tra le riflessioni ad alta voce che Sciascia fa durante quella intensa assemblea notevoli mi sembrano soprattutto quelle sull’eresia, che dà titolo all’articolo, quelle sulla scuola e quelle sulla borghesia mafiosa, termine con il quale Sciascia non intende i mafiosi arricchitisi, ma tutta (o quasi) la classe dominante siciliana. Il termine era stato coniato da un altro eretico, il marxista eterodosso Mario Mineo, che ne aveva fatto la base della sua analisi delle strutture economiche e di potere nell’isola. Mario e Leonardo furono eletti consiglieri comunali di Palermo nel 1975: l’uno per “il manifesto”, l’altro per il Pci. Nelle lunghe e noiose attese e pause del Consiglio comunale di Palermo giocavano a carte. Poi nel 77 Sciascia si dimise. Pajetta ironizzerà sulle sue lamentele per il ritardo con cui iniziavano le riunioni consiliari:“Bastava arrivare due ore più tardi”.



Elogio dell’eresia
Ha parlato di scuola e di letteratura, dei suoi libri e di se stesso, di politica e delle BR, della Sicilia e di altro ancora. E’ stata un’inconsueta intervista in pubblico, un martellare di domande precise, aguzze, alcune provocatorie, rivolte a Leonardo Sciascia dagli alunni dell’Istituto Sperimentale di Santo Stefano, i quali lo avevano appositamente invitato nella loro scuola.
Il paese è al centro di una contrada montuosa, aspra, la cui principale risorsa è la pastorizia. Da Palermo ci si arriva dopo aver attraversato un altopiano disabitato all’apparenza, senza alberi né case, con segni di un’agricoltura ancora estensiva, povera.
A Santo Stefano c’è, resiste, una forte tradizione socialista. E’ il paese di Lorenzo Panepinto, uno dei martiri del riscatto contadino ucciso dalla mafia. Era un intellettuale, un maestro di scuola. La scuola sperimentale ne rievoca la memoria, con questi suoi insegnanti così eruditi e impegnati, i suoi ragazzi così seri, così sensibili ai problemi della loro terra.
“Stavamo preparando parole pompose e altisonanti per rivolgerle il nostro saluto”, ha detto una ragazza all’inizio dell’incontro con Sciascia, “quando ci siamo ricordati dei brividi che ognuno di noi avvertì nella schiena leggendo per la prima volta il libro Le parrocchie di Regalpetra. Ecco, subito trovato il terreno giusto dell’incontro con Sciascia scrittore, ma anche, prima che scrittore, maestro di scuola.
La scuola sperimentale è davvero sperimentale. Comprende un biennio inferiore e un biennio superiore di studi, a livello liceale per intenderci; ma con programmi e metodi diversi dalle altre scuole. Per averla a Santo Stefano e per difenderla, ci sono volute lotte, vere e proprie lotte popolari, fino allo sciopero dell’intera città. La volevano più legata a bisogni e problemi della zona, e cioè al diritto agricolo; invece il Ministero ha deciso che qui ci voleva l’indirizzo linguistico e pedagogico. E così è stato.
Della scuola e dell’utilizzazione dei libri di Sciascia in essa hanno parlato nei loro indirizzi di saluto all’ospite la professoressa Grazia Bullone, preside del liceo di Bivona, da cui dipende la scuola di Santo Stefano, il professore Stefano Centinaro, docente di lettere, la coordinatrice Carmela Caltagirone e la studentessa Giovanna Citarella. Poi è cominciata la straordinaria intervista. I ragazzi e le ragazze si alzavano ordinatamente uno a uno e ponevano le domande. Tutti gli altri (salone affollatissimo), ascoltavano attentissimi. Frequenti applausi contrassegnavano le risposte più significative. (Marcello Cimino)
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Prima di cominciare questo gioco di domande e risposte voglio dirvi che sono nato in linea d’aria a pochi chilometri da qui, eppure questa è una zona che non conosco. Ci sono passato solo una volta, tornando da Cianciana, dove ero andato a parlare di Alessio Di Giovanni. Bivona, per esempio, è per me un nome che mi ricorda i rapporti di Sant’Ignazio con il collegio dei gesuiti e le lettere che egli scrisse a una nobildonna di qui, riportate in un libro intitolato Sant’Ignazio e le donne. Bivona poi mi ricorda l’esistenza di una sott’intendenza, della sottoprefettura. E basta. Considerando che sono nato a pochi chilometri di qui, colpisce questo isolamento che c’è fra un comune e l’altro della stessa provincia. Inoltre questa è una zona in un certo senso letterariamente deserta. Un nostro professore abbastanza razzista, direi, ritiene che si possa fare una mappa dell’intelligenza sicula, e che questa zona ne sia deserta. Non è assolutamente vero. Io credo che qui ci siano delle condizioni che non hanno permesso all’intelligenza di svilupparsi, di fiorire. Effettivamente c’è un deserto. La sola cosa dopo Alessio Di Giovanni (poeta e dialettologo, nato a Cianciana nel 1873) che sia stata scritta su questa realtà, è quel bellissimo libro, veramente straordinario, di Giuliana Saladino, che spero tutti voi conosciate. Ecco, non ho altro da dire. Domandate ora quello che volete, molto liberamente, non considerando che fra noi ci sia distanza di anni, come invece purtroppo c’è.

Questi ragazzi che accedono a questa scuola sono un po’ perplessi: parlare di missione dell’educazione? E’ retorica o è vana poesia?
Parliamone come di un lavoro, è meglio.

Lei ha scritto:“Mi disgustano coloro che da fuori esaltano le gioie e i meriti di un simile lavoro (di insegnante). Qui e in molti luoghi della Sicilia è come il lavoro di un minatore che scende in una miniera. Non nego però che in altri luoghi e in diverse condizioni un po’ di soddisfazione potrei cavarla dal mestiere di insegnare”. Quali potrebbero essere questi altri luoghi e condizioni?
Questo brano ha una notazione personale perché riguarda un momento particolare della mia vita. Da noi, in questa nostra realtà, la cultura non è concepita come un fatto unitario, cioè come lavoro, come una cosa di cui tutti abbisogniamo, di cui ci serviamo, che serve per capire il mondo, per spiegarcelo, per capire la storia, la nostra situazione di fronte alla storia. La cultura è sempre stata concepita come un ornamento, come qualcosa che non ha niente a che fare con le condizioni di vita. Per me, quindi, entrare in una classe dove c’erano quaranta bambini, fra i quali almeno trenta avevano fame, e dover spiegare loro la storia, limitandomi però alla prima guerra mondiale, senza andare avanti perché si doveva parlare del passato solo in termini retorici, questo per me non solo era assurdo, ma anche un poco infame. Oggi le condizioni della scuola sono molto diverse. Si può dire che la scuola non esiste più, in un certo senso. E’ vero che qui, da voi, a Santo Stefano, avete un liceo a indirizzo linguistico e pedagogico. E l’agricoltura? E’ una cosa assurda che qui non esista un liceo con indirizzo agricolo. La scuola è un po’ come ai tempi miei, tutto sommato. E’ un piccolo ornamento. Allora diventa un po’ assurdo che voi stiate qui ad ascoltare l’insegnante che vi parla di linguistica, quando intorno a voi avete tanti problemi reali. Il mestiere di insegnare e anche il mestiere di apprendere in queste condizioni continua a essere assurdo.

Pensa che la scuola conservi ancora l’esclusività della formazione dei giovani?
No, e credo che non l’abbia mai avuta, tutto sommato. E oggi meno che mai.

In una scuola di massa, non ha più senso la vecchia maniera di considerare la letteratura come materia privilegiata. Quale indirizzo, secondo lei, dovrà seguire la letteratura per essere più utile?
La letteratura non ha nessun indirizzo da seguire. La letteratura soffia dove vuole. Non ci può essere un modo per incanalarla, di farla andare verso determinati risultati. L’esercizio della letteratura deve essere necessariamente libero. Il problema della letteratura è piuttosto il modo come nella scuola questa letteratura dovrà entrare. La nostra è una letteratura un po’ povera, anche una letteratura un po’ noiosa, quindi bisogna offrire una prospettiva che sia la più consona agli interessi – diciamo – della massa, anche se a me il termine massa non piace molto. La scuola di massa in Italia è un po’ così: tutti sul palcoscenico; la scuola di massa, invece, secondo me, dovrebbe dare a tutti in partenza le stesse condizioni favorevoli, e poi vadano avanti coloro che credono nella meritocrazia. Non sono un reazionario, ma credo che non si possa accedere alle professioni senza conoscenza. Magari un professore di lettere fa poco danno se confonde Petrarca con Boccaccio, ma le case si devono costruire, i ponti si devono fare, i malati bisogna assisterli, gli imputati bisogna difenderli, e ci vuole conoscenza, e chi non ce l’ha non deve esercitare una determinata professione.

Nell’introduzione al libro Le parrocchie di Regalpetra, lei fa quest’amara considerazione: “Chissà quando la meridiana della matrice segnerà l’ora di oggi, quella che per tanti uomini nel mondo è l’ora giusta”. Non crede che quest’ora sia già scoccata? Anche oggi partecipiamo al benessere. Nelle nostre case sono entrate televisioni, radio, frigoriferi, gli elettrodomestici che rendono la vita più facile. Ma lei ritiene un’ora giusta questa per la Sicilia?
Che il progresso materiale, che il cosiddetto benessere abbia raggiunto anche noi, su questo non c’è dubbio. Però non corrisponde a un’effettiva crescita del Meridione, anzi corrisponde una ulteriore degradazione. Questo benessere, automobili ed elettrodomestici, in Sicilia sono pagati da almeno 700 mila emigranti i quali vivono in condizioni ben peggiori di quanto non vivano le loro famiglie qui. No, io non credo che sia ancora l’ora giusta, anzi quello che accade in campo nazionale ritengo metta davanti a un aggravamento di quella che è stata definita la questione meridionale.

Nel libro Gli zii di Sicilia si legge: “…Io credo nei siciliani che parlano poco, che non si agitano, che si rodono dentro e soffrono”. Non crede che questo sia il segno della rassegnazione e della sconfitta nostra? Non bisognerebbe piuttosto manifestare questa sofferenza e il dolore dell’ingiustizia per affermare i valori di una società più umana?
C’è un tipo di siciliano molto estroverso, molto simpatico, molto avvocatesco, per così dire. Generalmente questo tipo di siciliano che parla troppo, è poi quello che accede, senza distinzione di partiti, alla carriera politica e quindi al parlamentarismo. Spesso sono i siciliani peggiori. Sì, certo, gli altri siciliani bisognerebbe che uscissero fuori dal loro silenzio, che però su un piano umano di giudizio, io dico che sono i migliori.

Si parla dello Sciascia de Il Contesto come di uno scrittore che incarna nel suo pensiero l’angoscia dell’uomo offeso da tempo nella sua libertà e dignità. Lei si riconosce in questo giudizio?
Sì, potrei riconoscermi in questo giudizio. Si parla di me come autore del Contesto perché questo è il libro che ha suscitato più polemiche, più risentimenti. Ma Il Contesto è il risultato di tutta una visione delle cose italiane.

Recentemente ha scritto sul “Giornale di Sicilia” e ha detto in un’intervista televisiva che la refrattarietà del popolo siciliano alle idee che cambiano il mondo e la carenza di spirito pubblico costituiscono il male peggiore della realtà siciliana. Potrebbe spiegarci le motivazioni storiche di questi difetti e dirci in che modo la scuola potrebbe contribuire al loro superamento?
Le radici storiche di questo sono abbastanza lunghe e molto ramificate. Comunque si possono identificare nella perpetua insicurezza del siciliano di fronte alla storia, in quest’isola che è stata al tempo stesso isola eppure aperta come continente alle invasioni, a tutte le dominazioni. Comunque, in noi siciliani, persiste una mancanza di speranza, una diffidenza verso le idee perché le idee, anche quelle che apparivano nuove, subito sono diventate strumento di una certa classe sociale che grosso modo possiamo qualificare come borghese-mafiosa, non borghese. Io mi augurerei che in Sicilia ci fosse una borghesia. E’ una borghesia mafiosa, quella siciliana, anche là dove non sembra. Una borghesia che opera senza una visione del domani, a sfruttare determinate situazioni così come un tempo si diceva delle zolfatare: a rapina. Lo sfruttamento a rapina delle zolfatare era quello degli esercenti che si preoccupavano di cavare quanto più materia era possibile, senza curarsi dell’avvenire della zolfatara stessa, né della sicurezza di chi vi lavorava, Ora questa classe sembra inamovibile. Successa alla aristocrazia, essa si è comportata, anche grossolanamente, come l’aristocrazia. Per questo i siciliani non credono più alle idee. E infatti, quando cominciano a crederci, ecco interviene qualcosa per cui non ci crederanno più. Per esempio l’operazione Milazzo – è un giudizio per cui io mi batto da sempre – è stato un modo per ricacciare i siciliani nella sfiducia verso le idee.

Che fra Diego La Mattina sia stato un eretico non c’è dubbio. Lei può darci ulteriori chiarimenti riguardo alla sua eresia? Ha scoperto qualcosa di nuovo? Chiarimenti che possano farci capire perché fra Diego sia rimasto fermo nel suo tenace concetto tenendo alta la dignità dell’uomo?
No, non ho altre notizie, oltre a quelle trovate allora su frate Diego La Mattina. Ho tentato delle deduzioni. Ho pensato che fosse un’eresia di carattere sociale più che teologico, ma non sono andato oltre. Comunque l’eresia è di per sé una grande cosa, e colui che difende la propria eresia è sempre un uomo che tiene alta la dignità dell’uomo. Bisogna essere eretici, rischiare di essere eretici, se no è finita. Voi avete visto che non è stata soltanto la Chiesa cattolica ad avere paura delle eresie. E’ stato anche il Partito Comunista dell’Urss ad avere paura dell’eresia, e c’è sempre nel potere che si costituisce in fanatismo questa paura dell’eresia. Allora ogni uomo, ognuno di noi, per essere libero, per essere fedele alla propria dignità, deve essere sempre un eretico.

Vorrei sapere che analogia c’è tra lei, scrittore contemporaneo, e i suoi personaggi storici, come il Di Blasi, o il fra Diego La Mattina, da lei attentamente cercati.
Le analogie forse ci sono, ma per me è più facile parlare della simpatia, che io ho sempre avuto, per questi personaggi eretici, ribelli, sconfitti. In un certo senso è la loro sconfitta quella che mi ha arrovellato. Perché vorrei non essere sconfitto anch’io. Cioè non vorrei che la Sicilia fosse sempre sconfitta, che nella Sicilia la ragione debba essere sempre soccombere. Da ciò la mia simpatia per questi personaggi. Ma ho avuto simpatia anche per un personaggio che un tempo si sarebbe detto negativo, l’abate Vella che era un falsario, un imbroglione. A parte la simpatia umana che si può avere per lui, lo riconosco come uno che a suo modo ha pensato di ribellarsi contro il privilegio. Ha fatto dei falsi per rivendicare alla Sicilia i suoi diritti contro il potere baronale. Ecco, la mia simpatia viene da questo, dal fatto che è stato uno strumento di lotta contro il potere baronale. Tutti i guai della Sicilia – lo ripeto – prendono inizio dal potere baronale che si è poi trasmesso a quella classe che io chiamo borghese-mafiosa.

Vorremmo sapere in quale libro e in quale personaggio lei è stato il più autobiografico.
Il “Candido”.

Che cosa è cambiato nella mafia siciliana dagli anni ’50 a oggi?
La mafia da fenomeno rurale è diventata fenomeno cittadino e parapolitico; si è trattato di una specie di integrazione nel potere. La mafia non è più apparentemente riconoscibile come un tempo. Personaggi pittoreschi sono stati eliminati, e in questo ha avuto la sua funzione la Commissione Antimafia, appunto eliminando le frange pittoresche della mafia e portandola un po’ più dentro il potere.
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Lei con il suoi libri ha scritto tanto di fatti e personaggi siciliani. Quale contributo potrebbe dare al rinnovamento della cultura, e quindi della società civile, la riscoperta delle culture locali?
Credo che la riscoperta delle culture locali sia un’operazione da fare seriamente. Purtroppo nelle nostre Università è entrato, per esempio, lo strutturalismo, una cosa che funziona pressappoco come l’affettatrice della mortadella, e allora le culture locali si perdono di vista. Tutto quello che si è conservatosi deve a quei poveri galantuomini che senza registratori, senza questi mezzi di oggi, hanno raccolto una messe ingentissima di tradizioni, di usi, di letteratura popolare. Parlo di Pitré, di Salomone Marino, di Gaetano Di Giovanni. Ora nell’Università si vive di rendita su quello che hanno fatto costoro. Se invece si lavorasse seriamente, questo è il momento della riscoperta delle culture locali. In un certo senso io mi sento uno che riscopre le culture locali.

Tanta cultura si proclama popolare ma l’intellettuale appartiene ancora a una casta, il che lo pone al di fuori e al di sopra della gente comune. No?
Ciò dipende dal carattere della cultura italiana. Per cominciare, dal fatto che c’è un diaframma tra la lingua di ogni giorno e la lingua di uno scrittore. C’è anche il costume dell’intellettuale che è sempre un po’ cortigiano, un po’ conformista, che è quasi sempre col potere. Senza dubbio c’è anche questo, però è pure vero che per esempio il diaframma tra la lingua di tutti i giorni e quella degli scrittori è stato superato, è stato rotto da uno scrittore come Pirandello. Non da Verga, il quale forse questo diagramma l’ha un po’ alimentato. Ma scrittori come Pirandello, cui seguono scrittori come Moravia, credo abbiano rotto questo diaframma. Penso anche che lo scrittore italiano sia un po’ mutato. Certo, c’è ancora il vizio dei manifesti, delle dichiarazioni, come se lo scrittore effettivamente contasse, mentre invece non conta un granché. Io personalmente credo di aver tentato di scrivere per più persone possibile. Non dico che l’abbia fatto volontariamente, perché è un’ipocrisia dire che lo scrittore scrive per essere inteso dal contadino e dall’operaio. Lo scrittore scrive per se stesso, e per gli altri se stessi. In me c’è quest’essere popolo, questo essere della vita di ogni giorno, a contatto con la realtà, e in questo senso credo di essere uno scrittore un po’ diverso dalla media italiana, e, come me, altri.

Nelle Parrocchie di Regalpetra ho letto che per lei la pietà è un terribile sentimento. Un uomo deve amare e odiare, mai avere pietà. Questa affermazione non sovverte le basi su cui si basa tanta morale?
Alla fine del fascismo io ho avuto un certo movimento di pietà, di cui però negli anni successivi mi sono pentito, perché ho visto il fascismo tornare, essere più forte, come forse ancora è. E allora ho fatto questa ritrattazione riguardo alla pietà. Ora debbo dire schiettamente che in questo momento mi sento pieno di pietà.

Quali sono gli scrittori contemporanei che preferisce?
Calvino innanzitutto. Poi Moravia, Gadda. Poi vi sono tanti altri scrittori che amo. Per esempio dei siciliani, ma lì entra la legittima suspicione per il fatto che io sono siciliano, che sono miei amici. Sono Vincenzo Consolo, Giuseppe Bonaviri, Sebastiano Addamo. Fra gli scrittori della generazione immediatamente precedente alla mia, quello che amo di più è Vitaliano Brancati.

Cosa pensa delle manifestazioni artistiche nel contesto della crisi di valori che investe la nostra società?
Quelle manifestazioni che si poggiano generalmente sul denaro pubblico sono sbagliate ed inutili. Le manifestazioni spontanee invece hanno ancora un qualche interesse. In trent’anni non si è mai riusciti a organizzare seriamente la cultura. L’organizzazione della cultura è in mani burocratiche e il denaro viene distribuito con criteri che si può dire elettoralistici. Perfino l’archeologia risponde a criteri clientelari. Si ha l’impressione che si scavi nelle zone dove c’è un onorevole che riesce a pressare. Quindi sono cose che poco hanno a che fare con la cultura, anche se a volte fortuitamente i risultati possono essere buoni.

In un’intervista televisiva, lei ha detto: “Dio è morto, Marx pure, ma io mi sento molto bene”. Cosa intendeva dire?
E’ una battuta di un umorista americano: “Dio è morto, Marx pure, e io non mi sento molto bene”. Io l’ho modificata: “Dio è morto, Marx pure, ma io sto benissimo”, in quanto continuo a scrivere, continuo a vedere le cose per come mi sembrano vadano viste. Ma non è un’affermazione apocalittica, poiché non sono certo né che sia morto Dio, né che sia morto Marx, anche se dobbiamo riviverli con molto giudizio. Io non sono per le affermazioni ateistiche. Anzi, sono convinto che l’ateo non esiste, che l’ateo sia un’invenzione dei preti.

Che pensa degli atti terroristici che sono accaduti negli ultimi anni e che hanno avuto nel rapimento dell’on. Moro il loro culmine?
Ne penso tutto il male possibile, perché ritengo che si debbano analizzare le cause da cui vengono fuori. Questa è la differenza fra alcuni intellettuali che fideisticamente sottoscrivono contro le BR e me. Io ritengo che questi anni siano riprovevoli, condannabili in sé. Però se non ci spieghiamo le cause da cui vengono fuori, saremo costretti a convivere col terrorismo. Il terrorismo diventerà un fatto endemico ed epidermico in Italia, se non cerchiamo di rimuoverne le cause.

Può darci una visione dell’Italia di oggi?
E’ una realtà su cui possiamo pochissimo esercitare il nostro potere intellettivo in questo momento, poiché siamo sommersi dalla emotività. Ogni tentativo di spiegarci logicamente i fatti viene all’indomani deluso. Io per esempio ritenevo che su questo punto le BR non potessero più uccidere l’on. Moro, anche considerando una loro logica interna, e invece loro dicono di essere passati all’esecuzione della sentenza. Certo, questo è un paese dove avvengono fatti uguali a tutto il mondo, ma avvengono con una crudezza e una confusione indicibili. La confusione è arrivata in questo paese al colmo. Voi avete visto, per esempio, la divisione tra coloro che volevano trattare con le BR e coloro che non volevano trattare. Era una cosa insensata, perché per le trattative voi trovate il PSI, LC, i vescovi, gli amici di Moro, la famiglia di Moro; dall’altra parte invece trovate la DC, il PCI. Da questa parte c’era più sicurezza, era una linea più chiara. Dall’altra c’era una confusione immensa; e si è visto il risultato: che le BR non hanno tenuto assolutamente conto di quell’alleanza fra monsignori ed estremisti, e hanno agito in un modo che a mio parere non obbedisce nemmeno a una logica interna, alla logica del movimento rivoluzionario. Innanzitutto avrebbero dovuto tener conto che l’abolizione della pena di morte in Italia era un fatto rivoluzionario e che ripristinando la pena di morte loro hanno offerto il modo perché sia ripristinata anche da parte dello Stato, per lo meno hanno dato coraggio a coloro che chiedono che la pena di morte sia ancora una volta legge dello Stato italiano.

Non le pare che i terroristi rientrino fra gli eretici di cui lei parlava poco fa?
No, non mi pare proprio. So che l’eresia è sempre qualcosa che fa andare avanti. Il terrorismo per quello che provoca, è una cosa che fa andare indietro. No, non credo che questo terrorismo sia effettivamente rivoluzionario. Penso anzi che sia uno strumento reazionario, anche se a livello di esecutori c’è una intenzione rivoluzionaria. Negli effetti, per quello che provocherà, il terrorismo è reazione, non eresia.

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