24.3.10

Simone Weil e l'Iliade. Vincitori e vinti.

Poche settimane dopo l’inizio della guerra, nell’autunno del 1939, Simone Weil scrive il suo L’Iliade ou le poème de la force. E’ un commento, anche puntuale, a molti passi e passaggi del poema omerico, ma è anche una meditazione sulla forza nella sua manifestazione estrema, la guerra. Il saggio si trova, con la traduzione italiana di Cristina Campo in La Grecia e le intuizioni precristiane, edito da Borla nel 1967 e molte volte ristampato, ma io ne ho preso conoscenza in “Linea d’ombra” del Novembre 1988, che ne riportava un ampio stralcio. Qui ne posto solo due frammenti, l’incipit e il brano che coglie la peculiarità (e insieme l’attualità) del sentimento che ispira i canti omerici. Troppo poco per sostituirsi a una lettura diretta, ma abbastanza per invogliare a farla.

Il poema della forza

Il vero eroe, il vero argomento, il centro dell’Iliade, è la forza. La forza adoperata dagli uomini, la forza che piega gli uomini, la forza dinanzi alla quale si ritrae la carne degli uomini. L’anima umana vi appare continuamente modificata dai suoi rapporti con la forza: travolta, accecata dalla forza di cui crede disporre, si curva sotto l’imperio della forza che subisce. Chi aveva sognato che la forza, grazie al progresso, appartenesse ormai al passato, ha voluto vedere in questo poema un documento; chi sa discernere la forza, oggi come un tempo, al centro di ogni storia umana, vi trova il più bello, il più puro degli specchi. La forza è ciò che rende chiunque le sia sottomesso una cosa. Quando sia esercitata fino in fondo, essa fa dell’uomo una cosa nel senso più letterale della parola, poiché lo trasforma in un cadavere. C’era qualcuno, e un attimo dopo non c’è nessuno. E un quadro che l’Iliade non si stanca di presentarci.

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Vincitori e vinti

La straordinaria equità che ispira l’Iliade ha forse esempi a noi sconosciuti, ma non ha avuto imitatori. A malapena ci si accorge che il poeta è greco e non troiano. Il tono del poema sembra portare testimonianza diretta dell’origine delle parti più antiche, la storia forse non ci darà mai chiarimenti su questo punto. Se si crede con Tucidide che ottant’anni dopo la distruzione di Troia gli Achei soffersero a loro volta una conquista, ci si può chiedere se quei canti, dove il ferro non è nominato che raramente, non siano i canti di quei vinti, tra i quali alcuni forse presero la via dell’esilio. Costretti a vivere e morire «ben lungi dalla patria», come i Greci caduti dinanzi a Troia, perdute come i Troiani le loro città. ritrovavano se stessi così nei vincitori, che erano i loro padri, come nei vinti la cui miseria somigliava alla loro: la verità di quella guerra ancora vicina poteva mostrarsi loro attraverso gli anni, non velata dall’ebrietà dell’orgoglio né dall’umiliazione. Potevano figurarsela insieme da vinti e da vincitori e conoscere in questo modo ciò che mai né vincitori né vinti hanno conosciuto, gli uni e gli altri essendo accecati. Tutto questo non è che un sogno; non si può che sognare su tempi tanto remoti.

Sia come sia, questo poema è una cosa miracolosa. In esso l’amarezza verte sull’unica giusta causa di amarezza: la subordinazione dell’anima umana alla forza, vale a dire, in fin dei conti, alla materia. Questa subordinazione è la stessa in tutti i mortali, sebbene l’anima la porti diversamente secondo il grado di virtù. Nessuno vi si sottrae nell’Iliade, così come nessuno vi si sottrae sulla terra. E nessuno di coloro che vi soccombono è per questo considerato spregevole. Tutto ciò che all’interno dell’anima e nei rapporti umani sfugge all’imperio della forza è amato, ma amato dolorosamente per quel pericolo di distruzione continuamente sospeso. Tale lo spirito della sola autentica epopea che l’Occidente possieda. L’Odissea non sembra essere che un’eccellente imitazione, ora dell’Iliade ora di poemi orientali; l’Eneide è un’imitazione che, brillante finché si vuole, è disabbellita dalla freddezza, dalla declamazione, dal cattivo gusto. Le chansons de geste non seppero raggiungere la grandezza per mancanza di equità; la morte di un nemico non è sentita. dall’autore e dal lettore della Chanson de Roland, come la morte di Rolando.


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