In tutta la Sicilia sono nate, stanno nascendo o si progettano aree commerciali, talora enormi, con ipermercati, ristoranti e negozi d’ogni tipo. Non si sa bene a chi debba essere venduto tutto il ben di Dio che dovrebbe essere immagazzinato in quelle mastodontiche costruzioni; l’isola è, infatti, terra di vecchia e nuova emigrazione, povera e stremata dalla crisi, il valore delle pensioni cala giorno dopo giorno.
Quando i nuovi ipermercati con corredo di altri svariati negozi e servizi aprono i battenti (non sempre accade), il primo risultato è lo strangolamento di piccole e avviate attività commerciali, sia di quelle che mantengono le tradizionali allocazioni, sia di quelle che accettano di trasferirsi nelle nuove megastrutture. Nel primo caso funge da killer una concorrenza sleale, nel secondo l’alto prezzo dei fitti. L’impressione è che questi grandi centri commerciali vivano anch’essi una vita grama e che non portino grandi vantaggi alle comunità locali. Il personale qui è pagato poco, assai meno di quanto dicono i contratti, visto che quanto è scritto in busta paga quasi mai corrisponde alla realtà: i gerenti si fanno spesso aiutare dalle mafie nel gestire il rapporto con i dipendenti. Un secondo risultato è l’omologazione verso il basso della qualità nei consumi: la merce cattiva, si sa, caccia quella buona e nei supermercati, per quanto grandi siano, non si trova quasi mai spazio per il pane locale, il formaggio locale, la frutta e la verdura locali.
Ciò nonostante a nessun operatore serio sembra che queste grandi strutture, anche quando riescono ad avviarsi, siano remunerative rispetto al livello di investimenti che richiedono, dato che il settore è ormai affollatissimo anche in Sicilia.
Perché si realizzano allora? Non è difficile pensare che il reinvestimento di profitti criminali sia considerato più facile in “ambiente amico”. Inoltre qua e là le provvidenze europee e locali per nuove aree produttive riducono a zero i costi di urbanizzazione: il costruttore riduce al massimo le spese, riesce a far “beccare” le mafie con i subappalti, rivende realizzando un piccolissimo profitto e scappa via. Poco gli importa se e per quanto tempo le strutture funzioneranno e quanto siano costate le opere pubbliche di contorno.
Una parte di queste strutture, anche in perdita, potrà ottimamente servire da lavanderia per il denaro sporco. Si racconta che, attraverso il gioco dei prestanome e le scatole cinesi, ipermercati e supermercati siano spesso riconducibili alle organizzazioni criminali, alla ‘ndrangheta soprattutto che, per via del monopolio della coca, appare al momento la più ricca.
Una di queste operazioni sembra essere in atto da qualche anno a Barcellona Pozzo di Gotto, in Sicilia. Il Consiglio comunale ha, dopo l’iter previsto, approvato il 19 novembre 2009, con 22 voti favorevoli e un solo astenuto, ha approvato il piano particolareggiato per l’insediamento in contrada Siena di uno dei maggiori parchi commerciali di tutto il Sud Italia. Sarebbero in ballo centinaia di milioni di investimenti pubblici e privati. Si parla del “più grande parco commerciale in Sicilia”. Tutto ciò in un’area a densissima densità mafiosa.
A denunciare il progetto (e chi vi sta dietro) già nel suo iter è stato prima e dopo l'approvazione della variante un giornalista coraggioso, Antonio Mazzeo, con articoli su diverse testate minori. A sostenere nel territorio la battaglia contro l’operazione ritenuta improvvida per molti aspetti sono un attivo movimento civico, Città aperta, in prevalenza rappresentato da giovani, il presidio antimafia intitolato a Rita Atria, il locale circolo di Rifondazione denominato “Ottobre rosso”. Con loro anche alcuni proprietari delle aree interessate.
A dicembre l’associazione Rita Atria ha chiesto agli uffici comunali di visionare gli atti onde verificare la regolarità di tutti i passaggi, ma gli uffici sembrano volerli tenere chiusi nei loro cassetti e non rispondono, nonostante il protocollo sulla legalità firmato dal Comune con la competente prefettura di Messina. Il 12 gennaio il senatore Lumìa (Pd) ha rivolto un’interrogazione al presidente del Consiglio e al ministro degli Interni. In essa si denunciano le dimensioni dell’intervento (“su una superficie di 18,4 ettari di terreni oggi agricoli, si prevede di realizzare infrastrutture per 398.414,45 metri cubi, contro un volume delle costruzioni esistenti di appena 23.164,68 metri cubi”), si ricordano le critiche del movimento civico “Città aperta” (“un’ennesima spaventosa colata di cemento, in un territorio già fortemente compromesso dal punto di vista ambientale e idrogeologico”, un progetto senza “a alcuna valenza dal punto di vista economico, poiché i parchi commerciali presenti nella vicina Milazzo sono con tutta evidenza sopradimensionati per il mercato locale”), ma soprattutto, sulla scorta delle inchieste di Mazzeo, si evidenziano i lati oscuri della società che ha promosso la variante. Si tratta della Dibeca sas, che, nelle parole del senatore, “è direttamente riconducibile ad un noto pluripregiudicato locale, l’avvocato Rosario Pio Cattafi”. Il professionista nel luglio 2005 ha finito di scontare la misura di prevenzione antimafia della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno, irrogatagli nel massimo (cinque anni). La Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Messina nel suo decreto del 2 agosto 2000, parlava dei suoi costanti contatti, protrattisi per decenni, con personaggi del calibro di Nitto Santapaola, Pietro Rampulla, Angelo Epaminonda (col quale Cattafi aveva frequentazione nel lungo di permanenza a Milano) e Giuseppe Gullotti (addirittura di quest’ultimo, capomafia barcellonese condannato definitivamente per l’omicidio del giornalista Beppe Alfano, Cattafi è stato testimone di nozze). La “Di Beca S.a.S.” si chiamava un tempo “Di Beca snc di Cattafi Rosario & C.”; ora ha mutato proprietà e ragione sociale: ha come soci il figlio dell’avvocato Alessandro Cattafi, la madre Nicoletta Di Benedetto e la sorella Maria Cattafi. Della famiglia Cattafi è anche buona parte dei terreni interessati all’investimento.
Dopo le denunce e l’interrogazione di Lumia, la politica locale si è risentita. Il primo a reagire è stato un locale rappresentante del MpA, il partito del presidente della regione Lomabrdo. Si chiama Gaetano Torre ed è consigliere comunale. Torre ha depositato un’interpellanza al sindaco Candeloro Nania (An-Pdl) e ai colleghi consiglieri invocando “un moto di ribellione contro questi carrieristi che vogliono ghettizzare Barcellona” e “contro i continui attacchi portati proditoriamente da queste associazioni che hanno fatto a gara nell’indicare il pericolo di infiltrazioni mafiose”, “provocando addirittura una interpellanza al Senato”. Il Torre afferma: “Barcellona non può essere indicata città di mafia”; e motiva: “Il Comune di Barcellona è uno dei pochi che hanno sottoscritto il protocollo di legalità con la Prefettura e pertanto qui infiltrazioni mafiose non ce ne saranno di sicuro”. Oh, se bastasse un protocollo!
Con Torre si è schierato l’intero consiglio, da Munafò, consigliere eletto con la lista “Punto Freccia - Alleanza nazionale” (“Noi consiglieri rivendichiamo il diritto di fare delle scelte nell’interesse della città, ma purtroppo c’è gente che ha l’abitudine di avvelenare i pozzi”) a Calamuneri, esponente del Partito democratico, all’opposizione (“difendo la dedizione, la correttezza e la trasparenza con cui ha operato la terza commissione consiliare. Rigetto pertanto le speculazioni e affermo che la deliberazione del Consiglio è avvenuta in piena coscienza, e senza alcuna pressione o forzatura”).
La posizione unanime di esecrazione del Consiglio comunale ha suscitato una replica ragionata da parte di Città aperta e del Presidio Rita Atria: “L’unanime attacco del Consiglio contro le nostre denunce in merito all’approvazione del Parco commerciale è la dimostrazione del nervosismo che aleggia tra i consiglieri, coscienti di aver varato un atto destinato a provocare pesanti ripercussioni sull’immagine delle istituzioni cittadine”. Le associazioni ribadiscono la preferenza “per la valorizzazione del già ricco tessuto commerciale cittadino” e la perplessità verso “attività commerciali in contesti artificiali, che solo apparentemente aumentano le opportunità di lavoro”. Parlano dei “continui licenziamenti nei centri commerciali già presenti nel nostro territorio, il cui personale vive una condizione di totale precarietà con contratti a brevissima scadenza, divenendo facile preda delle centrali di potere economico-politico che sfruttano la situazione per manovrare consistenti pacchetti di voti”. Nella frase si può agevolmente leggere anche qualche riferimento al gruppo Franza che opera nella vicina Milazzo, di cui è magna pars Francantonio Genovese, nipote di Gullotti e notabile del Pd siciliano.
Insomma fino ad oggi il movimento antimafia tiene il punto e addirittura, a quanto scrive Enrico Di Giacomo sul periodico locale“Centonove”, ci sarebbe nel sindaco, Candeloro Nania, qualche prudenza e una frenata rispetto all'operazione.
A me tuttavia la vicenda appare preoccupante. Quando si ricorda la storia di Peppino Impastato di rado si sottolinea che lui e i suoi compagni, caratterizzati come estremisti, godevano di una esecrazione quasi unanime delle politica ufficiale nel paese di Cinisi. Nel clima da union sacrée che seguì il rapimento di Aldo Moro tutto il Consiglio comunale di Cinisi, Pci incluso, arrivò a votare un mozione contro le provocazioni di Peppino, contro il suo chiamare mafiosi i mafiosi e collusi i collusi. E non è da escludere che l’isolamento abbia incoraggiato Badalamenti e la sua gentaccia nel progetto omicida. Quel che accade a Barcellona Pozzo di Gotto, mi riporta alla mente quelle vicende, anche perché, al di fuori della lodevole eccezione del Senatore Lumia, poco sembrano aver fatto i grandi giornali e i grandi partiti per portare il grande pubblico a conoscenza di questa storia inquietante.
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