Incominciamo dalla parola. Che è moderna. I lessici storici muovono da Emilio Cecchi, ma è un errore. E’, al minimo, in Gian Pietro Lucini (1911).
Quando prese a diffondersi, nel giovanile corrente la connotazione positiva, demente e demenziale non si distinguevano ancora. In Pesta duro e vai tranquillo G. R. Manzoni e E. Dalmonte scaricavano entrambi gli aggettivi sotto un unico lemma, e li registravano come “riferiti a certi generi musicali e ai loro interpreti”, con il valore encomiastico "da pazzi, sconvolti, inconsulti". Due esempi illustravano, in quel libretto dell’80, la definizione: “Il rock demenziale degli Skiantos mi prende (= mi piace molto)” e “Il bassista dei Ramones è demente”. Con relativa prontezza lo Zingarelli, sul ponte delle sempre più estesa portata semantica del vocabolo (“incoerente, sconsiderato, privo di logica”), in armonia con le conquiste antipsichiatriche della nuova psichiatria, che esonera sempre meglio la voce da valenze patologiche, registra come rock demenziale quello “caratterizzato dall’impiego prevalente di distorsioni nell’esecuzione, dalla ripetitività del motivo musicale, dall’apparente sconnessione logica dei testi scritti, in un generale contesto stilistico di beffarda e volutamente rozza dissacrazione culturale". La seconda edizione del Dizionario di parole nuove di Cortelazzo e Cardinale, esemplificando la dimensione neosemantica della parola accoglie un sintagma giornalistico 1984 “stile demenziale” (con i suoi “giovani estimatori”) e attesta con citazione da quotidiano 1985, che si tratta di un aggettivo di moda nel cinema”. Da ultimo nel suo Neoitaliano Sebastiano Vassalli, caratterizzando demenziale come “vocabolo d’élite, per pochi intimi, nei favolosi anni Sessanta”, può ormai discorrere, indifferenziatamente, di “musiche demenziali, varietà demenziali, film demenziali”, di “demenzialità televisiva”, di “spettacoli” e di “canzoni demenziali” e (“demenzial-popolari”), sino al “neopostdemenziale” che si incarnerebbe nel Lupo solitario di Patrizio Roversi. Scrive Dario Salvatori, sopra uno degli ultimi numeri del “Radiocorriere”: “Probabilmente il cosiddetto genere demenziale non ha esalato il suo ultimo respiro. Con Salvi, Charlie, Jovanotti e altri già in pista per il mercato estivo , registriamo quest’estate l’arrivo del video di Vanna Marchi, D’accordo?!”.
Mirabile oggetto di ricerca per specialisti di storia della lingua e del costume, il “genere demenziale” trionfa nelle comunicazioni di massa, in tutte le sue forme, e mediante i più diversi supporti. Può vantare all’ombra dell’Encomium Morias, un albero genealogico dei più ricchi e ramificati, dalla proliferazione poetica del non-sense ai cadavres exquis, dal teatro del’assurdo versione Ionesco al più remoto folclore filastroccoso, e avanti e indietro, sino all’ “ipotiposi del sentimento” di Gastone, poiché la storia della cultura, alta e media e bassa, conosce saggi variamente mirabili di follia coltivata con metodo, a fini morali e ludici, satirici e provocatori, sperimentali e parodistici. Tracciare la storia del delirio simulato ad arte , sul versante tragico, elegiaco e comico, sarebbe un bell’argomento per un laureando, per un dottorabile, per un microstorico in viaggio verso la macrostoria delle patologie espressive. si potrebbe partire, tanto per offrire una prima traccia, incrociando il "manierismo" alla Binswanger e il “manierismo” alla Hocke, con l’infinita progenie di Dada, nei suoi aspetti più eccitatamente e più eccitantemente abracadabreschi ed hellzapoppinoidi.
Ma il “genere demenziale”, e direi il pop demenziale, per quarti di nobiltà che possa vantare, acquista un suo autentico valore sociologicamente indiziario, come da storia dell’attributo, precisamente massificandosi, innalzandosi ad ordine studentoso, con autorizzazioni spesso inconsciamente goliardiche, quindi rockettaro in senso lato, e latamente digeico, e finalmente, indiscriminatamente intergenerazionale e interclassista. La verità neobarocca del postmoderno risiede probabilmente nell’egemonia terminale del pop demenziale, che non è più “stile”, nemmeno, ormai, ma “lingua”, sistema di segni interpersonali e internazionali, un grammelot esperantistico che trascende le pappe verbali e musicali, per investire, alla pari, il figurale e il mixale, e il gestuale e l’abbigliamentare, e l’opzionale e il fastfoodale. E anche il monologo interiore e esteriore effettuale. In demenzialese si pensa, in demenzialese si vive.
Data, insomma, una “paranoia critica” generalizzata, tanto per prendere ancora le mosse da un modello culturalmente elevato e compianto, spieghiamola al popolo e depriviamola di qualsivoglia significazione alternativa, lacanializziamola come nuda pratica di un inconscio socialmente e antiedipicamente pattuito, e ricaveremo la pertinente insegna e il corretto blasone epocale, per questa fin de millénaire.
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