Incontrai per la prima vota Pirandello a Roma, al galoppatoio di Villa Borghese, con Nino Bertoletti. Il mito che avevo davanti ai miei occhi mi impediva qualsiasi riflessione. Davanti a me, siciliano, era la Sicilia serena, la Sicilia del Mediterraneo, così diversa dalla mia Sicilia aspre e reale; Sicilia turbolenta, la mia, contro la pacifica fascia meridionale, il cui colore era dell’oro dei templi, del rosa dei mandorli in fiore, e della luce del Mediterraneo.
La stessa luce che si irradia dalla stanzetta del Museo di Siracusa ove risplendono le forme sublimi della Venere, e corre lungo tutto il litorale fino a Sciacca, a Mazzara.
Proprio in quella landa felice nasce e si sviluppa la complessità, spesso tragica, dei siciliani di Pirandello. La coesistenza dell’immobilità con la spinta delle passioni, la razionalità dei dati e l’irrazionalità dei comportamenti. Pirandello stava zitto, appoggiato a un bastone, coperto da un leggero soprabito, e volle guardare l’album sul quale, a matita, avevo cercato di fermare qualche movimento dei cavalli.
Mi chiese di dov’ero, quanti anni (credo 22 o 23), e così via: Gli dissi che la mia famiglia era di Bagheria, ma che avevo avuto una nonno “giurgintana”. Mia nonna paterna era infatti di Agrigento (allora Girgenti). Sorella di un garibaldino che aveva combattuto con mio nonno Ciro, da Calatafimi a Milazzo.
Mia nonna, che ricordo bene sebbene fosse morta di “spagnola” quando avevo cinque anni, era una bella vecchia siciliana, molto solenne e autoritaria.
Rividi poi Luigi Pirandello, ai giardini, a Venezia, durante una biennale. Io ero con suo figlio Fausto. Questo fu il mio secondo incontro con il grande siciliano.
Quanto alla pittura di Pirandello, non ne so nulla e pertanto non saprei che dire. Ho visto solo delle riproduzioni di cui non ricordo nulla e una tavoletta di paesaggio che era nello studio di Fausto, circa 50 anni fa.
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