La poltroncella, la zucca delle monache e gli sciaboloni
Giuseppe Bandi
Nel tornare a casa, mentre eravamo per scavalcare una barricata, un bel pezzo d'uomo ci venne incontro, e da lungi salutò in lingua francese il generale. quell'omaccione era tutto vestito di bianco ed aveva in testa un gran cappello di paglia, adorno d'una penna azzurra, d'una penna bianca e d'una rossa.
"Indovinate un po' chi è colui?" - mi chiese Garibaldi.
"Chi può essere? - risposi - Louis Blanc, Ledru Rollin?".
"Oibò - soggiunse il generale, ridendo - è Alessandro Dumas".
"Come? l'autore del Conte di Montecristo e dei Tre moschettieri?".
"Proprio lui".
Le grand Alexandre abbracciò Garibaldi con infinite dimostrazioni d'affetto ed entrò insieme a lui nel Palazzo Pretorio, predicando e ridendo forte, non altrimenti che della sua voce e della sua allegria volesse riempire il palazzo: Fummo chiamati a colazione. Alessandro Duma s aveva condotto seco una poltroncella vestita in abito maschile e precisamente da ammiraglio; la qual poltroncella, piccina e leziosa e piena di gestri, si pose a sedere alla destra del generale come non fosse suo fatto.
"O per chi ci ha presi quel glorioso bue? - dissi ai compagni che m'erano accanto - E' vero che molte licenze s'accordano ai poeti; ma questa che si piglia adesso, di mettere a tavola col generale e con noi quella minuscola figlia del peccato, è tal licenza che non conncederebbero mai nè gli dei, nè gli uomini nè le colonne".
"Indovinate un po' chi è colui?" - mi chiese Garibaldi.
"Chi può essere? - risposi - Louis Blanc, Ledru Rollin?".
"Oibò - soggiunse il generale, ridendo - è Alessandro Dumas".
"Come? l'autore del Conte di Montecristo e dei Tre moschettieri?".
"Proprio lui".
Le grand Alexandre abbracciò Garibaldi con infinite dimostrazioni d'affetto ed entrò insieme a lui nel Palazzo Pretorio, predicando e ridendo forte, non altrimenti che della sua voce e della sua allegria volesse riempire il palazzo: Fummo chiamati a colazione. Alessandro Duma s aveva condotto seco una poltroncella vestita in abito maschile e precisamente da ammiraglio; la qual poltroncella, piccina e leziosa e piena di gestri, si pose a sedere alla destra del generale come non fosse suo fatto.
"O per chi ci ha presi quel glorioso bue? - dissi ai compagni che m'erano accanto - E' vero che molte licenze s'accordano ai poeti; ma questa che si piglia adesso, di mettere a tavola col generale e con noi quella minuscola figlia del peccato, è tal licenza che non conncederebbero mai nè gli dei, nè gli uomini nè le colonne".
Il grande Alessandro mangiò come un poeta, e si mostrò tanto voglioso di discorrere che mai non volle prestare lo staio a nessuno. Vero è che parlava come sapeva scrivere e io stetti a bocca aperta a udirlo, anche quando per la soverchia velocità nel discorrere non capivo nulla delle sue parole...
Quando comparve in tavola la "zucca delle monache", il grand'Alessandro fece tanto d'occhi, e se ne cacciò in bocca una gran fetta; poi si diè a cantare il magnificat, e tanto l'ebbe commendata che il generale la fece riporre in un cartoccio e tutta gliela offerse perchè la portasse seco. Monsù Dumas tolse lietamente il cartoccio e lo consegnò all'ammiraglio, cioè alla femminuccia ceh aveva seco; e poi disse a Garibaldi: "Voi mi avete regalato una delizia ma io saprò ben ricambiare il dono". E, bevendo l'ultimo bicchiere di vino di Marsala, dette la fausta novella di aver recato a bordo della sua piccola nave, che si chiamava Emma, tante bellissime armi le quali erano tutte del dittatore, senz'altra fatica che quella di mandarle a prendere. Noto, a questo proposito, che il generale ci mandò più tardi a pigliare le armi di Alessandro Dumas, e noi ci andammo con un grosso navicello; ma le armi che ci dette il francese, non avrebbero riempito un carrettino di competenza d'un somaro. Infatti tutto quel gran tesoro consisteva in sette o otto sciaboloni da cavalleria, e in dodici vecchie carabine; roba degnissima del ferravecchio. Ossequienti al proverbio che "a caval donato non si guarda in bocca" pigliammo le armi e le recammo al generale, che rise assai paragonando i doni minuscoli del gran romanziere francese, colla magnificenza delle sue promesse.
Un cappello di feltro, un piatto di cavoli e dodici carabine
Alexandre Dumas
Stavamo per vedere Garibaldi! Camminavamo tra barricate e macerie. Venticinque o trenta case fumavano ancora, crollate sui loro abitanti.
Riconosco i luoghi! Ecco la piazza delle Quattro Nazioni; venticinque anni fa ho alloggiato nell'albergo di fronte col falso nome di Francesco Guichard. Siano rese grazie all'uomo che oggi mi consente di abitaere a Palermo col mio vero nome.
Continuammo la nostra strada. La vista delle barricate mi ringiovanisce di quasi trent'anni; in questa rivoluzione ritrovo, punto per punto quella del 1830. La rassomiglianza è perfetta: un altro Borbone viene cacciato via e, come a Parigi, Palermo ha il suo La Fayette, anch'egli vincitore d'America.
"Guardate, ecco mio padre" - disse Menotti.
Tutti sanno che Garibaldi volle dare a suo figlio non il nome di un santo ma il nome di un martire.
Nel momento stesso in cui stavo girando gli occhi sul generale, egli li stava posando su di me.
Emise un grido di gioia che andò diritto al cuore.
"Caro Dumas, - disse - mi mancavate".
"Come vedete, vi cerco anch'io. Congratulazioni, mio generale".
"A quegli uomini bisogna farle; e che giganti, amico mio!".
E mi indicava gli uomini che gli stavano attorno, non perdendo ancora una volta l'occasione di attribuire la propria gloria ai suoi commilitoni.
Mi mise un braccio sulle spalle e ci avviammo insieme. Era davvero magnifico, questo dittatore che aveva appena regalato al suo re due milioni di uomini: il cappello di feltro bucato da una pallottola, la camicia rossa, i pantaloni grigi di sempre e, annodata al collo, la sciarpa che gli ricade alle spalle come un cappuccio.
Ci avviammo al palazzo del Senato. La piaza antistante aveva un gran carattere con la sua fontana dalle teste di animali, con gli armati attorno alle sponde, e in postazione i quattro cannoni che Turr aveva preso ad Orbetello. Furono grida di gioia. Mancava soltanto la presenza del povero Teleki. Edoardo Lockroy e paolo parfait erano entrati con me e non riuscivano a staccare gli occhi da Garibaldi, stupiti di trovarlo, ad un tempo, così grande e così semplice.
Li presentai al generale.
"Allora pranziamo insieme, vero?" - mi disse.
" Con piacere".
Il pranzo si componeva d'un pezzo di vitella arrosto e d'un piatto di cavoli. Il pasto dell'intero stato maggiore del generale e di noi tre costava ben sei franchi. Nessuno accuserà Garibaldi di rovinare la Sicilia.
A Torino gli avevo offerto, per la sua guerra, dodici carabine.
Ora le reclamava, e con diritto.
"Bene, - disse - manderò qualcuno a prenderle".
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