Il 21 febbraio, di domenica, su “il manifesto” ha trovato risalto un articolo di Asor Rosa, provocatorio e utile, dal titolo Capo corrotto nazione infetta. Mette ordine in ragionamenti che ci capita di ascoltare e perfino di fare sul carattere strutturale della corruzione italiana, una corruzione originaria se non genetica, politicamente e socialmente costitutiva. Il titolo fa il verso ad una celebre inchiesta de “L’Espresso” sulla speculazione edilizia nella Roma degli anni 50 (Capitale corrotta, nazione infetta), il taglio dell’analisi volutamente richiama Salvemini e Gobetti. Il testo dunque idealmente si riconnette a un filone di pensiero di sinistra democratica e liberale sempre minoritario in Italia, ma spesso in grado di scoprire e svelare il non detto e perfino l’indicibile del “Bel paese”.
Di Salvemini è noto il fastidio sulla presunta irriducibilità del “paese reale” (buono per definizione) al “paese legale” (cattivo, anzi cattivissimo): egli sosteneva che il Parlamento è per un 10% migliore del popolo che rappresenta, per un altro 10 peggiore, per tutto il restante 80 uguale ad esso. Asor Rosa è ancora più categorico: “Esistono una coerenza rigorosa e un'inarrestabile osmosi fra vizi privati e pubbliche nefandezze”.
L’approccio complessivo del pezzo è però gobettiano. Il gran torinese non era convinto che il fascismo fosse un incidente storico, una malattia passeggera, come asseriva uno dei suoi maestri, Benedetto Croce; lo riteneva piuttosto la rivelazione dell’Italia a sé stessa, l’emersione del fondo torbido su cui erano cresciuti lo stato e la nazione. Così Asor Rosa sulla corruzione: “Un paese dalle strutture politiche e civili estremamente fragili e dall'arrendevole senso etico-politico non poteva non coltivare la corruzione come un indispensabile e insostituibile strumento di sopravvivenza. La dominante cattolica ha fatto il resto: nulla è impossibile o illecito in un paese in cui qualsiasi colpa, qualsiasi peccato, purché confessati a chi di dovere, diventano redimibili”. E subito dopo il confronto tra l’Italia di fine Ottocento, quando un diluvio di fango sembrò affogare tutto e tutti, e quella di un secolo dopo, di Tangentopoli e Mani pulite. L’una e l’altra volta – spiega il professore - la crisi durò poco e la corruzione tornò a dilagare, “più bella e più forte che pria”, diremmo noi con Petrolini.
Il berlusconismo, ci dice Asor Rosa, è come il fascismo e Berlusconi è come gl’italiani, o almeno come la maggioranza di essi: “Quest'Uomo è così popolare non nonostante le sue colpe ma in virtù di quelle. Una parte non piccola del popolo lo ama perché Lui lo interpreta, ne lusinga tutte le tentazioni di corruttibilità e di un radicato, anzi congenito indifferentismo morale […]. Insomma, a capo corrotto nazione infetta, e, ovviamente, viceversa”. La corruzione del resto, aggiunge Asor Rosa, oramai corrode sia la destra che la sinistra: se per corruzione deve intendersi “l'autoreferenzialità spinta”, il “preoccuparsi pressoché esclusivamente della preservazione e perpetuazione del ceto politico” il più pulito ha la rogna.
Chi regge allora? Anche su questo l’articolo abbozza una risposta: intanto alcuni settori chiave del pubbliche istituzioni, senza la cui resistenza saremmo già in una dittatura latino-americana: magistratura e forze dell’ordine in primo luogo; poi una parte del sindacato; poi la scuola; infine “milioni di italiani, che stanno fuori da ogni sistema della corruzione e ragionano e operano sulla base di principi e valori e non d'interessi e affermazioni personali, ma non sono politicamente rappresentati oppure […] avvertono con disagio crescente di esserlo in forma imperfetta e sempre più compromissoria”. Troppo poco per una alternativa. Per il celebre italianista l’ipotesi più probabile, vista l’insopportabilità dello stato presente, è che nei cerchi meno corrotti dell’ampia area della corruzione si pensi a una soluzione slavata che, almeno per un po’, mitighi la protervia dei più infetti.
L’impianto complessivo del ragionamento qui sintetizzato è condivisibile, ma ci sono due questioni non marginali su cui vorrei concentrare l’attenzione. Asor la fa facile per quel che riguarda la liquidazione di Berlusconi. L’uomo è dello stesso stampo di Craxi, ma ha un potere assai più ampio ed è percorso da germi di follia. Ogni potere personale troppo vasto ne produce.
Non se ne andrà perciò senza creare danni e i fascisti che intorno a lui rubano e sbraitano sono pronti a seguirlo in ogni avventura. Forse si potrebbe ancora evitare il peggio, se scendessero senza esitazione in campo i signori dell’economia e della finanza. Ma non pare aria: pensano di guadagnare forza da un Berlusconi indebolito. Ha ragione Fabio Mussi (La gelatina che avvelena lo Stato in “Il fatto”, 24 febbraio) quando addita alla pubblica esecrazione i “terzisti” del “Corriere della Sera”, che hanno alimentato “un realismo smagato e accomodante, un cinismo pacato e confortevole”. Ma i terzisti del Corsera sono espressione di Confindustria, Mediobanca eccetera eccetera, di quei poteri forti che fanno i pesci in barile, nella speranza di ottenere da un governo debole e screditato provvidenze, vantaggi fiscali, libertà di licenziamento. Un discorso analogo si può fare per la gerarchia cattolica. E’ verosimile che le recenti prese di posizione dei domenicani preludano a riconsiderazioni in molti settori della Curia, ma fino ad oggi si continua nella vendita delle indulgenze a governanti viziosi e corrotti. Insomma il male minore di cui Asor Rosa discorre resta molto improbabile senza una significativa sconfitta elettorale dei berlusconidi.
La seconda questione riguarda i soggetti dell’opposizione attuale e potenziale. Asor Rosa fa riferimento al sindacato, ma non ne fa alcuno alla contraddizione capitale-lavoro e alla forza operaia. Da giovane (ma neanche tanto), scriveva su “Classe operaia”; e su quella rivista proclamava la fine della “battaglia culturale”, cui opponeva la “materialità del conflitto”. Avrà cambiato idea. E non c’è niente di male, specie quando non ci si vende e si conserva il nucleo forte delle proprie idealità e convinzioni. La resistenza di cui parla è comunque interclassista, se non addirittura aclassista, e sembra fondarsi più su culture e principi morali che non su interessi collettivi. Neanche Fabio Mussi, del resto, nell’articolo citato, parla di capitalismo o di classe operaia. Parla di una nazione travolta “dal basso, dall’individualismo amorale di massa, e dall’alto dal sovversivismo delle classi dirigenti", parla di “questione morale”, di Berlinguer, di “diversità”, tutti riferimenti assai opportuni. Ma in nome di chi parlava Enrico Berlinguer? Non c’è bisogno di essere storici o filologi per rispondere. La base che si era scelta era il mondo del lavoro, principalmente il lavoro manuale, operaio. Nel superamento dell’individualismo e del corporativismo, nel “farsi classe” degli operai egli riconosceva un principio di solidarietà che poteva essere il fondamento di una nuova convivenza sociale e civile. Non dimentichi Asor Rosa che anche Gobetti, non solo Gramsci, vedeva nella classe operaia la potenziale artefice della “riforma intellettuale e morale” necessaria all’Italia. E Mussi ricordi che in Berlinguer gli anni della “questione morale” siano anche quelli della battaglia (persa) alla Fiat, della resistenza sulla “scala mobile”, che invece avrebbe potuto anche essere vittoriosa con Berlinguer vivo o senza le doppiezze dei Lama o dei Napolitano. L’esponente di SeL scrive che la situazione di oggi è anche responsabilità di chi a sinistra “ha contribuito a far cadere le resistenze politiche, le difese intellettuali e morali”. Perché non anche di chi, nella nostra parte e non solo tra i “padroni”, ha contribuito con parole e atti (leggi e contratti per esempio) a distruggere la solidarietà operaia, a smantellare la classe, trasformandola in “volghi spregiati”? So che l’antico richiamo di Brecht ai “rapporti di produzione” non suscita entusiasmi e che parole come “classe operaia”, “coscienza di classe”, sono giudicate “viete”. Sono viete perché vietate, perché dopo la grande sconfitta sembrano impronunciabili. Per non parlare della lotta di classe, vietissima, e vietatissima soprattutto agli operai, visto che i capitalisti la praticano tutti i giorni. Eppure io sono convinto che se non ritorneremo a pronunciare e a scrivere certe parole non faremo un passo avanti nella riconquista della civiltà e del civismo. Io comincio subito: classe operaia, sfruttamento, lotta di classe. E socialismo.
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