28.3.10

Fascisti ieri e oggi. Un incontro tra Moravia e Pirandello. L' articolo della domenica.

Questa storia l’ha raccontata Alberto Moravia, ne ho memoria precisa. Oggi non posso controllare la fonte, ma credo che sia ne L’uomo come fine.

Nei primi anni Trenta, il giovane Moravia aveva avuto un discreto successo con Gl’indifferenti. Meritato, credo: è un grande romanzo, forse l’unico che scrisse nella sua lunga vita; quel che di buono si trova qua e là negli altri (e cioè la rappresentazione e l’orrore del potere, soprattutto nella quotidianità) era già in quel primo stupefacente romanzo. Egli partiva un pomeriggio su una carrozza letto da Roma per Parigi. Vide (o forse glielo dissero) che in un'altra cabina, singola come la sua, viaggiava Luigi Pirandello. Non so se avesse già conseguito il premio Nobel, di sicuro era già un mostro sacro della letteratura e del teatro, un maestro riconosciuto. Moravia, che non lo conosceva di persona, senza grande speranza chiese al fattorino del wagon-lit di domandare, con la dovuta deferenza, al grande siciliano se avesse piacere ad incontrarlo. In verità con i giovani artisti Pirandello era quasi sempre disponibile, a maggior ragione con il Pincherle in arte Moravia di cui aveva letto e apprezzato il primo (ed, insisto, ultimo) romanzo.

A quanto pare ne nacque una simpatia, una di quelle simpatie tanto intense quanto provvisorie che sbocciavano nei treni quando ancora li si frequentava e ci si parlava. Rimasero perciò un’ora buona a conversare nella cabina dello scrittore girgentano, parlando del più e del meno. Quando credette di essersene guadagnato la confidenza il giovane prese il coraggio a due mani e, senza stare troppo a spiegare, chiese al vecchio come faceva a stare con “questi”. I “questi” di cui parlava erano i fascisti, la cui arroganza, volgarità e falsità non potevano di certo piacere a uno come Pirandello che aveva passato la sua vita a smontare la menzogna di cui è intrisa la condizione umana nella società. Moravia racconta che, fattosi serio, l’interlocutore lo fissò e gli disse:“Se lo ricorda lei il Parlamento?”.

Pirandello per altri versi era un grand'uomo, ma in quella occasione, per giustificarsi, era caduto in un grave errore di prospettiva. I fascisti non erano certo un’alternativa ai vizi del parlamentarismo d’antan, ne rappresentavano anzi il concentrato, la quintessenza. Il “mercato delle vacche”, il malaffare permanente, la facile demagogia, ai tempi dell’Italietta liberale, potevano essere di quando in quando conosciuti e smascherati; ora nell’Italiona del “mascellone” le ruberie e le ingiustizie potevano

svilupparsi senza intralci, alimentati e protetti da un regime che toglieva ogni libertà e per principio li nascondeva. Né il carnevale permanente della “romanità” era certo migliore della retorica liberale, democratica o socialista del tempo di Giolitti. Ma Pirandello, pur con il suo ingegno e il suo acume, non se ne avvedeva. Come meravigliarsi se oggi nella trappola cade tanta brava gente che non ha la sua testa?

Non parlo ovviamente dei “piccoli borghesi” sempre tentati dai fascisti, da sempre privi di socialità autentica, da sempre ostili agli operai, da sempre familisti, da sempre evasori fiscali. Né della vecchietta e del pensionato facilmente imboniti dal Berlusca e dai suoi Fede, Vespa e Minzolini. Parlo soprattutto di pezzi importanti di quel mondo popolare che aveva creduto nella sinistra e nel sindacato. C’è un tizio che va dicendo che l’Italia è strutturalmente un paese “di destra” e che la sinistra, se vuole governare, deve moderarsi e imbarcare un pezzo di destra. Io ricordo però una tornata elettorale, quella del 76, in cui quasi il 46 per cento dei votanti (e allora l’astensionismo era minimo) votò a sinistra (per il Pci, il Psi di De Martino, Dp, i radicali). Senza contare che umori di sinistra c’erano anche nell’altro 54 per cento, che votava per la Dc, i repubblicani, gli stessi saragattiani.

La verità è che il ceto politico di sinistra ha perso il suo popolo, soprattutto tra i ceti operai e popolari, ha perso il popolo che aveva e quello che avrebbe potuto avere. Non solo per la politica praticata, ma anche per lo stile di vita. Abbiamo visto gli eredi degenerati di Berlinguer predicare privatizzazioni, esaltare “capitani coraggiosi”, trasformare Palazzo Chigi in banca d’affari. E abbiamo visto a tutti i livelli ex-comunisti, post-comunisti e perfino neo-comunisti costituirsi in casta e aumentarsi appannaggi e privilegi, fare comunella con palazzinari e affaristi, costruirsi ville di lusso, comprarsi barche, favorire a tutto spiano mogli e mariti, segretarie e amanti, figli e nipoti.

E soprattutto in odio a loro che molti votano Lega o Berlusconi. So bene che quelli che circondano costui concentrano il peggio del ceto politico e affaristico di sinistra e di destra e che sono perfino peggiori dei fascisti di un tempo. Lo so perché ho studiato la storia e collego i fatti. Allora, qua e là, trovavi qualche idealista (o qualche imbecille) che pensava di fare l’Italia grande e nuova. Oggi, dal primo all’ultimo, tutti i quadri berlusconici, pur senza ripetere la sceneggiata fascista (“A chi l’Italia? A noi!”), sono convinti di partecipare a un “magna magna”. Ma, se l’idea di un potere meno corrotto e corruttore perché più concentrato poté sedurre Pirandello, perché non deve ingannare tante brave persone, che continuano a pensare sbagliando che “almeno Berlusconi è ricco del suo”?

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