La storia degli Stati uniti è anche la storia di uno scontro - troppo a lungo dimenticato dalla storiografia - tra la «civiltà dell’uomo bianco» e la tradizione degli indiani d’America: uno scontro tramutatosi presto in massacro delle popolazioni indigene costrette ad arretrare e cedere terreno di fronte all’avanzare dei coloni che venivano da Est. La «conquista del West» per anni fu un mito positivo della storia americana: imponendosi col ferro e col fuoco, la superiore tecnologia dell’uomo bianco estese su vastissimi territori rapporti di vita e di produzione assolutamente estranei a quelli delle popolazioni che avevano per secoli abitato quei territori. Per imporsi, l’economia di mercato, attuò un vero e proprio genocidio che soltanto negli ultimi decenni è stato sottoposto ad analisi storica. Quello che segue è un brano di un saggio del 1974 di Giorgio Corsini, contenuto in Storia degli Indiani del Nord America (Firenze 1974).
Geronimo |
Alla metà del XIX secolo una gran parte degli indiani d’America era stata definitivamente allontanata dalle regioni che originariamente essi popolavano e avviata in riserve sparse in ogni parte degli Stati uniti. Dovunque passavano i carri dei pionieri o le linee delle ferrovie, gli indiani erano costretti a cedere il passo ai conquistatori della frontiera. La teoria del Destino manifesto della giovane America voleva che gli uomini bianchi prendessero possesso delle terre, delle foreste e delle miniere di una nazione che, con l’inclusione della California tra gli stati dell’Unione (1850), si estendeva ormai dall’Atlantico fino al Pacifico e dal Canada fino al Messico. Allo scoppio della guerra civile, che avrebbe dato al paese la sua unità politica definitiva, vivevano ancora a Ovest del Mississippi circa 300mila indiani, quasi la metà di quelli che popolavano l’America all’arrivo dei primi coloni europei. Qui i Sioux, gli Oglala, i Cheyennes, gli Arapaho, i Kiowa, i Comanches, i Navaho e gli Apaches cercavano ancora di difendere, dal Dakota all’Arizona, la loro indipendenza.
È da queste tribù che sarebbero sorti gli ultimi grandi capi destinati a sostenere il confronto finale con i bianchi, ed è attorno a queste ultime figure leggendarie che sarebbe nata, più tardi, la moderna epica del West e della lotta con i pellirosse così come noi l’abbiamo conosciuta e rivissuta attraverso la letteratura e il cinema del nostro secolo. Ma è stato un mito alimentato da tutti i pregiudizi dei conquistatori e deformato dall’orgoglio di una razza che era convinta d’aver portato nel Nuovo Mondo i frutti migliori della sua civiltà. Non è un caso, perciò, che la storiografia dell’era della contestazione e dell’autocritica abbia scelto proprio il trentennio fra il 1860 ed il 1890 come soggetto della propria indagine per ristabilire la verità dei fatti e rendere giustizia ai veri protagonisti e alle vere vittime dell’ultima guerra degli indiani d’America contro i loro colonizzatori europei.
Mentre i Nez Percés (Nasi Forati) di Capo Giuseppe difendevano disperatamente le terre del Nord-Ovest, i Navahos e gli Apaches cercavano di opporre l’ultima resistenza nel Sud-Est. Nel 1863 la sorte dei Navahos era ormai segnata e dopo una serie di sanguinosi scontri protrattisi per oltre un anno il colonnello Carson li costringeva alla resa avviandoli, attraverso quello che fu definito il lungo cammino, in una riserva del Nuovo Messico dalla quale furono più tardi ricondotti nella loro nativa Arizona con la promessa che non l’avrebbero più abbandonata.
Fu pressappoco nello stesso periodo che anche gli Apaches, già lungamente provati dalle persecuzioni degli spagnoli e dei messicani, ebbero modo di sperimentare l’instabilità della pace che essi credevano d’aver realizzato con gli americani. La proditoria uccisione del loro capo Mangas Coloradas, nel 1862, scatenò il conflitto e per molti anni piccole bande capeggiate da guerrieri leggendari sparsero il terrore fra i bianchi e tennero costantemente impegnate le truppe. Geronimo fu certamente il più famoso di questi guerrieri e soltanto nel 1886 l’esercito riuscì a catturarlo e a rinchiuderlo a Fort Sill, nell’Oklahoma, dove morì quasi dieci anni più tardi, dopo essersi convertito al cristianesimo e dopo aver dettato le sue affascinanti memorie.
Gli ultimi indiani liberi ormai erano i cacciatori di bisonti delle praterie attorno ai quali si andava stringendo ogni giorno di più il cerchio aggressivo di trenta milioni di americani alla ricerca dell’oro e di nuove terre da coltivare. Di loro ci sono state descritte molte cose: le capanne di pelli di bisonte, le acconciature di penne d’aquila, i tomahawks che usavano per «scotennare i nemici», i calumets che fumavano per ratificare la pace con i loro amici, le danze religiose e le danze di guerra, la bellezza delle loro squaws e la saggezza dei loro anziani; ma accanto a tutto questo folklore si è accompagnato anche il mito dei loro «selvaggi» costumi e del loro carattere proditorio e sanguinario. Le vittime sono state trasformate in carnefici dalla mitologia moderna dell’uomo bianco, «ma ora - ha scritto lo storico Dee Brown - un secolo dopo, in un’epoca senza eroi, essi sono forse i più eroici di tutti gli americani».
Nel 1851 era stato stipulato, a Fort Laramie, un trattato con le tribù dei Cheyennes, dei Sioux, degli Arapaho e dei Crow, con il quale il governo degli Stati uniti garantiva agli indiani tutti i diritti di proprietà, di caccia, di pesca e di transito che a essi spettavano come abitanti di quelle regioni. Ma nel corso degli anni gli impegni non erano stati rispettati e migliaia di bianchi avevano violato la «frontiera» indiana riversandosi lungo la valle del fiume Platte e occupando senza scrupoli i territori che attraversavano. L’arrivo di minatori e di coloni, tra l’altro, implicava la creazione di forti militari per la loro protezione, la costruzione di strade e, più tardi, di ferrovie che avrebbero radicalmente alterato l’equilibrio ecologico di quelle zone e soprattutto gradualmente distrutto i bisonti che costituivano la più grande risorsa di caccia e di benessere per le tribù indiane. È naturale, quindi, che l’invasione bianca, in aperta violazione degli impegni che erano stati presi dal governo, provocasse risentimenti e scontri che sarebbero diventati sempre più sanguinosi nel corso degli anni. Spinti a forza fuori dalle loro terre, gli indiani cominciarono così una disperata difesa del loro santuario che provocò migliaia di vittime da ambo le parti e si concluse, nel 1890, con la vittoria definitiva dei bianchi.
L’ultima guerra dei pellirosse delle grandi pianure ebbe probabilmente inizio tra le foreste del nord dove i Sioux Santee, assediati da 15 mila coloni verso la metà del XIX secolo, tentarono invano di stabilire rapporti di pacifica convivenza con i bianchi. Delusi dal comportamento dei coloni, sotto la guida di Piccolo Corvo, essi incominciarono così ad attaccare forti e villaggi catturando numerosi prigionieri. Questo provocò un massiccio intervento di truppe che, il 26 settembre 1863, invasero il loro campo liberando i bianchi qui rinchiusi e facendo prigioniera la maggior parte degli indiani. Un processo sommario decretò la condanna a morte di 303 guerrieri Santee, ma il presidente Lincoln fece eseguire la sentenza soltanto per 38 condannati che vennero pubblicamente impiccati. Gli altri vennero rinchiusi in prigione e 1.700 fra donne e bambini vennero trasportati a Fort Snelling tra le violenze della folla che assisteva al loro passaggio. Piccolo Corvo, spintosi verso le pianure dove avrebbe voluto unirsi agli altri cugini Sioux, venne ucciso nel luglio successivo da due coloni che speravano di riscuotere la taglia di 25 dollari promessa dallo stato del Minnesota per ogni scalpo di indiano che fosse stato consegnato alle autorità».
Da La conquista 3: Nazioni, supplemento a "il manifesto", 5 ottobre 2010
Da La conquista 3: Nazioni, supplemento a "il manifesto", 5 ottobre 2010
Nessun commento:
Posta un commento