Todorov è studioso di lettere e di arti, di storie e di storia tra i più estrosi e geniali. In Francia sembra aver ereditato da Roland Barthes il ruolo di grande decrittatore dei miti di ieri e di oggi, muovendosi tra codici di comunicazione affatto differenti, almeno in apparenza. Il suo ultimo libro, da poco tradotto in italiano per Donzelli, è L’arte o la vita! Il caso Rembrandt. Una recensione di Tiziano Scarpa su “Saturno”, il supplemento letterario de “Il Fatto Quotidiano” del 16 settembre scorso, che riprendo con un diverso titolo dal sito “Il primo amore”, pone in relazione questo lavoro di Todorov e la pratiche mediatiche dell’Italia d’oggi, specialmente dei fogli di destra. (S.L.L.)
Rembrandt, autoritratto 1630 |
Va bene, Todorov: per essere artisti bisogna rinnegare la vita, sfruttare i propri cari, usare gli esseri umani come attrezzi, e soprattutto essere spietati con sé stessi, masochisti, autosequestratori, monomaniaci: è l’opera che conta, sempre l’opera, soltanto l’opera.
Dare forma a un’opera giustifica ogni genere di sopruso verso la vita: “La ricompensa, quando c’è, consiste nel suscitare in innumerevoli lettori, spettatori o ascoltatori, di paesi ed epoche diverse, l’impressione di essere chiamati in causa personalmente da quelle opere. La provvisoria solitudine avrà generato una comunicazione infinita” . Sono le conclusioni del prezioso saggio su Rembrandt del critico bulgaro-francese, che per la verità non tengono conto fino in fondo della situazione attuale: anche i posteri, per l’artista, oggi sono un’illusione, visto che la specie umana sta mettendo a rischio sé stessa esaurendo le risorse planetarie (ne trae le conseguenze Carla Benedetti in Disumane lettere).
Non è la prima volta che Todorov si occupa di pittura: dopo alcuni libri sull’invenzione dell’individualità nella pittura fiamminga, quest’anno in Francia è uscito Goya à l’ombre des Lumières. Del pittore olandese invece Todorov privilegia i disegni e le stampe rispetto ai dipinti, non fa pettegolezzi biografici, si basa sulle immagini, mostra come per Rembrandt l’arte fosse un modo di conoscere, non di amare. Gli muore un neonato dopo l’altro, e lui raffigura i bambini dei vicini, l’affetto paterno degli altri. La moglie si ammala e agonizza, e lui la disegna più da patologo che da marito sconsolato. Perfino negli autoritratti adopera sé stesso come farebbe un regista con un attore, senza rispettare la propria personalità, ma per scavalcarsi e diventare tanti personaggi diversi.
Può sembrare una questione marginale, ma ha non poco peso politico, oggi. Avete mai fatto caso alla voluttà con cui i giornali fanno gossip su grandi artisti, intellettuali, scrittori del passato? “Corriere della Sera”, “Il Foglio”, “Il Giornale”: è tutta una lista della spesa, un grondare di meschinità, amici traditi, coniugi andati fuori di matto.
Come mai tutta questa solerzia demolitrice della destra? Semplice: arte e letteratura oggi sono uno dei pochi varchi per accedere alla parola pubblica. La rappresentanza politica è bloccata, i divi dei media imperversano. Riescono a far sentire una voce diversa quei romanzi, film o opere d’arte che devono sgusciare fra libri di ricette, ruffianate di deejay, noir di telegiornalisti. Dunque bisogna dimostrare che non c’è niente di più abietto dell’ambizione di artisti e scrittori, e che ogni opera non è altro che l’espressione del loro egoismo. Il significato della letteratura e dell’arte finisce per coincidere con il caratteraccio degli autori. Non c’è opera o atto pubblico che non scaturiscano da tornaconto e vanità. La bellezza fa schifo.
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