Natalia Ginzburg |
Massimo Ottolenghi se la ricorda bene, Natalia Ginzburg poco più che bambina, «con la frangetta e i capelli tagliati corti», un po’ ostica e un po’ lontana. Gli occhi erano gli stessi descritti da Cesare Garboli in un memorabile articolo a proposito di Mai devi domandarmi , ora ripubblicato insieme al libro che da venerdì sarà in vendita con La Stampa: «infantili, neri e pungenti, innamorati e impietosi». Torino odorava di campagna, con il mercato dei bozzoli in corso Vittorio Emanuele fino al bar Platti, e quello del grano in piazza Bodoni, davanti al Conservatorio. Il futuro partigiano di Giustizia e Libertà, che a 95 anni ha lanciato una sfida assai giovanile con il suo bestseller Ribellarsi è giusto (Chiarelettere), era appena di un anno più anziano; a quell’età un anno poteva significare molto. E i ragazzi possono essere spensieratamente spietati.
C’è una pagina in Mai devi domandarmi che è nello stesso tempo lucida e struggente, definitiva. Riguarda proprio il primo giorno di ginnasio, quando la Ginzburg, che aveva superato la licenza da privatista, si ritrovò in una classe dove tutti venivano da scuole pubbliche. In un solo istante misurò la differenza sociale, culturale, famigliare, persino di linguaggi che la divideva dai compagni. «Ero sola nel banco, ed ero l’unica a essere sola»: c’è già tutta la scrittrice che verrà, il suo stile nato dall’aver appreso ancor prima di diventare adulta - sono parole di Garboli - «esattamente il contrario della letteratura», ovvero «la difficile piemontese civiltà della reticenza», facendone appunto grande, a tratti misteriosa, letteratura.
Massimo Ottolenghi non poteva badare a queste cose. Gli adolescenti come lui pensavano ad altro. Guardavano con ammirazione ai più grandi, che poi non erano dei grandi qualsiasi, e stavano entrando senza saperlo, con la sola forza dell’istinto, fra quei «comunisti in braje curte» battezzati così dal professor Augusto Monti per via dell’età e dei calzoni al ginocchio, e da Vittorio Foa che ha tramandato l’espressione. Gli è rimasta un’immagine, un ricordo vivissimo: Leone Ginzburg «a rompicollo dalle scale del liceo», già portatore di un carisma speciale. Ottolenghi comunista non era. Sarebbe diventato una delle anime del Partito d’Azione, nella Resistenza e nei primi anni della Repubblica, ma in quel momento pensava più alle partite di calcio nella piazza della Crocetta, il quartiere borghese dove confluivano anche i ragazzi di Borgo San Paolo, la «Stalingrado» operaia.
«Torino era una città a compartimenti stagni. La partita di pallone era un modo per superarli, per conoscere i ragazzi di barriera. Fra loro ho trovato amici veri, che durante le persecuzioni razziali mi sono stati più vicini di molti altri, dell’ipocrita borghesia e anche degli ambienti universitari». Padre ebreo, madre cattolica: per molto tempo non significò nulla, fino al brusco risveglio delle leggi razziali. Ma allora il mondo era ancora la via Pál. «Eravamo i “gagnu”, i rompiballe ficcanaso che non la smettevano di correre dietro ai più grandi», racconta. Anche gli echi di quelle partite arrivavano a Natalia, pronti a essere trasferiti nel Lessico famigliare : perché fra i partecipanti c’era Alberto, uno dei fratelli della scrittrice, amico fraterno di Giancarlo Pajetta, il cui fratello minore, Giuliano, era lo scatenato compagno di banco di Ottolenghi.
Il burbero professor Giuseppe Levi, pater familias all’antica, si arrabbiava moltissimo per la perdita di tempo, come racconta la figlia. Tutti lo temevano un po’, anche il giovane Ottolenghi, che lo incrociò per anni, sul tram numero uno. Ma quello non era solo il tram della linea circolare, si trattava di un vero «salotto intellettuale». E anche di una sala di lettura semi-clandestina. «I giornali stranieri erano proibiti. Solo all’edicola della stazione di Porta Nuova si trovavano l’ Osservatore Romano e la Tribune de Genève. Le copie erano numerate, e gli sgherri dei circoli rionali controllavano a chi erano state vendute. Noi per evitare guai affittavamo il giornale. Lo si portava sul tram, lo si passava di mano, e prima di sera lo si riconsegnava all’edicola».
I tempi si facevano sempre più difficili, i ginnasiali crescevano, ma il professor Levi continuava a ispirare un certo timore. «Carattere roccioso, di poche parole, un burbero, forse un po’ misantropo». Dava della «scempia» alla moglie, se giudicava che si dedicasse ad attività futili come il solitario di Napoleone, con le carte. «E i figli, all’occorrenza li chiamava asini». Non lo erano affatto. «Mario Levi fu uno dei primi ad essere arrestato, e divenne il nostro eroe». Per non parlare delle tre «squinzie», come venivano chiamate in famiglia le amiche di Natalia adolescente. Sono immortalate in un passo di Lessico famigliare : «Squinzie significava, nel linguaggio di mia madre, ragazzine smorfiose e vestite di fronzoli. Quelle mie amiche non erano, a me sembrava, né tanto smorfiose, né tanto vestite di fronzoli: ma mia madre le chiamava così riferendosi al tempo della mia infanzia».
La Ginzburg non dice di più. Massimo Ottolenghi va oltre, perché se le ricorda bene: erano conoscenze comuni, «due sorelle Debenedetti e Marisa Diena, che sarebbe diventata partigiana e poi importantissima esponente del Pci. Amiche di mia sorella». Fra il tram numero 1 e la via Pallamaglio del Lessico famigliare, fra i licei D’Azeglio e Alfieri, in pochi metri cresceva una nuova Torino e forse una nuova Italia. «La via Pallamaglio ora si chiama via Morgari, ci passavo ogni giorno per andare a scuola», racconta. Era ancora un po’ «gagnu», ma stava maturando opinioni fermissime, le stesse dei suoi quasi novantasei anni. «Devo ammettere che ero già prevenuto contro la scuola, ero un ribelle. Mi feci bocciare in quarta ginnasio perché non sopportavo l’educazione fisica, materia importantissima per il regime, non riparabile a ottobre».
I professori di ginnastica erano la punta di diamante del fascismo. «Il nostro, al D’Azeglio, derideva il mio compagno Emanuele Artom perché non sapeva fare le pertiche; trovavo la cosa insopportabile». Artom è stato un eroico partigiano, morto nel ‘44 per le torture subite dai nazisti. Altro che pertiche. Era già una forma aperta di antisemitismo? «Direi di no. Era cattivo gusto fascista. L’antisemitismo vero l’ho visto in Austria, quando stavo già per laurearmi: una libreria in fiamme. Tornato in Italia ne parlai molto preoccupato. Tutti mi risposero: qui non succederà niente».
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