150 anni fa giungeva a compimento l'unificazione politica della maggior parte della penisola italiana con l'aggiunta della Sardegna e della Sicilia e si formava il Regno d'Italia. Non era tuttavia l'Italia cui aspirava la gioventù più avanzata e combattiva.
Quest'esito tutt'altro che soddisfacente è oggi documentato da un bel libro di Paolo Brogi, La lunga notte dei Mille (Editore Aliberti, Euro 19), attraverso le vicende individuali dei garibaldini. Ne posto qui la reecensione di Sarah Panatta dal sito del Sindacato Scrittori "Le Reti di Dedalus". (S.L.L.)
La partenza da Quarto |
No, non si può tornare.
Alla patria sospirata, nei pensieri ingenui e testardi di ribellione romantica architettata, negli atti mercenari, nelle stragi/strategie faziose, nei mercanteggiamenti mafiosi sfigurata, alla meglio da faccendieri/sovrani/burocrati rabberciata.
Non è questa l’Italia che volevamo.
I sopravvissuti alla Spedizione, all’impresa che secondo le recidive, affaticate stime ufficiali (Gazzzetta Ufficiale 12 Novembre 1878) contava milleottantanove arruolati, dei quali settantotto periti “facendo” la zoppa Italia che li avrebbe poi brutalmente disconosciuti, nella maggioranza dei casi divennero, nella nazione infante, ospiti indesiderati, schegge impazzite di un gioco diplomatico, militare, economico che li includeva come pure, moleste pedine. Molti attesero la pensione da reduci sgranocchiando giorni mendicati. Altri, pochi, trovarono fortuna come commercianti e viaggiatori, o come politicanti nel governo in divenire.
Gli irriducibili, gli animi bellicosi, egualitari e repubblicani, a stento alcuni riassemblati nell’esercito regio, tutti inghiottiti dal delirio reazionario postunitario, tentarono nuove lotte, intestine ma anche estere. Indigeribili precipitati di una rivoluzione sgradita, marcirono allora nelle galere dei sediziosi, nei manicomi della penisola, negli espatri volontari o coatti dei reietti. Decine gli autoesiliati in America Latina ad esportare/radicare/isolare germi di industriosa italianità. Fenomeno dilagante i suicidi, contrappasso beffardo o estremo scatto d’emancipazione per quanti non sopportarono la trappola di un’identità fittizia, negletta nelle veci di una negata.
Perciò Raffaele (un ex frate garibaldino) dopo anni di tribolazioni, metamorfosi avventurose e velleità repubblicane affogate dai “signori” nel sangue dei miseri, pianta in asso la vita e le sue amarissime disillusioni con un chiodo martellato nel proprio cranio nel tramonto estivo del 1880. Incipit raggelante, grottesco. Il giornalista Paolo Brogi sceglie il suicidio pulp del garibaldino Raffaele Piccoli per spianare i riflettori su La lunga notte dei Mille. Testo torrenziale sebbene agile, giustapposizione di piani temporali e di voci – narrate sotto forma di lettere, telegrammi, comizi, dicerie, ricordi –, insieme eterogeneo, non caotico ma acutamente frazionato, “disperso” in unità osmotiche, tasselli biografici e storici che l’autore da cronista-romanziere segue e rimescola, intrecciando i diversi destini di tanti Mille alle limacciose vicende franate sulle camicie rosse dopo il 1861. Brogi si pone quale contrappunto necessario e squillante all’epica malinconica e critica del regista Mario Martone (Noi credevamo, Ita 2010). Ricercatore minuzioso, affastella con la grazia del divulgatore dati e date, battaglie e statistiche, senza comprimerle in un resoconto lineare, bensì incastonandole in un impianto a spirale che coglie in evoluzione la sintesi pungente e tridimensionale di decine di esistenze.
Indossando con elegante sarcasmo la maschera del necrofilo che spulcia nelle cripte del nostro rimosso storico, Brogi si assume un’incombenza inedita/inaudita, recuperando alla luce accadimenti abilmente occultati dalla liturgia della memoria ufficiale. Scava negli spazi di buio dell’unità italica, pescando nel mare dei milleundici scampati alla Spedizione, lasciati poi naufragare nell’anonimato, su barconi malfermi, alla deriva in acque perennemente straniere. L’Italia nuova, snob e ipocrita, non riconobbe, anzi deliberatamente liquidò con un benservito frettoloso i suoi primi eroi, uomini comuni, analfabeti, laureati, truffatori, studenti, manovali, possidenti, “senza mestiere”, rei di aver servito non supinamente ideali di libertà indicibili, di aver assecondato i piani di un Generale incontrollabile e destinato pertanto ad essere sedato, di avere bramato e quasi trovato la chiave per scardinare i domini avventizi e opportunisti che incatenavano il Paese e sempre lo avrebbero soffocato.
Brogi riconsegna anatomie fisiche e mentali a quelle creature da dagherrotipo insudiciato, consumate dalla battaglia contro il “conformismo mediocre” che si ripiegò su di esse come manto di infamia, veleni e reticenze. Come carcere d’oblio che imbavagliò persino i meno inclini ai compromessi, bruciati infine da un’impossibile ansia di lealtà e verità. Brogi non canta l’elegia-elogio dei martiri dell’Italia ingrata, bensì ricostruisce gli ultimi anni, talora decenni, della vita di alcuni emblematici attori di un drammatico esodo a cui neppure le fanfare del centocinquantesimo hanno posto rimedio. Interpretando silenziosamente la riflessione corsiva del Dottor Edoardo Herter, garibaldino trevigiano rannicchiato nei panni stretti di una migrazione casuale, adottato dal sud desolato di un’inospitale, algida Argentina, coscienza in controcampo che dilata il racconto in essenziali pause di raccordo e commento, Brogi si tramuta in insider, testimone invisibile di una notte fosca. Senso d’inadeguatezza, depressione, smarrimento, fomentato anche dal disordine amministrativo, fame, di pane e d’ideali, abbandono agli sguardi ciechi e alla promiscuità normativa di una nazione irriconoscente e puerile.
I Mille si ritrovarono, all’alba dell’unità sofferta, in una plaga di impotenza, costretti a tornare in un guscio alieno. Cani “sciolti” di un esercito smembrato, formalmente ignorati dal re, furono etichettati come appestati, pericolosi atomi cancerogeni per una civiltà monarchica alle prime armi incapace di assimilare senza annullare il rosso di quelle camicie. Degradati coloro che non abbandonarono la carriera militare. Corsi ai ripari di matrimoni sbrigativi coloro che ambivano ad una normalità resettabile. Lanciati nella scalata politica i più sfrontati detrattori del nuovo ordine o amalgamati nei ranghi delle convenzioni e delle gerarchie assoggettate i più pavidi e/o “trasformisti”.
Fuggiti ai quattro angoli d’Italia e del mondo tutti gli altri. Ma l’identità collettiva era stata già dissolta da un ordine odioso. Scioglietevi. La stessa battuta fa recitare alle sue marionette garibaldine Giuseppe Copler, che prima di riprendere l’attività di mugnaio, vaga quattro anni da artista di strada, lunga la via del “ritorno”.
Sciolte nell’oceano le traiettorie di tantissimi altri, volti all’America, magari a sparare contro i nordisti alla guida di colonne di ex schiavi, come Agostino Lombardi, o nelle Garibaldi Guards, come il colonnello corso Casalta d’Ornano. Oppure ad “esercitare” nell’umiltà di casupole squadrate, confitte nell’immensità sabbiosa e non poco razzista e superba della pampa, dopo esser transitati, esaminati e classificati in un’Oficina de Trabajo, avamposto sconsolante del dispatrio. Sciolti nelle magie da prestigiatore gli spiriti bollenti di Bartolomeo Marchelli, principe delle fiere e dei mercati di piazza, battendo Appennino ligure e Piemonte divenuto il “Bazàra” dei paesi, bizzarro bazar di ricordi e cianfrusaglie. Sciolta nella funebre sterilità di una croce l’umiliazione del garzone Giuseppe Gussago per un vitalizio elargito quale dono incommensurabile. Ricoagulati invece nei disastri della campagna polacca contro lo Zar Alessandro o nel mattatoio etiope certi anarchici desideri di liberazione.
Brogi esplora vestigia tumulate dai venti siberiani o dalle cospirazioni immobiliari della Roma “sagrestia” papalina, dove il garibaldino Pianciani, nel costante braccio di ferro con un governo moderatamente destrorso, per ben due volte riesce a vestirsi da sindaco dimezzato. L’autore snida vezzi e vizi di quotidiane tribolazioni, ma anche e soprattutto le piaghe moderne ed ereditarie della nazione in culla: il conservatorismo voltagabbana dei principali quotidiani; il marcio dei primi scandali “unitari” (paradossale apripista il garibaldino pisano Giuseppe Civinini, regista occulto di una maxiprivatizzazione che lo portò al vaglio di un’epocale inchiesta brillantemente superata fin nei suoi strascichi); le infiltrazioni mafiose e l’ipoteca “brigante” sul Sud. Brogi scatta una foto di gruppo brulicante di grandi, scottanti nomi, scorrendo frenetico la storia patria e internazionale, tra scoperte scientifiche, intrallazzi di poltrone, naufragi, epidemie, funerali e “annullamenti”.
La parabola degradante della moglie di Crispi, Rosalie, Madame Crispì, unica donna dei Mille, sempre al fianco del marito, da questi ripudiata e ricacciata nel disonore dell’isolamento, in una vecchiaia priva d’affetti. Bixio alle prese con il colera nelle isole della Sonda, morto cercando ricchezza nelle rotte orientali, seppellito a Sumatra sotto “un alto palmizio”. La bellissima e prolifica Teresita, figlia del Generale, e il suo combattivo sposo Canzio, ovunque militante, anche in Bosnia. Il fiero contadino Giuseppe Nuvolari, amico di Garibaldi, devoto accolita dello sparuto gruppo “allontanato” a Caprera. Il prefetto Carmelo Agnetta, pioniere di giustizia soffocata, di stanza a Massa Carrara, “focoso e aggressivo”, incompatibile per temperamento col governo dei “bravi”. La cremazione mancata di Garibaldi, ennesima raffinata beffa. Agostino Depretis a Stradella, altro ed alto prestigiatore, mestierante di “giravolte” e mistificazioni. L’anniversario burletta del 1885, le lettere contro Crispi e le inascoltate invettive anticolonialiste del garibaldino Bezzi, il terremoto di Messina, le macerie sollevate prima dai soccorritori del Baltico, poi da equipaggi inglesi, infine dagli imperdonabili ritardatari nostri soldati.
E ancora, la retorica molle e fiammeggiante di Gabriele D’Annunzio alla commemorazione del 1915, fluttuante come l’orizzonte di una generazione (dall’undicenne al settantenne) ineluttabilmente, colpevolmente censurata. Ammutolita e sperduta come Stefano Boasi, paziente dell’edificio bianco, l’enorme simbolico manicomio di Quarto, tomba sacrificale, “con tutti i suoi segreti e i suoi guai” d’una memoria che ancor oggi si sposta, assediata da una secolare, pilotata “ignoranza”, sempre più in là, con i suoi fasci arrotolati d’erba rattrappita diretti ai ghiacciai perenni di un’inetta, subdola “notte”.
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