“Mercoledì ore 12,15, città universitaria: un tonfo, un grido di donna, un movimento ondeggiante,incerto, come di fuga all’inizio e poi di raccolta, di ressa, di spintoni, di domande, sotto il parapetto del palazzo, cento teste chinate, e in terra un po’ accartocciato, la faccia schiacciata al suolo, il corpo di un giovane”.
Così su “L’Espresso” dell’8 maggio 1966 Lino Jannuzzi racconta la morte di Paolo Rossi, assassinato da una squadra di fascisti che girava indisturbata e protetta dal Rettore Papi e dalle altre autorità accademiche all’Università di Roma. Rossi aveva diciannove anni, origini perugine ed era una matricola di Architettura. Era iscritto alla Federazione giovanile socialista e da socialista era impegnato nella campagna per l’elezione degli organismi studenteschi.
Fu grande la reazione a Roma e altrove. Nella capitale la facoltà di Lettere, occupata per protesta dagli studenti antifascisti, il Rettore chiama la polizia per sgomberarla con la forza. Invano l’Università viene quasi subito rioccupata e con gli studenti solidarizzano le sinistre, sia di governo che di opposizione. Pietro Nenni, che è vicepresidente del consiglio visiterà le facoltà occupate, e solidarietà porteranno il segretario del Psi Francesco De Martino e il comunista Pietro Ingrao.
Uno dei momenti più alti e commoventi della riscossa antifascista è il funerale di Rossi. L’orazione funebre è tenuta da Walter Binni, italianista, che è uno tra i più prestigiosi docenti dell’Ateneo. Il suo discorso, che qui ripropongo, pubblicato nell’immediato dal mensile socialista “Mondoperaio” (n.4 1966) è stato inserito nel numero 7-8 del 2011 de “Il Ponte”, interamente dedicato a Walter Binni. Si tratta a mio avviso di un testo esemplare dell’arte oratoria, non solo per l’evidente sincerità degli accenti, ma anche per la sua costruzione, per la sua originale sintassi.
Bellissimo è l’incipit, in cui non accade quanto solitamente accade in questi casi e cioè la riduzione della vittima a simbolo. Qui invece lo studente Rossi è perfettamente individuato e ricordato nella sua irripetibile individualità. Durissimo è l’attacco agli assassini fascisti e alle altissime complicità nel mondo accademico: Binni rifiuta persino di pronunciare il nome del rettore. Suggestivo e nobile il finale. Il ritmo della prosa che alterna concinnitas e inconcinnitas, cioè periodi armonici e inattese spezzature, la lingua sorvegliatissima, stringata e insieme ricca di sfumature e di sorprese contribuiscono a farne un vero capolavoro. (S.L.L.)
Orazione funebre per Paolo Rossi, pronunciata a Roma il 30 aprile 1966. «Mondoperaio», n. 4, 1966.
Così su “L’Espresso” dell’8 maggio 1966 Lino Jannuzzi racconta la morte di Paolo Rossi, assassinato da una squadra di fascisti che girava indisturbata e protetta dal Rettore Papi e dalle altre autorità accademiche all’Università di Roma. Rossi aveva diciannove anni, origini perugine ed era una matricola di Architettura. Era iscritto alla Federazione giovanile socialista e da socialista era impegnato nella campagna per l’elezione degli organismi studenteschi.
Fu grande la reazione a Roma e altrove. Nella capitale la facoltà di Lettere, occupata per protesta dagli studenti antifascisti, il Rettore chiama la polizia per sgomberarla con la forza. Invano l’Università viene quasi subito rioccupata e con gli studenti solidarizzano le sinistre, sia di governo che di opposizione. Pietro Nenni, che è vicepresidente del consiglio visiterà le facoltà occupate, e solidarietà porteranno il segretario del Psi Francesco De Martino e il comunista Pietro Ingrao.
Uno dei momenti più alti e commoventi della riscossa antifascista è il funerale di Rossi. L’orazione funebre è tenuta da Walter Binni, italianista, che è uno tra i più prestigiosi docenti dell’Ateneo. Il suo discorso, che qui ripropongo, pubblicato nell’immediato dal mensile socialista “Mondoperaio” (n.4 1966) è stato inserito nel numero 7-8 del 2011 de “Il Ponte”, interamente dedicato a Walter Binni. Si tratta a mio avviso di un testo esemplare dell’arte oratoria, non solo per l’evidente sincerità degli accenti, ma anche per la sua costruzione, per la sua originale sintassi.
Bellissimo è l’incipit, in cui non accade quanto solitamente accade in questi casi e cioè la riduzione della vittima a simbolo. Qui invece lo studente Rossi è perfettamente individuato e ricordato nella sua irripetibile individualità. Durissimo è l’attacco agli assassini fascisti e alle altissime complicità nel mondo accademico: Binni rifiuta persino di pronunciare il nome del rettore. Suggestivo e nobile il finale. Il ritmo della prosa che alterna concinnitas e inconcinnitas, cioè periodi armonici e inattese spezzature, la lingua sorvegliatissima, stringata e insieme ricca di sfumature e di sorprese contribuiscono a farne un vero capolavoro. (S.L.L.)
Funerli di Paolo Rossi cerchiato Walter Binni |
Abbiamo accompagnato la salma di Paolo Rossi nel suo ultimo percorso verso la tomba, abbiamo già vissuto e sofferto il momento del distacco delle sue spoglie, il momento del “mai piú” che lascia ogni uomo incredulo, e impersuaso, colmo di dolore di fronte alla cesura inesorabile della morte, alla perdita della persona irripetibile, fonte del nostro inesausto rimpianto, della nostra non accettazione di un “fatto” di cui nessuna saggezza, nessuna fede possono effettivamente, interamente dar ragione e consolare.
Paolo Rossi non è piú qui con i suoi amici, con i suoi compagni, con i suoi genitori, con la sua sorella. Non sarà piú, come poteva e doveva essere, per la sua età e vitalità, diretto promotore di incontri, di amore, di colloquio, di opere, di atti di vita.
Egli scompare dalla terra nell’età della primissima gioventú, quando egli piú ardentemente si apriva alacre e puro, originale e creativo, agli impegni piú intensi della cultura, dell’arte, della società, a cui era chiamato, e già partecipava, dalle sue native qualità e dall’educazione alta, esemplare, aperta, e serenissima che aveva avuto dai suoi genitori. Enzo e Tina, artisti e persone di altissima sensibilità intellettuale e morale, i miei cari amici degli anni di una gioventú tormentata e illuminata dalla Resistenza al fascismo e al nazismo (quando essi furono combattenti per la libertà) e dalle indimenticabili e brevi speranze della Liberazione, nella nostra città di Perugia, alla cui bellezza profonda e severa, al cui paesaggio spontaneo e luminoso la mia mente commossa non può non associare quei ricordi lontani, e l’affetto per quel giovane umbro.
Dalla città natale Paolo era venuto ancora bambino a Roma e qui era cresciuto fra i primi studi e la scelta decisiva dello studio dell’arte e dell’architettura che lo portò, all’inizio di questo anno accademico, sui 19 anni, ad iscriversi alla Facoltà di architettura, dove frequentava, con avidità di cultura e con rigore intransigente di appassionato e lucido giudizio, le lezioni di Zevi, e di Quaroni, che sarebbero stati i suoi maestri liberi e congeniali e che ora lo piangono insieme agli amici e agli estimatori di lui e dei suoi genitori.
Paolo, a Roma fin da ragazzo, aveva associato allo studio, all’amore profondo dell’arte di cui avidamente seguiva tutte le manifestazioni, nella letteratura, nel teatro, nella musica, anche l’amore per l’attività sportiva che aveva contribuito a rendere particolarmente vigoroso il suo corpo snello ed elegantissimo, e che aveva variamente esercitato insieme al suo bisogno di vita associativa nello scoutismo cattolico. Cosí come lo ricordano anche quei padri canadesi della sua parrocchia e della sua associazione, i quali hanno voluto spontaneamente e pubblicamente ricordare, in questi giorni tristissimi, accanto alle sue qualità morali e intellettuali, anche la sua robustezza e prestanza, di contro ai turpi tentativi di spiegare la sua tragica morte come dovuta a malattia e a debolezza fisica e nervosa, assurda in chi, sciatore e rocciatore, sarebbe stato colto da capogiro e vertigine su di un muretto alto pochi metri.
Forte e padrone delle sue forze fisiche e morali, Paolo viveva intensamente il frutto della sua natura e della sua educazione familiare, in un costume di lealtà assoluta, di chiarezza mentale e morale, di volontà e coraggio di verità, su cui egli aveva fondato anche la sua religiosità aperta e spregiudicata. Né questa, in lui cosí autentica e ricca di prospettive di svolgimenti e di ampliamenti culturali, gli aveva in alcun modo precluso scelte politiche decise nel campo democratico di sinistra fino alla sua iscrizione alla Federazione giovanile socialista, in cui egli intendeva portare e realizzare – anche con salutare e giovanile impazienza e irrequietezza – il suo bisogno di lotta per la giustizia sociale di tutti e per tutti, per la libertà di tutti e per tutti.
In questi ultimi mesi, nel contatto con l’università e con le offerte culturali piú valide e aperte, egli si veniva rapidamente maturando sempre meglio, unendo e articolando le sue esigenze di impegno culturale e politico che lo avevano coerentemente portato a prendere subito posizione nelle associazioni studentesche democratiche coerenti alla sua prospettiva socialista, a partecipare ad una lotta decisa – pur nel suo bisogno profondo di apertura, di persuasione, di rifiuto di ogni forma di violenza e faziosità – contro le forze dell’incultura, della rozzezza mentale e morale, del terrorismo teppistico, con cui egli si trovò subito in netto, intransigente contrasto.
Ora, nell’apertura piú luminosa della sua giovane vita, nell’impegno dell’esercizio piú attivo ed intero della sua purezza morale, della sua intelligenza, della sua fantasia fervida, egli è stato violentemente, bruscamente, drammaticamente, strappato alla vita, al futuro, agli amici, ai compagni, ai maestri, ai genitori.
Nulla ci può ripagare della sua scomparsa, della perdita della sua presenza sensibile, su cui, chi lo conobbe e anche chi solo lo ha, in questi giorni, «conosciuto» nelle fotografie e nella descrizione degli amici, ha lungamente e tristemente fantasticato, vagheggiando affettuosamente i tratti puri, l’inclinazione e il taglio del suo volto lieto e pensoso, intelligente e intensamente serio.
Ora egli e noi siamo stati privati di tutto ciò.
Ma non dal caso, da un incidente fortuito, secondo una vile riduzione della sua morte e del significato di questa, a cui ci opponiamo con tutte le forze del nostro sdegno e del nostro disprezzo morale, umano, civile.
Perché altrimenti saremmo qui riuniti in una vastissima assemblea di docenti, studenti di Roma e del resto d’Italia, uomini di cultura, lavoratori, uomini politici, parlamentari di tutti i partiti antifascisti, fino al vicepresidente del Consiglio Pietro Nenni, al segretario del Partito socialista De Martino, i quali questa sera visiteranno ufficialmente le facoltà occupate?
Perché altrimenti tutte le facoltà di architettura d’Italia sarebbero chiuse e tante università chiuse od occupate con la bandiera a lutto?
Perché altrimenti la parte migliore e piú vera dell’Italia sarebbe qui presente o realmente o attraverso messaggi e manifestazioni che si svolgono contemporaneamente in tante altre città italiane?
Perché allora il Paese sarebbe, com’è noto, scosso da un moto profondo di dolore, di collera, di protesta, di volontà di lotta, in uno di quei rari momenti della verità e della coscienza, che contano piú della politica pratica e che sono le radici profonde della stessa politica e della stessa azione concreta?
Perché, perché è morto Paolo Rossi?
Anzitutto perché egli era un giovane democratico e antifascista, e in Italia, dopo la Liberazione, da tempo muoiono violentemente solo i democratici e gli antifascisti! Tale sua qualità lo designava insieme agli altri giovani democratici antifascisti alle aggressioni brutali, alla abbietta volontà distruttiva di quei gruppi di azione squadrista che da tempo agiscono indisturbati e incoraggiati nell’Università di Roma esercitando, con pertinace bestialità, quel costume di violenza, ancora pubblicamente difeso e propagando fino in Parlamento da quei tetri straccioni intellettuali e morali che danno l’avvio ai giovani teppisti.
Straccioni e teppisti e, a livello piú profondo, sventurati che cercano con l’attivismo squadrista e la violenza, di compensare la loro incapacità a vivere nella dimensione e nella misura degli uomini veri, essi che non hanno nulla capito della vita e della storia, nulla della civiltà, nulla dell’umanità, di cui essi rifiutano e spezzano i vincoli profondi, nulla delle parole inutilmente rivolte loro da chi si sforza (e con quanta fatica e ripugnanza!) a volerli considerare pur uomini, a proporre loro una superiore legge di discussione, di rispetto dell’avversario, invece della sua distruzione fisica.
Ma Paolo è morto anche perché troppo grande è la sproporzione, la tragica sproporzione del nostro Paese fra una maturazione vasta di ideali democratici e una prassi di avversione, o quanto meno di diffidenza a questa, là dove essi dovrebbero essere tutelati e difesi contro i velenosi frutti della educazione alla violenza. Perché troppa è la distanza fra la Costituzione nata dalla Resistenza e la mentalità e la pratica dei detentori di strumenti repressivi spesso inadeguati o spesso addirittura contrari al loro scopo costituzionale.
In questa sproporzione, troppo a lungo, troppo a lungo, si è persistito, sin nel recente passato, nel costruire quegli strumenti, che dovrebbero funzionare a difesa dei diritti costituzionali dei cittadini e della vita democratica, in maniera decisamente contraria, sostenendo, e a volte incoraggiando e premiando arbitri e sopraffazioni, purché compiuti a danno dei democratici. Né ci si può accontentare delle piú recenti buone intenzioni certo interessanti, promettenti, ispirate da coscienza antifascista e democratica, se ad esse non seguono atti concreti e coerenti, di cui l’attuale governo democratico ha non solo tutte le possibilità, ma anche il dovere.
In questo contesto piú generale la morte tragica di Paolo Rossi deriva da una causa piú vicina e legata all’Università di Roma.
So di pronunciare un giudizio gravissimo e durissimo, e come vecchio professore universitario avrei preferito non dover essere stato costretto dai fatti a pronunciarlo come esso è e deve essere, cosí opposto recisamente agli avalli assurdi da parte di chi, per la sua stessa autorità specifica, avrebbe potuto e dovuto almeno attendere di conoscere l’ordine del giorno votato dal Consiglio della Facoltà di lettere, il verbale della relativa seduta, le numerose dichiarazioni e testimonianze di docenti, studenti, parlamentari dei partiti di opposizione e di governo.
Quell’ordine del giorno e quelle dichiarazioni denunciano fra le responsabilità del tragico avvenimento, un modo di governo di questa Università e un uomo di cui non intendo qui fare il nome, perché esso macchierebbe, con la sua vicinanza, quello del giovane morto per l’aggressione fascista e per le possibilità ad essa concesse da quel detentore del potere universitario romano. Di quell’uomo non si sa se piú condannare l’incoscienza e l’imprevidenza o la cosciente faziosità, l’assenza o la presenza negativa in queste tragiche giornate, quando egli, oltretutto, non ha neppure considerato doveroso di venir di persona sul luogo della tragica vicenda, non ha ritenuto doveroso e umano di prendere diretto contatto con i genitori di Paolo, di recarsi dove un suo studente agonizzava e moriva a causa dell’aggressione fascista e viceversa si è preoccupato, con gesto inaudito nella storia dell’Università italiana, di chiamar subito la polizia per invitarla a sgomberare con la forza (come purtroppo la polizia ha fatto e poteva non fare) la Facoltà di lettere occupata pacificamente da studenti e docenti. E poi non si è vergognato di rilasciare ad una stampa compiacente ed interessata dichiarazioni patentemente false e insultanti per la memoria della vittima.
Quell’uomo, dico, è certamente da un punto di vista morale e non solo morale responsabile della morte di Paolo Rossi. Egli ne ha preparato la morte con infiniti atti di assenza e di presenza negativa, con l’incoraggiamento dato ai gruppi violenti e anticostituzionali, lasciandoli liberi di provocare e aggredire gli studenti democratici e inermi, di insultare docenti ed uomini del piú alto valore morale ed intellettuale, tollerando e difendendo la presenza di scritte anticostituzionali in locali da lui controllati, rifiutando di prendere nella dovuta considerazione denunce precise degli organismi studenteschi democratici, proteste di illustri docenti, lasciate spesso villanamente senza risposta.
Quale meraviglia allora se in questo clima da lui creato si poteva giungere alla tragica morte di uno studente democratico?
D’altra parte, quale meraviglia, se neppure una tragedia simile è bastata a far comprendere a quell’uomo i suoi doveri e – una volta che ancora questi venivano da lui ignorati – a fargli comprendere l’elementare necessità di abbandonare un posto cosí indegnamente occupato.
Dolore, sdegno, protesta, si fondono e convergono di nuovo nella memoria bruciante e nell’omaggio che rendiamo alla giovane vittima che abbiamo accompagnato verso la tomba. Vittima inerme e pure non inconscia delle ragioni e degli ideali che l’hanno condotta a morte, Paolo credeva e voleva che il mondo fosse liberato da ogni oppressione, fosse piú aperto, piú puro, piú degno degli uomini veri. E perciò prendeva posizioni ed impegni con se stesso e con gli altri. E, poiché era studente, riteneva suo dovere lottare per un rinnovamento profondo dell’università. E poiché era studente a Roma, riteneva suo dovere anzitutto lottare contro la vergogna della violenza fascista in questa Università. Per questo (e non per un’impossibile consolazione ai suoi genitori, a cui ci stringiamo affettuosi e fraterni, pregandoli solo di sentire il grande amore che sale verso di loro da tutti noi, la riconoscenza nostra per avere dato vita ed esempio ad un giovane di cosí alte qualità) noi intendiamo salutare Paolo Rossi, non solo con un rimpianto profondo, ma con un impegno virile e civile. Egli stesso, per la sua vita e per la sua morte, non ci chiede tanto onoranze e rimpianto (nessuno di noi lo dimenticherà mai, lo avremo presente nelle ispirazioni piú alte della nostra vita) quanto ci chiede – anzi comanda – con la voce assoluta dei morti (i morti non si possono tradire, non si possono smentire, non si possono abbandonare alla morte e alla solitudine del sepolcro), ci comanda un impegno coerente al significato della sua vita e della sua morte. Ci comanda di essere fatto vivere da noi nella nostra azione costante e indomabile per i suoi e i nostri ideali.
Un’azione concreta, coraggiosa, intesa a far sí che Paolo sia l’ultima vittima di una situazione assurda e vergognosa, a far sí che, intanto e subito, questa Università sia resa pulita e decente, a far sí che tutta l’università italiana abbia una vita interamente democratica, sicura, degna, e che ciò trovi posto in una energica trasformazione democratica di ogni aspetto della vita del nostro paese; poiché la lotta per l’università non è che una parte della nostra lotta per il rinnovamento del nostro paese.
Questo impegno viene qui preso da quanti qui siamo riuniti. Ma soprattutto, pensando a Paolo io mi rivolgo ai giovani, agli studenti. Essi sono il nostro futuro (quel futuro che Paolo portava in sé e che gli è stato crudelmente negato), essi sono la nostra virile speranza (quella speranza che è stata atrocemente recisa nella vita di Paolo), essi sono coloro che porteranno piú avanti nel tempo la prosecuzione di questa nostra lotta: una lotta democratica, coerente ai metodi e ai fini della democrazia, decisissima nella scelta di ciò che rende degna la vita degli uomini e nel rifiuto di tutto ciò che la deturpa, la contamina e la rende peggiore della morte.
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