15.3.12

1966, un’intervista dimenticata. Con Dylan ad alta quota (di Alberto Piccinini)

Robert Shelton e Bob Dylan in una foto del 1964
Da un “alias” recente un magnifico Alberto Piccinini: molto di più che la recensione di un libro, ma un racconto di vita, il profumo di un tempo irrevocabile, il fantasma di un mondo irrimediabilmente perduto. (S.L.L.)
Suze Rotolo e Bob Dylan nel 1962
«Suze Rotolo te lo può raccontare, perché Suze sa meglio di tutti quello che ascoltavo nel 1961, nel 1962, quando non c’era nessuno attorno: i dischi di Elvis Presley. E ti racconterà quante notti sono rimasto sveglio a scrivere canzoni, e gliele ho fatte sentire e le ho chiesto se andavano bene. Perché i suoi genitori stavano nel sindacato e lei era da un pezzo coinvolta con le robe di uguaglianza e libertà, da molto prima di me».
È una notte di marzo 1966. In volo su un bimotore privato tra Lincoln e Detroit dove suonerà l'indomani, Bob Dylan parla a ruota libera dentro un registratore a bobine. Di tutto: politica, amore, sesso, rock’n’roll, soldi. Ha 25 anni e ha appena finito di registrare Blonde on Blonde, uno dei suoi dischi capolavoro. È in tournee da sei mesi, è stravolto, ma non molla. «Ci vuole un sacco di medicina per tenere questo ritmo», confessa a un certo punto al suo interlocutore, con un occhiata di intesa.
Robert Shelton, che tiene il microfono è il quarantenne critico musicale del New York Times. È un amico. Conosce Suze Rotolo, l'ex fidanzata di Dylan immortalata sulla copertina di The Freewheelin. Conosce bene l'ambiente per non scandalizzarsi di fronte alla «medicina»: da che mondo è mondo i musicisti rock'n'roll si tirano su con l'anfetamina durante le tournée massacranti. Non farà una piega di fronte al torrenziale eloquio notturno del cantante, strafatto e confuso in una nuvola di fumo, eight miles high.
«Sono felice, sai, sono felice soltanto di poter attraversare le cose. – spiega Dylan - Non ho bisogno di essere felice. Felicità è una parola stupida. C'è un tipo di felicità che è molto, molto snob. Mettiamola così, non sono il tipo che si taglierebbe un orecchio se qualcosa non va. Preferirei suicidarmi. Mi sparerei in testa se le cose andassero male». Da sei mesi Shelton ha iniziato le ricerche per scrivere la prima biografia del cantante, ormai una rockstar assoluta. E un divo paranoico, schivo, imprevedibile, con un aura pazzesca dietro i ray-ban scuri tenuti giorno e notte. Uno che non usa mezze misure coi giornalisti: o li ridicolizza pubblicamente nelle conferenze stampa, o racconta loro una marea di cazzate. Per Shelton ha fatto un'eccezione: «Non chiedermi quando dormo, non chiedermi come ce la faccio (...) A parte questo va tutto bene, chiedimi quel che vuoi e io ti risponderò...». Sarà la prima e ultima volta. Il giornalista sa di avere un asso da usare nella trattativa con le case editrici. Ha bisogno di anticipi generosi per lavorare. Pensa a un libro serio, lungo, superdocumentato e senza pettegolezzi. Ma la cosa non giocherà a suo favore.
Nonostante il contratto firmato con l'editore Doubleday, No Direction Home/ The Life and Music of Bob Dylan uscirà soltanto vent’anni dopo per un altro editore - l’inglese New English Library - tagliato di più della metà. La grande scena della confessione in aereo, pensata come un’introduzione di sicuro effetto cinematografico sarà espunta per motivi di spazio. È stata ritrovata soltanto di recente, pubblicata nella nuova versione del libro uscita in occasione del settantesimo compleanno di Dylan. Oggi che la bibliografia del cantante occupa un volume intero, No Direction Home ci appare come la testimonianza di un toccante e meraviglioso fallimento. La cosa più vicina alla verità nella vita di un vertiginoso contapalle come Dylan, che incontrando da sconosciuto ventenne lo stesso Shelton, aveva millantato di aver suonato con Gene Vincent e Bobby Vee, e imparato il blues dai grandi maestri neri incontrati, chissà quando, ai quattro angoli del paese. Quella volta il giornalista non infierì: «Dylan è vago a proposito del suo passato e della sua nascita, ma da dove viene importa meno di dove sta andando».
Facendosi intervistare più volte tra il 1966 e il 1974, Bob Dylan pagava un debito di riconoscenza.
Shelton aveva firmato la prima recensione di una sua esibizione: 400 parole finite per caso in cima alla pagina, con una foto e un titolo a tre colonne. L'attacco: «Un nuovo luminoso volto della musica folk è apparso al Gerde's Folk City...». E poi: «I vestiti avrebbero bisogno di una stirata, ma quando suona la chitarra, l'armonica o il piano, è un esplosione di talento».
Il giorno dopo, 29 settembre 1961, il cantante aveva girato per il quartiere camminando a due metri da terra, col Times arrotolato nella tasca dei pantaloni, mostrando l’articolo a tutti quelli che incontrava. Due settimane dopo venne il contratto con Albert Hammond della Columbia Records.
Fu Shelton a scrivere le note di copertina del suo primo album, con uno pseudonimo, per non infrangere le rigide regole del suo giornale. Robert Shelton era un uomo cordiale, appassionato di musica, un’entusiasta che faceva parte della fauna del Village. Il suo appartamento nel quartiere era aperto a tutti, e Dylan aveva dormito più di una volta sul divano. Una leggenda maligna e mai confermata vuole che Albert Grossman, che diventerà il manager storico del cantante, gli avesse «pagato» il pezzo con un generoso credito illimitato al bar. In ogni caso, il New York Times non era cosa da poco. Shelton aveva raccontato da quelle colonne agli americani l'epopea del folk revival, e non solo. Più di una sua recensione - da Joan Baez a Janis Joplin - era stata usata da manager scaltri per oliare le trattative con le case discografiche. Ma il giornalista non sembrava curarsene granché. E forse c’era un motivo.
Figlio di immigrati russi, si era laureato a Chicago in una delle migliori università del paese. A 25 anni era copy editor al Times. A 30 era finito nel tritatutto della caccia alle streghe, assieme a trenta giornalisti della testata indagati dalla sottocomissione del Senato per la sicurezza interna. Omeglio, la convocazione risultava a nome di un certo Willard Shelton, un anziano editorialista freelance, ma in redazione trovarono lui e pensarono che potesse andar bene lo stesso. Shelton, aveva servito nell’esercito in Francia durante la guerra, e reagì con indignazione e rabbia. Invece di impostare la sua difesa sullo scambio di persona, per due volte si rifiutò di rispondere alla commissione invocando il Primo Emendamento, e per due volte fu condannato. Il suo caso fu chiuso nel 1963, ma intanto per prudenza la direzione lo aveva spostato dal servizio attualità al servizio spettacoli.
«Non sono la stessa persona di cinque anni fa. È come se fossi lui». L’aereo plana verso Detroit. Dylan ha le bozze del suo libro Tarantula su un ginocchio, e una busta con le poesie che gli ha lasciato un ragazzo incontrato all'aeroporto, sull'altro ginocchio. Indica con la mano uno dei musicisti degli Hawks, la sua band. Dormono tutti. «Non rinnego niente, ma non ero io. Stai parlando di qualcosa che ha fatto qualcun altro». «Posso dirlo quando citerò cose che hai scritto o detto in passato, allora?», interviene Shelton. «Certamente. Va bene, ma mettilo nel contesto. È stato fatto da - è sanguinato dalla mia mano e dal mio braccio». «Da chi?» «Dal mio cervello».
Due anni dopo quell’intervista ad alta quota, Shelton aveva lasciato il giornale e gli Usa. Si era trasferito in Inghilterra per lavorare a tempo pieno alla biografia. Ma a poco a poco la corrispondenza con l’editore - che mal sopportava la sua ferrea resistenza a svelare il Dylan più privato, e le continue richieste di anticipi - si era diradata. Quasi dimenticato da tutti, per sopravvivere si era messo a scrivere recensioni di cinema per piccoli giornali locali. Di notte non smetteva di lavorare ai capitoli del libro che sarebbe uscito nel 1986, quando oltretutto l’aura di Dylan sembrava essersi definitamente consumata.
Robert Shelton è morto nel 1995 a Brighton, malato di diabete. Aveva 69 anni. Suze Rotolo è morta lo scorso febbraio. Bob Dylan ha compiuto 70 anni due settimane fa. La Bbc ha trasmesso alla fine dello scorso maggio i nastri dell’intervista volante di Shelton. A un certo punto il cantante parla di «una dipendenza dall’eroina da 25 dollari al giorno», e la cosa ha creato un certo scalpore. Nella versione che Shelton diede alle stampe, significativamente, quella frase non compare. «Un sacco di gente pensa che mi faccio di eroina - riporta invece il giornalista, che conosceva bene le strategie del suo paranoico interlocutore -. Ma sono cazzate. Io faccio un sacco di cose. Ehi, non ti sto raccontando bugie, adesso non stare a chiederti quello che faccio veramente. Faccio un sacco di cose che mi aiutano. E sono abbastanza lucido da capire che non devo dipendere da niente per vivere».

“alias – il manifesto” 18 giugno 2011

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