Giuseppe Rensi |
A ormai settant’anni dalla sua morte, avvenuta a Genova nel 1941, Giuseppe Rensi, nonostante una breve fase di revival, rimane ancora un pensatore misconosciuto e trascurato tanto dalla grande editoria, quanto dalla storiografica accademica.
Rensi – che da giovane (era nato a Villafranca di Verona nel 1871), fu costretto a trascorrere un non breve periodo di esilio in Svizzera, perché accusato di aver preso parte ai disordini del 1898 – sembra ancora scontare, ampiamente post mortem, l’irriducibile libertà della sua indole, che lo spinse a scegliere per la sua tomba l’epigrafe: «Etsi omnes non ego» («Sebbene tutti, non io»). Una scelta che riassume perfettamente la parabola esistenziale di un intellettuale perennemente controcorrente: si pensi alla sua coraggiosa denuncia delle degenerazioni del regime fascista, che gli costò, tra l’altro, l’allontanamento dall’insegnamento universitario (quanti altri professori universitari contemporanei a Rensi ebbero un simile coraggio?).
D’altra parte, la sua filosofia così radicalmente critica nei riguardi del progresso fece sì che Rensi continuasse ad essere largamente ostracizzato anche nel secondo dopoguerra. Per una seria rivalutazione dell’opera dello studioso si dovettero aspettare i recuperi editoriali della casa Adelphi, cominciati, nel 1987, con la ristampa di Lettere spirituali, prefata nientemeno che da Leonardo Sciascia, e i fondamentali contributi critici di Nicola Emery, che introdusse anche la traduzione francese, apparsa presso Allia, di un altro testo essenziale di Rensi La filosofia dell’assurdo (uno dei pochi titoli di Rensi reperibili in libreria).
Ciò nondimeno, molti importanti volumi rensiani, più che meritevoli di una ristampa, rimangono ancora irreperibili, a cominciare dalla sua opera fondamentale, Lineamenti di filosofia scettica del 1919 (non più ristampata dal 1921). Una lacuna editoriale davvero ingiustificabile, tanto più che Rensi è anche dotato di uno stile limpido e cristallino, che ha mantenuto intatto il fascino delle sue pagine. È dunque quanto mai opportuna la riproposta, presso La vita felice, di Apologia dello scetticismo (introduzione di Armando Torno, pp. 144, euro 10,50), un testo che fa il paio con Apologia dell’ateismo, che lo stesso editore aveva ristampato due anni fa (le due «apologie» risalgono rispettivamente al 1926 e al 1925).
Per Rensi la difesa dello scetticismo rappresenta innanzitutto una forma di reazione alla filosofia allora dominante, l’idealismo di Croce e Gentile, a cui il pensatore veronese, con il suo consueto spirito anticonformista, si oppose drasticamente. È piuttosto noto l’aforisma in cui Rensi ribalta l’equazione hegeliana tra realtà e razionalità: «ciò che è reale è irrazionale; ciò che è razionale è irreale». La definizione dello scetticismo che si legge in questa Apologia è un perfetto corollario di quella memorabile sentenza anti-hegeliana: «Lo scetticismo è (...) la negazione che il mondo, il reale, i fatti siano deducibili dalla ragione, abbiano una ragione, siano ragione, e che questa quindi ricavando da sé possa approdare al reale medesimo. Questo, e nient’altro, è lo scetticismo: cioè negazione della razionalità del reale (della deducibilità di esso dalla ragione), negazione del razionalismo e dell’idealismo».
Di solito per liquidare lo scetticismo si adopera l’argomentazione, un po’ grossolana, che i fautori di questa filosofia sostituiscono alle verità assolute, che essi distruggono, una verità non meno incrollabile: che non possa esistere nessuna verità. Così Rensi ribatte a questa obiezione: «esso (lo scetticismo) nega l’esistenza di una verità assoluta, per così dire, imposta apoditticamente e universalmente dalla ragione (...). Non nega già una verità mutabile, qua e là, o prima e poi, diversa,
relativa». Ne consegue che «la formula dello scetticismo, più esatta che non quella "non c’è verità", è la seguente: – ecco i fatti; essi non hanno alcuna spiegazione (essenziale, razionale); essi non hanno alcuna ragione».
Nei capitoli della sua Apologia, Rensi applica la sua prospettiva filosofica scettica agli ambiti della
metafisica, della religione, della gnoseologia, della logica, dell’etica, della politica e, infine, dell’estetica (alla quale aveva già dedicato, nel 1919, un’opera importante, molto amata da Eugenio
Montale, La scepsi estetica). I principali riferimenti filosofici di Rensi sono Spinoza, Hume, Pascal e, sopra tutti, Leopardi. In anni in cui si negava all’opera leopardiana ogni valore speculativo (si pensi al celebre saggio leopardiano di Croce), Rensi riconobbe nell’autore dei Canti il «filosofo per
eccellenza dell’Italia».
Citato a più riprese nell’Apologia dello scetticismo, Leopardi ispira moltissimi scritti rensiani, tra cui il sapido opuscolo Il troppo, appena riproposto per le cure di Aniello Montano dalle edizioni La scuola di Pitagora, che già nel 2009 avevano ristampato un altro notevole volume di Rensi, La morale come pazzia (pp. 16, euro 2). Il titolo rinvia, per l’esattezza, a un aforisma leopardiano che ricorre più volte nello Zibaldone: «il troppo è il padre del nulla». Un assioma nel quale Rensi scorge
una prefigurazione del destino dell’Occidente: «Troppi libri, troppa musica (radio), troppi quadri (atlanti d’arte, cartoline illustrate), troppi cibi e varietà di cibi, troppe vesti e varietà di vesti, troppe vetrine di negozi, troppi viaggi, troppe specialità medicinali, troppo tutto».
Come Spengler (a cui è stato giustamente avvicinato), Rensi riteneva che l’Occidente, dopo aver raggiunto il suo culmine, il suo troppo, fosse ineluttabilmente destinato a tramontare, finanche ad annientarsi: «Nello stesso momento in cui civiltà e cultura giungono alla loro massima efflorescenza, si creano con ciò da se medesime la propria impossibilità e necessariamente rovinano, spezzate dalle inattuabili e contraddittorie esigenze che hanno generato nel proprio seno».
Non è questo, in fondo, uno dei rischi più essenziali che corre, ancora oggi, la nostra civiltà?
"il manifesto", 14 giugno 2011
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