14.3.12

Giulio Girardi, il Che e le speranze deluse del Concilio (di Jacopo Manna)

Per ricordare Giulio Girardi, da poco scomparso, ho “postato” all’inizio di questo marzo 2012 una sua intervista a Stella Spinelli di qualche anno fa. 
Oggi recupero da "micropolis" un vecchio articolo di Jacopo Manna, che ebbe come occasione la presentazione perugina di un libro di Girardi su Che Guevara. Il testo, breve e sugoso, faceva anche il punto sulla “normalizzazione” intrapresa da Wojtila e continuata da Ratzinger. Alla stagione conciliare attraversata da esperienze radicali e speranze di rinnovamento ecclesiale successivamente deluse, l’ex-salesiano partecipò con intelligenza, coraggio e coerenza. (S.L.L.) 

Su Girardi vedi su questo blog
http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2012/03/dioe-piu-grande-del-cristianesimo.html.
Il 18 marzo, su invito dell’Associazione Culturale Primo Maggio, Giulio Girardi ha presentato a Perugia il suo ultimo lavoro, Che Guevara visto da un cristiano (Sperling&Kupfer, pp. 306, euro 11,50). Già il pubblico che occupava la sala circoscrizionale “San Tommaso” poteva dare indirettamente un’idea delle vicende attraversate da questo ex-salesiano, testimone privilegiato del Concilio Vaticano II e protagonista del dialogo tra marxismo e cristianesimo: all’incontro erano venuti ragazzi e ragazze in età da studi universitari, signore e signori brizzolati o canuti, ma pochissimi ascoltatori compresi tra i trenta e i quarant’anni.
Mancavano cioè appunto le persone cresciute nel periodo in cui i fermenti e gli impulsi di quello straordinario Concilio erano stati ricomposti e spesso addomesticati dal pontificato di Giovanni Paolo II, e alle quali il nome di Girardi è assai meno familiare di quello di don Giussani (o di don Mazzi). Un giorno forse sarà possibile valutare in pieno l’opera di normalizzazione e di esclusione
con cui questo pontefice (o i suoi collaboratori) censurarono, espulsero ed emarginarono i più irrequieti e i meno pacificabili tra gli eredi del messaggio lanciato dalla Populorum Progressio e dalla Gaudium et Spes: che però si sia trattato di una demolizione efficace lo dimostra già adesso la percezione che molti, troppi cattolici hanno di quell’evento, visto come una sorta di generale e generico abbraccio nel nome della Pace e dell’Umanità sotto l’egida del Papa Buono (tutti rigorosamente con la maiuscola, generici e destoricizzati).
Per capire che si trattava di ben altro bisognerebbe andare a rivederseli, quei documenti, e anche le lettere pastorali, la pubblicistica, i saggi diffusi all’epoca da editori che conducevano una mirata campagna di diffusione delle idee nuove (un ruolo eminente lo assunse subito l’assisana Cittadella Editrice); si scoprirebbe che il Vaticano II apriva le porte anche alla possibilità di leggere la storia in termini di lotta di classe, e che la stessa esegesi delle Scritture ne poteva venire influenzata. Di lì a poco il sacerdote peruviano Gustavo Gutierrez gettò le basi di quella che avrebbe poi preso il nome di Teologia della liberazione: seguirono anni di un dibattito teso e appassionante, in cui a polemizzare con le gerarchie romane furono spesso (e non a caso) religiosi formatisi a stretto contatto col proletariato del Terzo Mondo. Brasiliani come i fratelli Boff, centroamericani come Ernesto Cardenal, ma anche italiani come Arturo Paoli, inviato in Argentina a fare il missionario dopo essere stato defenestrato da Azione Cattolica…
Di questo elenco fa parte anche Giulio Girardi, ottant’ani lucidamente portati e vissuti da militante coerente e tenace: docente di filosofia già da giovanissimo, poi responsabile del Segretariato per i Non Credenti, sembrava destinato a occupare un ruolo di primo piano nella Chiesa post-conciliare. Le cose andarono ben diversamente: a fare da punto di rottura furono forse, più che i princìpi espressi nelle pagine incandescenti di Cristianesimo, liberazione umana e lotta di classe (1971, testo fondamentale per una intera generazione di cattolici irrequieti) le prese di posizione esplicite di Girardi a fianco dei “Cristiani per il socialismo”, movimento che identificava nella lotta all’alienazione borghese il presupposto per la realizzazione degli ideali evangelici. Sospeso dal sacerdozio, espulso dai Salesiani, Giulio Girardi ha vissuto da professore universitario facendo continuamente la spola tra Europa e America Latina, testimone della rivoluzione cubana e della sua tormentata evoluzione.
Di questa lunga vicenda il suo ultimo libro riferisce adeguatamente: a un’età in cui sarebbe logico tirare i remi in barca e magari dedicarsi all’autobiografia, Girardi si mette invece a fare da capo i conti con l’insegnamento guevarista. Cosa sta ancora in piedi, di tutto quanto il “Che” ha fatto e scritto, in un mondo in cui i normali riferimenti della sinistra sembrano essere saltati? Perché un personaggio così legato a un preciso momento storico mantiene inalterato il proprio ruolo esemplare? Cosa può imparare, da questa personalità, un cristiano coerente?
Girardi identifica lo specifico di Guevara (e in genere della rivoluzione cubana) in un’attenzione diretta e sentita ai bisogni dei miserabili, e in una volontà di reagire all’ingiustizia, che mancherebbero completamente nel marxismo di origine sovietica. Quest’ultimo, accusato di fondarsi su una valutazione meccanicista dei processi storici, scinde completamente il rinnovamento sociale ed economico da quello personale ed interiore, che considera come una logica conseguenza delle modifiche di struttura. Per Guevara, passato dalla giovanile ammirazione per Stalin all’idea di un comunismo ben diverso, libertario e interiormente vissuto, la costruzione di una società socialista non permette di separare le due fasi, e chiede una rottura irreversibile con la mentalità autoritaria e oppressiva che, retaggio del capitalismo, rischia di trasmettersi anche alla prassi rivoluzionaria.
In questo sentirsi direttamente chiamato in causa, al punto da avvertire come proprie tutte le sofferenze inferte agli sfruttati, sta la persistenza della lezione guevarista e il punto di contatto col credo cristiano: l’identificazione coi dannati della terra è il primo passo per uscire dalla condizione di privilegiato (e, in quanto tale, complice dell’ingiustizia). Ma coincide anche con l’acquisizione di un punto di vista privo di autocompiacimento, capace di rilevare gli errori della prassi e di correggere la rotta, rivedendo criteri e strumenti: conquista essenziale per il credente non meno che per l’ateo. Che poi i mezzi di lotta possano cambiare a seconda delle necessità storiche, il volume di Girardi lo verifica in due interessanti capitoli, uno dedicato al movimento zapatista e l’altro al confronto tra le idee del “Che” e quelle di Camillo Torres.
Forse, trascorsa l’epoca in cui la personalità carismatica di Wojtyla riusciva a riassorbire e riequilibrare le molte contraddizioni di una Chiesa in tensione, si potranno riaprire discorsi e questioni tenute a lungo in sordina: libri come questo, per il momento, lasciano ben sperare.

"micropolis", marzo 2006

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