Sul Conte di Montecristo di Dumas è già bresente in questo blog un brano dalla prefazione di Lanfranco Binni per la riedizione nel Grandi Libri di Garzanti (http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2011/12/il-conte-di-montecristo-un-romanzo.html ). Riprendo qui un ampio stralcio da un vecchio articolo di Umberto Eco, che prospetta una lettura almeno in parte divergente. (S.L.L.)
Alexandre Dumas padre |
Il Montecristo scappa da tutte le parti. Pieno di zeppe, spudorato nel ripetere lo stesso aggettivo a distanza di una riga, incontinente nell'accumulare questi stessi aggettivi, capace di aprire una divagazione sentenziosa senza più riuscire a chiuderla perché la sintassi non tiene, e così procedendo e ansimando per venti righe, è meccanico e goffo nel disegnare i sentimenti: i suoi personaggi o fremono, o impallidiscono, o si asciugano grosse gocce di sudore che colano loro dalla fronte, o balbettando con una voce che non ha più nulla di umano, si alzano convulsamente dalla sedia e vi ricadono, con l'autore che si premura sempre, ossessivamente, di ripeterci che la sedia su cui son ricaduti era la stessa su cui erano seduti un secondo innanzi, manca solo che vi si dica, come d'obbligo, «le sue mani erano fredde come quelle del serpente»! E la noia dell'interludio romano, che si poteva risolvere in un capitolo, e sia pure che Dumas era partito da quell'idea ed è stato solo il suo «negro» Maquet a merlargli che il romanzo sarebbe stato migliore se avesse iniziato dalla falsa accusa a Dantès e dalla sua odissea carceraria (pensate, se non interveniva Maquet con questa idea di montaggio, non avremmo avuto il castello d’If e l’abate Faria!).
Perché Dumas facesse così, lo sappiamo bene. Non perché non sapesse scrivere. Il Tre moschettieri è più secco, rapido, magari a scapito della psicologia, ma fila via che è un piacere. Dumas scriveva così per ragioni di denaro, era pagato un tanto a riga e doveva allungare. A parte che mentre scriveva a due mani il Montecristo stava nel frattempo stendendo la Signora di Monsoreau, i Quarantacinque, il Cavaliere della Maison-Rouge, e iniziava a pubblicare il romanzo da Pétion quando ancora il feuilleton doveva finire (né lui sapeva come, interrompendosi talora per sei mesi) sul Journal des Debats (siamo tra il 1944 e il 1946).
Ecco che si spiegano così quelli che altrove ho chiamato «dialoghi a cottimo» (rinvio al mio Il superuomo di massa, Bompiani) dove gli interlocutori, andando a capo a ogni battuta, si dicono per una o più pagine frasi di puro contatto, come due scioperati in ascensore: allora vado, bene vai, addio allora, addio, ci rivedremo? forse stasera, lo spero bene, posso prendere congedo?, ti prego, sei sui carboni ardenti, buongiorno, buongiorno, grazie di tutto, allora vado, vai, addio.
E poi gli equilibrismi metaforici, da circo, da vecchia nonna arteriosclerotica che non riesce a tenere la consecutio temporum...
Non ultima ragione di tedio, Dumas si adegua ai propri lettori popolari, di cui mima una conversazione intessuta di frasi fatte e luoghi comuni, ma non una alla volta, spesso tutte insieme, per guadagnare un'altra riga. Infine, 1'esigenza comune a tutto il romanzo d'appendice, anche per ricuperare i lettori-disattenti da puntata a puntata, di una ripetizione ossessiva del già noto, così che un personaggio racconta un fatto a pagina cento, ma a pagina centocinque incontra un altro personaggio é gli ripete paro paro la stessa storia — e si veda nei primi tre capitoli quante volte Edmond Dantès racconta a cani e porci che intende sposarsi ed è felice: quattordici anni al castello d'If sono ancora pochi per un piagnone di questa razza.
Detto questo bisogna tornare all'affermazione d'inizio. Montecristo è uno dei romanzi più appassionanti che mai siano stati scritti. In un colpo solo (o in una raffica di colpi, in un cannoneggiamento a lunga gittata) partendo dalla storia sciapa di Peuchet riesce a inscatolare nello stesso romanzo tre situazioni archetipe capaci di torcere le viscere anche a un boia. Anzitutto, l'innocenza tradita. In secondo luogo l'acquisizione, per colpo di fortuna, da parte della vittima perseguitata, di una fortuna immensa che lo pone al di sopra dei comuni mortali. Infine la strategia di una vendetta in cui periscono personaggi che il romanzo si è disperatamente ingegnato a rendere odiosi oltre ogni limite del ragionevole.
Ma non basta. Su questa ossatura si dipana la rappresentazione della società francese dei cento giorni e poi della monarchia di Luigi Filippo, coi suoi dandies, i suoi banchieri, i suoi magistrati corrotti, le sue adultere, i suoi contratti di matrimonio, le sue sedute parlamentari, i rapporti internazionali, i complotti di Stato, il telegrafo ottico, le lettere di credito, i calcoli avari e spudorati di interessi composti e dividendi, i tassi di sconto, le valute e i cambi, i pranzi, i balli, i funerali. E su tutto troneggia il topos principe del feuilleton, il Superuomo. Ma diversamente che in Sue (I misteri di Parigi) e in tutti gli altri artigiani che han tentato questo luogo classico del romanzo popolare, Dumas del superuomo tenta una sconnessa e ansimante psicologia, mostrandocelo diviso tra la vertigine dell'onnipotenza (dovuta al denaro e al sapere) e il terrore del proprio ruolo privilegiato, in una parola, tormentato dal dubbio e rasserenato dalla coscienza che la sua onnipotenza nasce dalla sofferenza. Per cui, nuovo archetipo che si innerva sugli altri, il ponte di Montecristo (potenza dei nomi) è anche un Cristo…
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