14.3.12

Un profilo di Aragon politico (di Rossana Rossanda)

Il 28 dicembre 1982, per la morte di Aragon, Rossana Rossanda scrisse per “il manifesto” un lungo ricordo di un incontro con il poeta francese nel 1964 e lo corredò del profilo che segue firmato r.r., con il titolo Un profilo di Aragon letterato e politico, utilissimo ma in verità sbilanciato sul politico. Sulla ricerca letteraria che Aragon sviluppò, sulle sue invenzioni e strategie, sulle opere realizzate c’è poco più di qualche accenno. (S.L.L.)    
Non c'è parte dì Francia che non pianga la morte di Louis Aragon. Otto raccolte dì poesie, dal 1926 al 1963, nove romanzi (di cui uno, I comunisti, in ben sei volumi) dal 1926 al 1974, innumerevoli saggi, traduzioni, interventi — ecco il bilancio di un 'opera immensa nella quale la repubblica delle lettere onora, e non da oggi un uomo che solo ad essa è stato interamente fedele.
Perfino André Breton, con il quale la rottura era stata più grande, aveva scritto che nessuno più di Aragon era capace di inseguire «l'insolito in ogni sua forma, le fantasmagorie inebrianti d'una vita
sfuggente alla vita". Perfino il cattolicissimo Paul Claudel ne aveva riconosciuto l'incanto. Perfino il calpestato André Gide si è rallegrato di trovare nelle poesie del 1941 “quanto di meglio avesse let-
to da anni”. Perfino Claude Roy, che non ne aveva ricevuto che cattiverie, scrisse che “Aragon era assieme il coltello e la ferita, il clown buono e il clown crudele che tortura l'altro”.     . .
Era nato nel 1897. Aragon non era il suo nome. Non ne aveva, figlio illegittimo di un prefetto di polizia e di una signora che non l'aveva riconosciuto, allevandolo come un fratello minore. Straordinariamente dotato, quando a 19 anni si iscrisse alla facoltà di medicina, aveva già composto sei romanzi di quelli che si buttano e uno che non sarebbe stato buttato. Ma già il 1916, la guerra, dove si sarebbe battuto valorosamente, si sarebbe coperto di medaglie, ma soprattutto avrebbe incontrato Breton e Soupault.
Con loro inizia la sua vera strada. Lascia la medicina, lavoricchia nel mondo teatrale, scrive e scrive. E' dadaista, poi surrealista e con i surrealisti si incontra e si scontra col neonato partito comunista. Nel 1924 il suo Moscou la gateuse (qualcosa come “Mosca, la rimbambita”) provoca le urla del Pcf; ma nel 1927 aderisce al partito, assieme a tutti i surrealisti che col manifesto del 1929 tentano un estremo accordo.
Gli altri ne usciranno, lui no. Dopo un tentativo di suicidio a Venezia, ha incontrato Elsa Triolet, sorella di Lilì Brik, che lo porta a Mosca e lo convince delle buone ragioni del socialismo reale. Nel 1930, al convegno di Kharkov, dove è andato a difendere le tesi surrealiste, si è di colpo allineato su quelle sovietiche. Nel 1932 è la tempestosa rottura col suo gruppo, l'inizio di un rapporto senza più incrinature col partito comunista. Diventa giornalista dell' “Humanité”, poi di “Ce soir”; durante il patto russo sovietico si negherà alla «Drôle de guerre» terminando nell'ambasciata del Cile Les voyageurs de l'imperiale. Poi farà la resistenza, il Comité des écrivans da cui nasceranno le “Lettres Françaises”, di cui diventerà direttore nel 1949.
E' il suo periodo più torbido. Chi ha steso le liste degli intellettuali da epurare? Forse anche lui. Chi ha trattato Nizan da poliziotto troschista? Lui, in un ritratto letterario ignobile. Chi si schiera con Zdanov, auspice Thorez, scoprendo che il più grande pittore del tempo è Fougeron e il più grande scrittore è André Stil? Nel 1950 diventa membro supplente del Comitato centrale, effettivo nel 1954. E' ormai nel partito l'intellettuale più potente, perché più noto: non ha mai smesso di scrivere, e mai la Francia colta lo ha messo al bando. Il suo primo premio letterario, l'ambito Renaudot, è del 1936 per Les beaux quartiers.
Nel 1956 sarà fedelissimo al partito del «presunto rapporto segreto», ma riprenderà una sua libertà nel proprio campo. Le “Lettres Françaises” ospiteranno nomi che sempre meno hanno a che vedere con l'ortodossia, da Beckett a Genet; in compenso non ci sarà mai la firma di Aragon su una dichiarazione o un appello che scartino dalla linea del partito. Nessuno come lui ha applicato il patto di non ingerenza tra intellettuali e politica dopo averne duramente applicato e rischiato la mannaia; nel 1949, Thorez assente, August Lecoeur aveva tentato di fargli la festa per un ritratto di Stalin fatto da Picasso, poi pubblicato, in morte del leader sovietico, sulla sua rivista. Il prezzo che il Pcf deve pagare per averlo con sé è tollerare la difesa di Siniavski e Daniel e, dopo l'invasione cecoslovacca, gli scritti di Milan Kundera, e un suo editoriale intitolato Un Biafra dello spirito. Ma nel 1968 Aragon è a lato del maggio. Non lo vede; nel 1970 non vede la cacciata di Garaudy dal partito, non protesta.
Solo poco dopo la morte di Elsa, un dolore vero, lo indurrà a ripiegare per la prima volta su se stesso: il poeta dell'impegno riscattato nella forma, il solo che abbia dato alla resistema versi perfetti e cantabili, l'inventore dei «couleurs de la France», parla di sé con se stesso, scopre il dubbio. Ne fa ancora una volta forma. E si permette in età molto tarda, il ritorno ai gesti dell'antico surrealismo: si presenta mascherato a una festa dell’Humanité, gira in mantellaccio nero e stetson, sottolinea le stravaganze dei modi e delle frequentazioni.
Non sì è mal fatto un'autocritica. George Marchais è uscito piangendo davanti alle telecamere dopo averne visitato la spoglia e Francois Mitterrand gli ha dedicato un elaborato elogio.

"il manifesto", 28 dicembre 1982

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