Visto che nulla sappiamo di noi e del mondo se la letteratura non ce lo apprende, credo che giovi – in questa orribile e regressiva mondializzazione che ha cambiato la nostra condizione e noi stessi in peggio – rileggere (o leggere per la prima volta) i romanzi americani che ci raccontarono la Grande Depressione che seguì la crisi del 29. Leggere Faulkner, naturalmente e in primo luogo; e, subito dopo, La via del tabacco di Erskine Caldwell. Lo si può nella nuova traduzione che nell’articolo qui postato Trevi giudica ottima o in quella antica della Martone nell’edizione Einaudi, in cui io e tanti l’abbiamo apprezzato. L’articolo qui postato – di non comune acutezza critica interdisciplinare – contiene una lapidaria definizione del capolavoro di Caldwell, degna di trascorrere nei manuali scolastici: “un’apocalisse venata di quel comico che è il lato più oscuro di ogni tragico”. (S.L.L.)
È sicuramente un segno dei tempi il fatto che a presentare ai lettori italiani una nuova edizione di un classico del realismo come La via del tabacco di Erskine Caldwell, nell’ottima traduzione di Luca Briasco (Fazi, pp. 217, € 18,50), non sia né uno studioso accademico, né uno scrittore mainstream di oggi, ma Joe R. Lansdale, il re texano dello splatter più estremo e ripugnante, l’autore della famigerata Notte del drive-in, e in tutti i sensi il più cafone tra i grandi scrittori contemporanei (ricordo solo l’inizio di un suo racconto: «mi compro una bambola gonfiabile perché voglio qualcosa da scoparmi senza doverci per forza parlare»).
A parte tutto, l’eredità rivendicata da Lansdale è legittima, non fosse altro perché Caldwell, nelle sue pagine più famose, si dimostra un supremo e sovrano artista dell’effettaccio. Lansdale ha buon gioco nel ricordare anche i tanti processi per oltraggio subiti dall’autore della Via del tabacco, soprattutto all’inizio della sua carriera (Bastardo, il libro d’esordio, è del 1930). Più interessante è il fatto che molte pagine del capolavoro di Caldwell, datato 1932, riescano ancora oggi a produrre in chi le legge un notevole effetto perturbante, con una straordinaria economia ed efficacia dei mezzi. Da un certo punto di vista, ciò ha a che vedere con i contenuti espliciti della Via del tabacco, che è una rappresentazione fin troppo vivida della brutalità e degradazione fisica e spirituale di un mondo contadino ridotto letteralmente alla morte per fame, come in una carestia medievale, dalla Grande Depressione. Ma Caldwell è uno scrittore troppo grande perché il quadro storico e sociologico, come tutto ciò che pertiene alla contingenza, non finisca per trasudare abbondanti dosi d’eternità. L’odore di questa trasudazione, bisogna aggiungere, è quello di gente che non si è mai lavata in via sua, e tende ad andare a letto coi vestiti, almeno finché possiede dei vestiti e un letto.
Fino a un certo punto, la figura artistica di Caldwell può essere considerata in parallelo a quella di un altro protagonista del suo tempo, che gli è perfettamente coetaneo, Walker Evans. Sono nati entrambi nel 1903, Caldwell in Georgia ed Evans a St. Louis, nel Missouri. Entrambi hanno perlustrato il Sud degli Stati Uniti negli anni della Depressione, quando la catastrofe agricola ridusse un intero mondo di braccianti e mezzadri a livelli di miseria mai sperimentati. Sia nei libri di Caldwell che nelle fotografie di Evans, però, la sostanza è quella di ogni «classico» consapevole di esserlo: pur dotato di tutte le stimmate del tempo storico, è l’Uomo Come È Sempre Stato che si mostra a figura intera, come una statua scolpita dal suo stesso destino. È a questo punto che le vie di Evans e Caldwell divergono, rimanendo però simmetriche e complementari. Perché Evans, nelle sue foto, tende a nobilitare: non in base a una scelta preconcetta, a una qualche forma di umanistico ottimismo sovrapposto di forza all’immagine, ma perché questo è il suo istinto di uomo e di artista, la disposizione d’animo fondamentale che lo guida.
Le stesse identiche verità catturate nelle fotografie di Evans spronano Caldwell in tutt’altra direzione: esasperato dal bisogno e dalla mancanza, il suo pessimismo antropologico non prevede attenuanti, non si pacifica né si adatta a più miti consigli. Jeeter Lester, il protagonista della Via del tabacco, è una specie di Giobbe demente e violento, messo in ginocchio da una miseria diventata «il
mistero insolubile della sua vita». È la splendida sintesi morale di un uomo al quale nessuno fa più credito nemmeno per i pochi dollari necessari a procurarsi le sementi e il guano per seminare il cotone nella sua terra. «Non riusciva ancora a capire perché non avesse niente, e non c’era una sola persona che lo sapesse e potesse spiegarglielo». Ma è tutta la famigia Lester, ripugnante animale ferito, a patire senza capire. C’è Ada, la moglie di Jeeter, ossessionata dall’idea di procurarsi un vestito decente con il quale essere seppellita. E gli unici due figli rimasti a casa: Ellie May, sfregiata dal labbro leporino, e Dude, un adolescente che sposa Bessie, la vedova di un predicatore con due buchi al posto del naso senza cartilagine, sedotto dall’idea di poter guidare la sua macchina nuova. Ma non si può dimenticare, in questo grottesco album di famiglia, la madre di Jeeter: una vecchia
sempre muta, disperata per la fame, maltrattata da tutti, nutrita di avanzi, quando c’è qualcosa che avanza, come una bestia inutile e detestata.
In una delle scene più raccapriccianti del libro, destinata a incidersi indelebilmente nella memoria dei lettori, questa vecchia viene travolta dall’automobile di Bessie e Dude, e rimane lì, nell’aia dei Lester, senza che nessun membro della famiglia se ne occupi – nemmeno per verificare se è viva o morta.
Anche se qualunque luogo del Sud rurale potrebbe assomigliare al paesaggio descritto nel romanzo,
Caldwell ambienta La via del tabacco in Georgia, sul versante occidentale della valle del Savannah. In questa regione, sono molto frequenti le cosiddette vie del tabacco: lunghe piste sabbiose tracciate sul crinale delle colline tra le piantagioni, lungo le quali venivano trasportate fino al fiume le botti piene del tabacco appena raccolto. All’epoca del romanzo, ormai solo qualche disperato in cerca di un’occasione per sopravvivere percorre queste strade abbandonate, che diventano il simbolo eloquente di una vita che ha perso ogni significato, mostrando al cielo le sue rovine.
Eppure, per gente come Jeeter, trasferirsi in città per cercare un altro tipo di lavoro non è pensabile. Se Dio li ha voluti contadini legati alla terra, non finiranno i loro giorni in una fabbrica. Questo Dio di Jeeter Lester, dal canto suo, non è molto più intelligente dei suoi devoti seguaci. I suoi sono i decreti di un pazzo sadico, del tutto affine all’inferno a cui sovrintende. «Dio potrebbe imbestialirsi e farmi secco sul colpo», ragiona Jeeter, escludendo la possibilità di abbandonare i campi: «ma potrebbe anche lasciarmi lì fino a quando non muoio, per torturarmi in continuazione con le sue diavolerie. A volte è questa la punizione che preferisce impartire».
Procedendo per blocchi narrativi abbastanza autonomi, con una tecnica che ricorda più il teatro o magari i cartoon che il romanzo vero e proprio, Caldwell riesce alla perfezione nel suo intento artistico più segreto, che è quello di costruire una totalità, un’immagine del mondo tanto più universale quanto più edificata sull’eccezione intollerabile, sullo stato d’emergenza, sulla deformità
dei corpi e delle menti – l’una a perpetua immagine dell’altra.
Chiuso il libro, e ancora saturi del profondo disagio che è riuscito a trasmetterci, ci rendiamo conto che solo in modo formale La via del tabacco appartiene alla storia del romanzo americano, o del romanzo in quanto tale. Più esatto sarebbe affermare che il capolavoro di Caldwell, sotto le mentite spoglie del libro-verità e della denuncia, è una specie di Finale di partita, di Classe morta. Un’apocalisse venata di quel comico che è il lato più oscuro di ogni tragico. Si capisce bene anche l’imbarazzo di una Flannery O’Connor, che pure, specialmente nei suoi due romanzi, qualcosa dalla
Via del tabacco deve avere imparato («la maggior parte di noi, credo», dichiara preoccupata Flannery in una delle sue conferenze sulla narrativa del Sud, «è considerata un’infelice combinazione di Poe ed Erskine Caldwell»). Quello che ammiriamo, nella Via del tabacco, non è né un’idea, né una prospettiva, e nemmeno una particolare forma di compassione, ma il rigore di un’energia visionaria ancora intatta, il nichilismo senza compromessi, accompagnato dalla più lucida coscienza di come vanno le cose nel mondo, tra fame e lussuria, cecità e privazione. Questo pugno nello stomaco a forma di libro ha già ottant’anni, ma proprio non li dimostra.
“alias – il manifesto” 18 giugno 2011
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