7.3.13

Ligdamo a Neera. La Festa della Donna nell'antica Roma

Il terzo e ultimo libro del Corpus Tibullianum non contiene poesie di Tibullo come i due che lo precedono, ma testi elegiaci di vari autori, pubblicati fin dall’antichità insieme alle elegie di Tibullo, forse perché come esse provenienti dall’archivio di un dotto e ricco uomo politico, Messalla Corvino, protettore di poeti.
Le prime sei elegie del libro sono indirizzate da un non meglio noto Ligdamo a una Neera. Il testo che segue è una mia traduzione della prima di esse, la poesia dedicatoria che apre il libriccino dei versi amorosi, che si immagina inviato in regalo per il primo di marzo, giorno delle Calende. 
Era uso romano, al tempo d’Augusto, che in quel dì l’uomo facesse un regalo alla propria moglie, amante, innamorata o concubina, come manifestazione di un sentimento duraturo.
Ho il vago sospetto che qualcosa di questa antica tradizione si sia conservato nelle trasformazioni che ha avuto ai nostri giorni la ricorrenza dell’Otto Marzo. 
Nata nell’ambito della Seconda Internazionale come Giornata mondiale di lotta delle donne lavoratrici, connessa a luttuosi eventi di lotta operaia, sancita come tale dall’Internazionale comunista, passata poi attraverso il filtro del femminismo radicale che ne fece emblema della contraddizione di genere e dell’orgoglio femminile (interclassista), la celebrazione dell'8 marzo è stata un po’ sterilizzata. Si continuano a denunciare discriminazioni ed ingiustizie a carico delle donne (particolarmente forte è oggi la protesta sacrosanta contro i femminicidi e le violenze maschiliste dentro la famiglia), ma spesso si utilizza la ricorrenza per cene di donne sole cui fa da pendant un omaggio maschile a mogli, compagne, figlie, madri attraverso doni e mimose. Io, pur essendo un po’ “vetero” , non vedo niente di male in tutto ciò, a condizione che si aggiunga ai temi classisti e femministi dell’Otto Marzo senza cancellarli o annacquarli.
La traduzione che segue nacque come accompagnamento delle mimose in uno dei primi anni Ottanta, quando speravo di far rivivere e durare un grande amore che sembrava (e tuttora sembra) finito. Qualche (lieve) libertà nella traduzione è connessa all’uso che feci allora della poesia, per la verità senza grandi risultati. La propongo qui perché altri possa, piacendogli, servirsene: magari andrà meglio. (S.L.L.)

Eccola dunque la festa di Marzo
- da qui per gli avi l’anno risorgeva –
in processione i doni per le strade
corrono dritti a meta stabilita.
O Muse quale dono? quale dono
può onorare Neéra, lei ch’è mia
o, se pure non l’è, certo mi è cara?

Del prezzo s’innamorano le avare,
coi versi si conquistano le belle.
Si goda i versi miei lei che n’è degna.

Color di sabbia una membrana avvolga
il mio libretto bianco come neve,
la carta sia sottile e decorata,
una fascetta indichi il mio nome.
Così addobbato giunga il mio lavoro.
E voi, o Muse, che lo porterete,
voi del mio canto dolci ispiratrici,
consegnatelo intatto a casa sua,
nessun colore svanisca o scompaia.

Lei mi dirà se come un tempo m’ama
o se le sono caduto dal cuore.
Ma prima voi portatele un saluto
e sussurrate con dolci parole:

“Questo ti manda, limpida Neéra,
chi ti fu amante ed ora ti è fratello.
Piccolo dono ti prega che accetti
e ti ricorda che gli sei più cara
dell’anima, del cuore del suo cuore,
sia che tu voglia essergli sorella
oppure ancora come un giorno amante.
Ma egli spera di chiamarti amore;
soltanto l’acqua livida di Dite
potrà strappargli, quando sarà morto,
questa speranza di chiamarti amore”.

Corpus tibullianum, III, 1
Traduzione di Salvatore Lo Leggio

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