6.3.13

Nel segno di Leopardi. Capitini poeta (di Walter Cremonte)

A metà gennaio nella Biblioteca di San Matteo degli Armeni, a Perugia, si è svolto un incontro sulla poesia di Aldo Capitini, aperto da una densa relazione di Walter Cremonte. Il poeta perugino proclama trattarsi essenzialmente di un caldo invito alla lettura, ma a chi l’ha ascoltata e a noi che abbiamo avuto accesso ai suoi appunti sembra molto di più. In attesa della pubblicazione integrale “micropolis”del 5 marzo ne ha offerto  ai suoi lettori un’anteprima, che qui posto. (S.L.L.)
Aldo Capitini
La poesia di Aldo Capitini è una poesia che nasce dal dolore, dalla consapevolezza del dolore, e dalla ribellione, come la sua pedagogia (e dunque la sua filosofia, la sua religione, che nella pedagogia si incarnano), che - come dice benissimo Massimo Pomi in L’atto di educare, Armando, 2010, - “muove da un ‘no’ fermo e mite, ad occhi asciutti, scaturito da un’ostinata fedeltà a quel tragico sentimento del vivere che Lamberto Borghi riconosceva a lui e a pochi altri di quella ‘generazione infelice’…” (e naturalmente Borghi si riferiva ai pedagogisti, ma se pensiamo ai poeti di “quella generazione “ il discorso si allarga di molto…).
Questo dolore e questa rivolta, questa lotta con la storia e la realtà (la realtà insufficiente, che lo porterà a scrivere, nel “Colloquio corale”: ”C’è qualche cosa di più della terra, delle sue tre o quattro dimensioni”), affondano certo le radici nella faticosa e sofferta formazione adolescenziale e giovanile, che in una certa misura segnerà la sua vita (e si possono vedere a questo proposito gli studi di Angelo Di Carlo sulla biografia). Penso anche che decisivo, in questa esperienza insieme esistenziale e storico-culturale della crisi, sia l’incontro con Leopardi, un Leopardi non limitato, come dalla lettura critica in quegli anni dominante, alla dimensione idillica. Non si spiegherebbe altrimenti questo passo eroico, non rassegnato del Capitini di “Religione aperta”, dunque più tardo ma sicuramente maturato in quegli anni di dolorosa e ardente formazione, che tutti abbiamo nella memoria come un atto educativo fondamentale della nostra stessa formazione umana: “Quando incontro una persona, anche un semplice animale, non posso ammettere che poi quell’essere vivente se ne vada nel nulla, muoia e si spenga, prima o poi, come una fiamma. Mi vengono a dire che la realtà è fatta così, ma io non accetto”. 
La prima testimonianza del leopardismo - se così posso dire - di Capitini è per me, nella mia vita prima che in una riflessione teorica, in un ricordo che ho molto caro. Ero ancora un ragazzo, liceale: un giorno Capitini, tenendomi una mano sulle spalle, mi guidò alla terrazza della sua casa a Villaggio Livia e, mostrandomi il paesaggio in tutta la sua ampiezza, mi parlò di Leopardi. Non sono sicuro di ricordare il nesso tra paesaggio e Leopardi, ma ricordo che, allora, intuii, o meglio sentii, per la prima volta e in modo ancora vago, che Leopardi sarebbe stato un autore della mia vita, ben al di là dell’obbligo scolastico (sia come studente prima, che come insegnante poi). La conferma, piena e definitiva, l’avrei avuta molti anni dopo, grazie alla grande lezione di Binni sulla Ginestra, alla conferenza per le scuole perugine del 1987. Ma qui, nella poesia e nel pensiero di Capitini, Leopardi è presente da sempre: dal giovanile Terrena sede, del ’28, dove, in un contesto segnalato da Sargentini come ancora prevalentemente pascoliano-dannunziano (ma io azzarderei anche più indietro, foscoliano e carducciano nel solco del classicismo e, diciamo pure, del tradizionalismo), l’influenza leopardiana si avverte ancora in modi piuttosto esterni, di scuola; ma come è commovente sentire, in questo esordio poetico, l’eco dei versi di Leopardi, già tanto amati: “Così nei dì festivi… ognuno si rallegra”, “aperto alla sua gioia / semplice e fuggitiva”. Ma da Sette canti, del ’31, di cui resta impressa soprattutto l’endiadi di madre e di terra (umbra) nel segno dell’umiltà, e poi molto più da Atti della presenza aperta, del ’43, dove così forte è la suggestione francescana (ma autentica: “Come potrò saldare il debito verso ognuno che soffre?”, “tutti i sofferenti, gli sconfitti, i morti, gli spezzati dalla tortura, i piagati”; non dunque il francescanesimo, davvero insopportabile, alla moda, estetizzante, dannunziano); e infine pienamente con Colloquio corale, del ’56, prende slancio e vita un leopardismo più di profondità, non più il riecheggiamento amorevole, ma, prima in terzine che, per scelte linguistiche, rasentano un  tenore talvolta quasi dantesco, poi con un verso libero salmodiante tendente a una prosa poetica propria della moderna poesia religiosa, nei modi in particolare che ricordano la lauda drammatica, via via più posseduta e originalmente dominata, la conquista sempre più certa di una forma di pensiero-poesia, o pensiero poetante: pensiero che si fa poesia e poesia che si fa pensiero, denkende Dichtung e dichtendes Denken, nella lingua di Heidegger,  che ci rinvia al Leopardi ribelle e profetico della grande Ginestra, sintesi suprema della nostra moderna poesia filosofica e sentimentale, e che in Capitini potremmo, forse, tradurre con la parola capitiniana (e qui magari forzo un po’) “persuasione”.
Non sarà un caso se negli Atti della presenza aperta ritroviamo un versetto che, in forma di domanda (ma di domanda retorica, la cui risposta è senz’altro “sì”), sembra ribattere nei modi di una dolente consapevolezza al versetto di Giovanni (“E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce”), antifrasticamente posto in epigrafe alla Ginestra di Leopardi. Scrive a sua volta Capitini: “Non bastavano le tenebre a far dubitare della luce?”. E’ un interrogativo che colpisce a fondo e che valorizza straordinariamente gli esiti “ottimistici” (ma di un ottimismo ascrivibile alla volontà, e al sentimento) del riformatore Capitini.
E non è certo un caso che le più belle pagine sul Colloquio corale, vero culmine poetico e, vorrei dire, di pensiero di Capitini, le abbia scritte il più grande interprete di Leopardi, Walter Binni. Il saggio decisivo Aldo Capitini e il suo ‘colloquio corale’ è, tra un Ricordo di Aldo Capitini e l’epigrafe per la sua tomba, nel libro La tramontana a Porta Sole, che Binni ha scritto come omaggio-ricordo alla sua città e che, credo, tutti i perugini che tengono almeno un po’ a Perugia e alla sua storia e cultura hanno in casa, con sé.
In questo suo saggio Binni conferma autorevolmente quello che mi sembra di aver intuito, e che ho cercato di comunicarvi (quando parlavo di Capitini “prima di tutto poeta”), e cioè la “forza moltiplicatrice e anticipatrice della tensione poetica” rispetto alle posizioni teoriche: in questo caso del poetico Colloquio corale rispetto al teorico La compresenza dei morti e dei viventi. Dove (“Colloquio corale”) la compresenza è poeticamente, in pagine indimenticabili, la festa che ci unisce e ci accompagna, liberati, al momento della “buona notte ad amici e ad ignoti / ai morti riveduti nel lampo della festa” dello splendido “epilogo”. E, a sottolineare l‘ispirazione leopardiana profonda del “Colloquio”, Binni mette in evidenza l’atto di accusa da cui muove Capitini verso la realtà data (storica e naturale) e la sua lotta per una nuova realtà fraterna e solidale.

"micropolis", 5 marzo 2013 

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