5.3.13

Recanati. La biblioteca di casa Leopardi (di Massimo Raffaeli)

Monaldo Leopardi
«Li libbri nun so’ robba da cristiano», avrebbe scritto in uno dei suoi sonetti clandestini l’impiegato alla censura pontificia Giuseppe Gioacchino Belli. Costui svernava a Morrovalle, dalle parti di Macerata, tanto per la salubrità dell’aria quanto per una sua relazione sentimentale, ed è probabile (anche se non è provato) fosse al corrente del fatto che a pochi chilometri da Morrovalle e da Loreto, epicentro della cristianità, un nobile di antico lignaggio, Monaldo Leopardi di San Leopardo, Gonfaloniere di Recanati e ultrà dell’Antico Regime, disponesse di una biblioteca, qualcosa come 14.000 volumi, che non solo gareggiava con quelle di Roma ma era aperta ai cittadini del suo piccolo borgo fin dal 1812, anno mirabile per i reazionari e i sanfedisti di tutta Europa perché è quello in cui comincia a declinare, nelle steppe sarmatiche, l’astro dell’Anticristo in persona, ovviamente Napoleone Bonaparte.
Quando Napoleone era passato come un fulmine nelle terre pontificie della Marca, Monaldo aveva fatto chiudere dai servi le porte e le finestre del palazzo avito, si era messo la parrucca e lo spadino nobiliare portando un lutto che avrebbe prolungato per l’intera gravidanza di sua moglie, la marchesa Adelaide Antici, la quale il 29 giugno 1798 aveva partorito il primogenito, Giacomo Taldegardo Saverio, che nulla lasciava presagire avrebbe contraddetto le idee di suo padre e i costumi della stirpe. Uomo davvero singolare, in cui convivevano il fanatismo feudale e la dolcezza disarmata di un padre affettuoso, non avrebbe mai ammesso che proprio l’Anticristo aveva propiziato la costruzione della sua biblioteca sopprimendo i conventi e mettendone all’incanto i tesori bibliografici: Monaldo aveva infatti comperato alla meglio, tanto al chilo, nelle aste o alla fiera di Senigallia, magari di nascosto da una moglie, contadina gretta e nemica dei libri, che i parenti gli avevano accollato più che altro per tutelare il patrimonio di famiglia dai suoi eccessi giovanili di bon vivant e notorio giocatore d’azzardo. D’altronde Adelaide sapeva (e presto l’avrebbe saputo Giacomino) che la bibliofilia e la grafomania avrebbero salvato la vita di quell’uomo così contraddittorio e irresoluto, così diverso sottotraccia dall’austero patriarca di cui dicono le pagine della sua, pure notevolissima, Autobiografia .
Conosciuta sui manuali scolastici anche da chi non l’ha mai visitata per i proverbiali «sette anni di studio matto e disperatissimo» del figlio, aperta al pubblico da duecento anni esatti, ora la biblioteca di Monaldo è doppiamente accessibile grazie a una mostra, a cura di Fabiana Cacciapuoti e Vanni Leopardi, promossa sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica, dalla Regione Marche e da Casa Leopardi che la ospita nelle ex cantine al pianoterra del palazzo avito, Giacomo dei libri. La Biblioteca Leopardi come spazio delle idee. Di modeste dimensioni ma di autentico valore didattico e documentario, sobriamente impaginata, la mostra è sia la sezione antologica sia l’itinerario spazio-temporale della biblioteca integralmente visitabile al piano di sopra. Divisa in cinque comparti, segue la linea cronologica che va dall’età napoleonica al pieno della Restaurazione, scandita tra l’utopia libraria di Monaldo, ideologo legittimista e scrittore a tempo perso, e la maturazione del giovane Giacomo compiutasi un attimo prima della fuga dal natìo borgo selvaggio.

Inferno. Uno scaffale di "libri proibiti"
nella biblioteca di casa Leopardi

Per il visitatore non poche sono le sorprese e le conferme. Intanto, la struttura inusuale (già individuata dal grande Sebastiano Timpanaro) di un fondo librario cospicuo ma tutt’altro che organico, nonostante le continue integrazioni apportate a un patrimonio che oggi comprende 20.000 volumi, come testimoniano in mostra le polizze e i carteggi di Monaldo con i maggiori librai dell’epoca: gli scaffali abbondano di letteratura patristica e scolastica, di storia patria ed ecclesiastica, di una erudizione plurilingue, umanistica e scientifica, della messe sterminata dell’ellenismo, ma scarseggiano, in proporzione, i capolavori della letteratura greca classica (e stupirà, per esempio, che l’adolescente Giacomo non potesse leggere tragedie greche che per un liceale di oggi sarebbero ovvie).
Viceversa, sono presenti in biblioteca libri che ci aspetteremmo ignorati o condannati ai palchetti più invisibili della eresia e dell’empietà, mentre il loro numero è imponente e non esclude vere e proprie rarità, come certi Galileo, Montesquieu, Voltaire, Rousseau, Condillac, un Giaurro di Lord Byron voltato in italiano da Ludovico di Breme, Corinne ou l’Italie della signora de Staël e infine un Diderot proveniente dall’Enciclopedia, alla voce «Bello» (in francese, stampata a Padova nel 1784) che il conte bibliofilo ufficialmente condannava perché temeraria, blasfema, eppure la metteva ufficiosamente a disposizione dei concittadini e, per primo, di suo figlio.
Il libro più grande e segreto di Giacomo, lo Zibaldone, è appunto la riprova di come l’intera biblioteca di Monaldo, dopo un lungo e atroce fermento, avesse fecondato il pensiero del suo primogenito e cioè dello scrittore destinato a smentire clamorosamente, da poeta come da filosofo ateo e materialista, i valori essenziali dell’esistenza paterna. Il vecchio conte gli sopravvivrà di quasi dieci anni, congedandosi dal mondo e dai suoi amatissimi volumi il 30 aprile 1847, poco prima che col ’48 tornasse a trionfare l’Anticristo. Negli ultimi tempi pensava di continuo al figlio perduto e, dopo tutto, amato nel profondo: avrà maledetto in cuor suo gli scaffali incombenti su una biblioteca ormai deserta e magari si sarà convinto anche lui (insieme col censore pontificio, il gemello dialettale di Giacomo) che i libri purtroppo non sono roba da cristiani.

“La Stampa”, 19 luglio 2012

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