«I personaggi sono tratteggiati
molto rozzamente, i motivi delle azioni sono grossolani, le vicende goffe, e
tutto così inverosimile, specialmente la concatenazione dei fatti; si lascia
troppo al caso, la volgarità la fa da padrona». 1930. A lanciare questo j'accuse è Bertold Brecht; l'oggetto
incriminato è la detective story che negli anni 30 esplode come una delle forme
più vistose della novella letteratura di massa. Poco noto agli appassionati di
Poirot e di Miss Marple, in questi stessi anni, anche in Italia, il giallo fa
la sua parte suscitando tra consensi e dissensi l'attenzione di personaggi t di
tutto rispetto, da Gramsci a cui piace, a Flora a cui invece non piace affatto.
Sulla nascita del giallo
italiano, sui suoi eroi, così diversi dall'ispettore Maigret e da Sherlock
Holmes, hanno discusso per tre giorni giallofili di tutto il mondo, critici,
autori e lettori, riuniti in un convegno a Trieste, città diventata da qualche
anno insieme con Cattolica la patria adottiva del giallo.
Messi da parte i mostri sacri
della letteratura anglosassone americana, questa volta alla ribalta sono stati
soprattutto loro, i vari De Vincenzo e Richard, i protagonisti dei romanzi di
De Angelis e D'Errico, i più noti rappresentanti della pri¬ma generazione di
giallisti italiani.
«Gli anni Trenta infatti, — ha
spiegato Giuseppe Petronio, autore di Il
punto sul romanzo poliziesco da poco pubblicato nelle edizioni Laterza —
segnarono l'esordio di due scuole all'interno del genere classico: quella
psicologica alla Simenon, e quella d'azione alla Chandler, in sintonia la prima
con la realtà francese, la seconda con la società americana del tempo con la
sua prepotente letteratura realistica, con quel , filone di dime-stories, di letteratura popolare da
quattro soldi, da cui Hammett e Chandler provenivano. Sulla scia di queste due
scuole nascono il giallo tedesco e quello italiano. In Germania negli ultimi
anni Trenta il giallo fu abbastanza diffuso, in polemica con quello
anglosassone e in versione nazionalsocialista, finché nel 1941 non fu proibita
la vendita».
«Il giallo italiano — ha aggiunto
Gianni Canova dell'Università di Milano — nasce nel '29 quando Mondadori dà
inizio alla serie detta gialla dal colore della copertina». Mondadori, è noto,
aveva già inaugurato altri colori un po' meno fortunati: l'azzurro per la
narrativa, il verde per la storia romanzata, il bianco per il fantastico. «La
serie gialla — racconta ancora — ha una nascita artificiale, da laboratorio;
viene imposta quando, dopo una serie di indagini tra ì lettori, si scopre che
la detective story inglese, americana
e francese è popolarissima tra gli italiani. Gli eroi stranieri però non vanno
bene alla censura fascista, che pretende almeno il 20% di autori nostrani. E
così i vari Varaldo, De Stefano, Spagnol e D'Errico vengono per così dire
riciclati. Il risultato è una specie di pastiche pieno di prestiti da altri
generi, tutto proiettato su uno sfondo agreste e idilliaco in perfetto ossequio
alla geografia fascista. Lo spazio del giallo italiano è quello di un mondo
oleografico, provinciale, claustrofobico. Per gli italiani, spiega Canova, è
difficile inventare il prototipo del detective che è del tutto assente dalla
scena nazionale: come si fa a inventarsene uno quando si vive in un paese in
cui vige la sana abitudine di mettere in galera i sospettati? Che il giallo
nasca in democrazia è del resto un'opinione diffusa tra gli studiosi. Persino
la morte finisce per assumere connotazioni del tutto diverse, qualche volta
sparisce addirittura. La tendenza prevalente è verso la costruzione di un
universo assolutamente incruento. Nella Crociera
del Colorado di De Stefani, per esempio, alla fine c'è solo un suicidio per
amore. La stessa rimozione la troviamo nelle Scarpette rosse dove l'ordine infranto non viene ripristinato
secondo quella che per W. Benjamin è la dinamica del giallo borghese, per il
semplice fatto che non è mai stato violato. Spesso poi al delitto viene
preferito il furto che tutto sommato è il crimine peggiore, giacché, scrisse
Varaldi «le persone passano ma le cose restano, e la società si poggia sulle
cose».
Il fantasma del delitto lo aggira
con un sentimentalismo patetico e rassicurante anche E. D'Errico, il creatore
del commissario Richard della Sureté di Parigi, le cui inchieste si svolgono
tutte nella capitale o nella provincia francese in omaggio alla norma fascista
che vuole il colpevole non italiano.
Antonio De Angelis è l'autore di
una sorte di manifesto del giallo italiano: «l'essenziale per me è creare un
clima, far vivere al lettore il dramma. E questo lo si può ottenere anche
facendo svolgere la vicenda in Italia con creature italiane. Dopo tutto questa
è pur sempre la terra dei Borgia, di Ezzelino da Romano, dei papi, della regina
Giovanna. Se il romanzo poliziesco deve nascere anche da noi ha da essere
romanzo italiano... Metterci proprio noi a scrivere storie poliziesche che si
svolgono su suolo straniero, non potrà mai costituire esercitazione artistica
nonché arte».
De Angelis non è il solo a
preoccuparsi delle fortune possibili di un giallo all'italiana, racconta Renzo
Cremante. I commenti per tutto il decennio fioccano da ogni parte. Piovene
sull' “Ambrosiano” del 6 agosto del 1932 scrive che il rapporto con il macabro,
rivitalizzato dalla psicologia è l'elemento più interessante dell'arte moderna;
il romanzo giallo con la sua indiscriminata vicinanza di normale e anormale, di
patologi¬co e di pauroso, è l'espressione letteraria delle nuove tendenze.
Per Pavolini (“Scenario”
settembre 1935) il giallo è la riscoperta della dimensione simbolica, la
rappresentazione dell'inconscio collettivo. Vinicio Paladini invece s'interroga
sulla convivenza formale della analisi frazionale — la detection — con il gioco del mistero. Un interrogativo riproposto
anni più tardi da Sciascia, per il quale, a proposito della doppia natura del
giallo, andrebbe interrogato il dottor Freud.
l’Unità, 2 giugno 1985
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