Nel 1972 Fernanda Pivano pubblicò
per la prima volta Beat hippie yippie.
Dall’underground alla controcultura,
un volume che raccoglieva in sei capitoli preceduti da sugose introduzioni,
molti degli articoli, dei commenti, dei brevi saggi apparsi su giornali e riviste,
che la scrittrice aveva pubblicato nel decennio precedente. Nella mia
generazione circolava un antiamericanismo che, a volte, investiva tutto ciò che
veniva dagli Usa, anche ciò che si opponeva al potere imperiale, bellicista e
militarista e finiva per dare poca importanza alla generalizzata ribellione
della gioventù americana, perfino ignorando gli oscuri eroismi di quella lotta
(penso per esempio alle centinaia di migliaia di ragazzi che stracciarono le
cartoline-precetto dello zio Sem e scelsero in Canadà o in Europa un esilio non
dorato). Fu la Pivano, splendida traduttrice, appassionata dell’America,
scrittrice di vaglia, a farci conoscere quell’Altra America, dei beat e dell’underground, dellla musica e del teatro
d’avanguardia, dell’antirazzismo, del pacifismo non violento. Non tutti e non
sempre noi politicizzati condividevano gli entusiasmi di Fernanda che amava
definirsi una non-politica e una pasionaria, ma tutti imparammo dalle sue
cronache, dalle sue ricognizioni storiche, dai suoi racconti. Quel libro del
1972, ripubblicato in economica dal 1977, è rimasto, come una sorta di piccola enciclopedia, come un manuale di consultazione sul “movimento” in America.
Quel che allora e ancora ci stupisce della Pivano sono il candore e l’innocenza con cui guardava
al mondo come pure la freschezza comunicativa che non diminuiva con il trascorrere degli
anni.
Per ricordarla, nel quarto
anniversario della morte, ho ripreso un testo minore, la breve cronaca di un
giorno importante, il 15 ottobre 1969, quando – a sorpresa – in tutti gli Stati
Uniti milioni di persone sfilarono per la pace e per la moratoria
nell’armamento nucleare. La cronaca è in differita, scritta qualche tempo dopo
l’evento, ma sembra in diretta. Non mi piace l’ostilità della Pivano contro i
“pugni chiusi” del Potere Nero e dei movimenti di contestazione che non
rifiutavano la violenza, ma forse il suo settarismo è una sorta di “fallo di
reazione”. Mi piace moltissimo, invece, la piena immersione nel mondo che si
rappresenta, una forma di conoscenza assai diversa dalla “distanza” degli
scienziati, ma come quella produttiva. (S.L.L.)
Moratorium Day (Oct. 15 1969: Worker for Peace)
Quel giorno la vita commerciale
USA si bloccò. A New York, per esempio, la gente si riunì in Park Avenue e di
lì si diramarono quelli che distribuivano volantini e bottoni: il Comitato del
Greenwich Village alle fermate del metrò e davanti ai magazzini di lusso della
Quinta Strada, l'Associazione Femminile dello Sciopero per la Pace nei supermarkets. Qualcuno con la chitarra
andò a cantare sui gradini della chiesa di St. Patrick. Le bandiere in tutta la
città erano esposte a mezz'asta per ordine del sindaco Lindsay (tutte tranne
quella sul grattacielo del « New York Times », perché la bandiera a mezz'asta
avrebbe rappresentato una partecipazione politica fuori di quella dichiarata
nell'articolo di fondo. Anche l'Università di Harvard non prese posizione per
il Moratorium, perché l'ultima volta che si impegnò politicamente fu nel 1773,
quando decise di non bere più tè in segno di protesta contro la tassa di
Giorgio III).
Verso le quattro e mezzo una gran
folla si ammassò a Bryant Park, dietro la Biblioteca Pubblica, per ascoltare i
discorsi di Gene McCarthy, John Lindsay e un'altra decina di conferenzieri,
mentre i palloncini neri — a lutto — venivano mandati in aria ciascuno col nome
di un morto in Vietnam.
Non ci furono vetrine sfasciate:
i Poteri della violenza erano assenti e stavano già organizzando la «Marcia
verso la Morte» su Washington da farsi il mese dopo. Gli estremisti
dell'immobilismo qualunquista e quelli dei commandos rivoluzionari per una volta
erano d'accordo, nella sorpresa: non si aspettavano che una dimostrazione così
poco ortodossa potesse «riuscire» con tanto globale magnetismo.
Per le strade, come se fossero
scaturiti da un sottosuolo senza fondo, pareva di vedere soltanto ragazzi scoloriti
e emaciati, spettinati e sbrindellati, con gli sguardi un po' troppo brucianti
e i gesti un po' troppo lenti, che si salutavano con le dita a V, il saluto
della pace, molto più sovente che col pugno chiuso della rivoluzione violenta.
Nel parco della Biblioteca si sedettero o si sdraiarono per terra; qualcuno si
arrampicò sugli alberi «per vedere», qualcuno camminò in circolo alzando le braccia
e sillabando la parola «pace», qualcuno andò in giro (finché si poté circolare)
col gruppetto del Rama Krishna, saio arancione buddhista, testa rapata tranne
un lungo codino, tamburelli, flauti, anche una ragazza con grandi scarpe e
grandi occhiali; molti sedettero in circolo intorno al gagliardetto del Gay
Power, il Potere Omosessuale, giovanotti allegri vestiti da freaks o, diciamo, in modo molto
creativo.
La sera le strade erano
letteralmente coperte di pezzetti di carta stampati in tutti i colori e di
bracciali azzurri con la scritta Work for
Peace e di bracciali neri a lutto e di bottoni di ogni sfumatura pacifista.
Verso le otto cominciarono a confluire verso il parco della Washington Square
sfilate di candele accese …
Ancora più tardi, verso le
undici, coi marciapiedi sdrucciolevoli di cera, un po' come quella pagoda d'oro
di Rangoon solo che non c'era bisogno di camminare scalzi, si incontravano
gruppi sempre più piccoli, ancora con qualche candela accesa, di gente che
tornava a casa. Ci si salutava magari da lontano, ma ormai pugni chiusi non se
ne vedevano più: quelli che erano ancora in giro si salutavano soltanto per la
pace.
da Beat hippie yippie,
Tascabili Bompiani, 1977
Nessun commento:
Posta un commento